Post in translation: Abdalhadi Alijla
Fine del gioco
di Abdalhadi Alijla
traduzione dall’inglese di Fabiana Bartuccelli
Ho aperto gli occhi al mondo in una città in cui non c’era vita per l’infanzia. Ho aperto gli occhi in un campo di battaglia. Nessuno mi aveva detto chi fossero i soldati, o cosa fosse l’occupazione.
Sono cresciuto pensando l’anormalità come normale, pensando che quelle persone che incutono paura, sempre e ovunque vadano, non ci appartenessero.
Quando ho aperto gli occhi al mondo, pensavo che quei giovani adulti e i ragazzi che fuggivano dai soldati stessero giocando a nascondino o forse praticando il loro hobby della pesca.
Mi sbagliavo.
Col passare dei giorni, delle settimane, di mesi e forse anni, ho iniziato a capire che quegli uomini armati sono il nemico, l’occupazione, e che non hanno altro intento che quello di uccidere.
La prima volta che me li sono trovati davvero vicino, è stato quando con mia madre andavamo per la strada principale verso il mercato. Avevo tre anni.
I veicoli arrivavano da lontano e la gente ha cominciato a correre.
Mia madre mi ha tirato improvvisamente più vicino a sé, mi ha preso in braccio e camminando mi teneva stretto mentre osservava le tre jeep militari che passavano.
Sentivo i suoi battiti cardiaci in quella stretta. Quando mi ha rimesso giù, ho avuto una ventata di sollievo seguita da una vampata di confusione.
In quel momento, ho capito che qualcosa non andava. Non mi ha mai più portato con lei al mercato.
Il mio primo gioco con i coetanei del quartiere, si chiamava “Ebrei e Arabi”. Le prime volte, non ho rifutato l’idea di fare l’ebreo, che qui voleva dire l’esercito, “Al Jaish”.
Un giorno, ci siamo riuniti nel quartiere per giocare a “Ebrei e Arabi’, avevo quattro anni. Essendo il più giovane del gruppo, mi dissero che sarei stato io il “Jaish”.
– “No. Io voglio essere arabo”, ho detto.
– “No, noi siamo gli arabi, tu sei un ebreo, tu stai con loro”, ha sottolineato al gruppo uno dei bambini più grandi.
Non ero contento di questa cosa e ho detto:
-“Io non voglio essere un ragazzo cattivo. Non sarò un soldato”.
Mi sono sentito preso d’assalto e arrabbiato, così sono andato a sedermi su uno dei blocchi di cemento vicino al muro dei nostri vicini a guardarli giocare. Gli arabi lanciavano pietre e insultavano gli “ebrei”, mentre i ragazzi che interpretavano i soldati facevano finta di sparare, riproducendo il suono dello sparo con le labbra. Quando finivamo di giocare, di solito andavamo a installare un posto di blocco tra le rocce e i rami degli alberi, costringendo i veicoli a rallentare, mentre impugnavamo i nostri bastoni di legno, simulando pistole.
I conducenti avrebbero avuto reazioni diverse. Alcuni ci avrebbero lodato chiamandoci “eroi” e aggiungendo un po’ di gioia mostrandoci la loro carta d’identità. Altre volte, avremmo trovato delle teste dure che iniziavano a insultarci ancora prima di arrivare, annunciando così la fine del gioco.
Un giorno, i miei occhi sono stati attirati da un giornale che qualcuno aveva gettato in strada. Ho sempre avuto una certa passione per le foto dei giornali. Mi sono avvicinato lentamente, coi piedi scalzi e coperti di polvere per aver corso e camminato così nelle vie, ho preso il giornale e l’ho portato a lato della strada, andandomi a sedere all’entrata di casa nostra. Ho cominciato a sfogliarne le pagine, una dopo l’altra, imitando mio padre nella posa della lettura, ma guardavo solo le foto. Di colpo, i miei occhi si fissarono su una pagina piena di immagini. Erano immagini a colori. Nelle foto si vedevano donne in lacrime, corpi, sangue, bambini morti e soldati con le pistole.
Mi ritrovai in ginocchio, chino sul giornale, strizzando gli occhi, tentando di esaminare i corpi dei bambini.
“Perché non hanno gridato”, quella voce risuonò nelle mie orecchie. Più tardi, dopo molti anni, ho appreso che la voce dei bambini non la si sente nei grandi massacri, solo il suono di proiettili e pistole.
Ho passato più di mezz’ora a scandagliare le immagini. Una per una. Improvvisamente, fui preso dalla rabbia, presi il giornale e andai da mia sorella maggiore.
– “Butta via quella spazzatura”, urlò mia madre da lontano, riferendosi al giornale.
– “Tuo padre te ne procurerà di nuovi domani”, disse.
Non le ho dato ascolto, ho aperto la pagina dove c’erano le foto e ho chiesto a mia sorella:
– “Chi li ha uccisi?”
Mi ha guardato, poi ha guardato il giornale e ha letto per qualche istante, finché mi ha detto: “l’esercito”, Al Jaish.
-“Perché?”, ho chiesto.
Si trattenne un attimo, poi disse: “Perché sono come noi, palestinesi”.
– “Uccideranno anche noi?”, ho chiesto.
– “No, tutto questo è in Libano, Sabra e Shatila, è accaduto tanto tempo fa”, alzando la mano all’altezza del viso e facendo movimenti all’indietro, e dicendo: “Zamaaaaan, Zamaaan”, che significa che è stato molto tempo fa, per farmi calmare e per dissipare le mie paure.
Avrà capito che le mie parole mostravano una profonda paura.
Da quel momento, Sabra e Shatila non hanno mai lasciato la mia mente e non ho mai dimenticato il massacro. Come nessun bambino avrebbe mai dimenticato la prima volta in cui è salito su una nave, io non ho mai dimenticato la prima volta che ho preso un giornale che mi ha dato il benvenuto con un inizio tanto brutale.
Ma da quel giorno mi sono proprio attaccato ai giornali. Una volta, mio padre mi trovò a raccogliere giornali per strada, tutto preso ad osservarne le foto.
– “Buttalo via. È sporco”, ha gridato.
– “Voglio vedere le foto”, ho risposto.
– Mi ha detto: “Va bene. Te ne porterò di nuovi, domani”, ordinandomi di rientrare.
Poco tempo dopo, durante quella settimana, ho trovato un tesoro. Era nella stanza di mio fratello, sotto il materasso di uno degli ampi letti matrimoniali di casa.
C’erano una decina di riviste a colori. Il nome della rivista era “Abir”, si trattava di una rivista nazionalista con molte immagini a colori di “Fidayeen” e “Moutaradeen”, cioè di combattenti della Resistenza e combattenti ricercati. Ho passato molti giorni così, a svegliarmi per prendere una rivista, e sempre immerso a guardare le immagini non essendo in grado di leggere una riga.
Quella settimana, mio padre iniziò a portarmi il quotidiano Al-Quds ogni giorno, al rientro dal lavoro. L’ha comprato ogni giorno fino a quando non è andato in pensione. Aspettavo tutti i giorni il suo ritorno. Appena lo vedevo apparire in strada, era corrergli incontro, scalzo, per prendere ogni cosa di quel che portava, frutta o verdura, e il giornale.
Una delle mie sorelle maggiori, che leggeva i giornali, me lo sfilava dandomi gli allegati culturali e sportivi finché non finiva di leggerlo. Contenevano più foto, così mi ritenevo soddisfatto. Quando l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina tornò in Palestina, altri due giornali si aggiunsero ad Al-Quds, “al-Hayah” e “al-Ayyam”. Io e le mie tre sorelle maggiori facevamo a gara a chi li avrebbe letti per prima.
Da adulto, ho cercato di immaginare la mia infanzia senza i giornali, senza le riviste, senza le immagini, senza le parole e l’odore dei giornali. Senza di essi, il mondo sarebbe crollato. Sarebbe stato più caotico. Per me, i giornali e le immagini erano il mondo che mi teneva altrove dal gioco “ebrei e arabi”. Erano la mia lotta quotidiana per rinnovare il mio mondo e porre domande per un dopo, a cui non ho smesso di rispondere fino ad oggi, dopo più di trent’anni.
Abdalhadi Alijla è un sociologo, politologo e scrittore palestinese. Membro della Global Young Academy e co-fondatore della Palestine Young Academy, è autore del libro « Trust in Divided Societies » (Bloomsbury Academics and I. B. Tauris UK). Ricercatore associato all’Università di Gothenburg e socio del Post-Conflict Research Center di Sarajevo, ha pubblicato numerosi articoli in diverse riviste internazionali. Di prossima uscita un romanzo autobiografico.