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Overbooking: La Iaia Scienza

Il gusto di una vita, quanto basta.

di Gigi Spina

a proposito di Iaia Caputo, Il gusto di una vita, Enrico Damiani Editore, 2020.

Mi hanno colpito subito le prime parole, che ho immaginato come immediato e quasi automatico proseguimento dell’esergo tratto da Casalinghitudine di Clara Sereni.

In una storia degli esergo nella letteratura in generale, che non scriverò mai, ma che vorrei leggere, mi piacerebbe fosse indagato in quale momento preciso della scrittura l’esergo esige di entrare in scena. Se prima, durante o dopo aver concepito un testo, e se si attinge a una sorta di magazzino dei ricordi letterari che, quasi in automatico, come in un jukebox, fa scorrere le varie possibilità e poi seleziona la migliore possibile.

Ma ecco le prime parole: «Non esiste un’attività più prossima alla scrittura della cucina: entrambe necessitano di tecnica e immaginazione, di ordine e struttura, di esperienza e talento». La comparazione mi affascina, soprattutto fra campi non immediatamente percepiti come vicini. La comparazione non è l’analogia: è il processo complicato – quanto più è ricco di scoperte di somiglianze, ma anche di disparità – che può portare all’analogia, ma non sempre. Perché l’analogia è l’abbreviazione comoda di una sensazione di uguaglianza non sviluppata ancora, e in questo può essere ingannevole, può nascondere le profonde differenze.

E poi, queste prime parole tengono a distanza, per fortuna, la lezione platonica del Gorgia (c’è sempre, purtroppo, chi continua a chiedere lezioni di verità ai testi antichi), il dialogo in cui Socrate spiega come la retorica e la culinaria non siano arti, ma forme di adulazione, di abbellimento ingannevole e non necessario, l’una per l’anima, l’altra per il corpo, al punto che la retorica sta alla giustizia come la culinaria alla medicina. Due trucchi, quindi, che fanno finta di essere valori o soluzioni.

Eliminata, allora, la lezione (comparativa) di un antico filosofo, conviene tornare alla comparazione fra scrittura e cucina. Di primo acchito, dopo aver letto questa parole, ho chiuso il libro e mi sono preso una pausa, segno di una comparazione che colpisce nel segno e costringe a pensare. E ho pensato subito a un’altra comparazione: fra scrivere e correre, e sono ‘corso’ a prendere dalla mia libreria un libro di Murakami Haruki, L’arte di correre (Einaudi, 2009): a pagina 5 della prefazione, Murakami scrive: «A quel punto mi è risultato chiaro che scrivere onestamente sulla corsa a piedi significava scrivere onestamente (in una certa misura) sulla mia personalità. Di conseguenza nulla impedisce di considerare questo libro una specie di diario incentrato sull’azione di correre». Ecco, la comparazione, fra scrittura e cucina, fra scrittura e correre, non deve nascondere il fatto che entrambe le attività hanno un unico soggetto operante e per questo si costituiscono come diario, ricordo, autobiografia.

Del resto, quando, in una presentazione on line di questo stesso libro, il 15 novembre – con l’autrice c’erano Antonio Franchini ed Helena Janeczek -, Franchini ha introdotto una comparazione fra letteratura, cibo e arti marziali, per elementi come il gesto e la precisione, sapevo che l’autobiografia non era per nulla estranea al discorso.

Insomma, Iaia Caputo ha scelto uno dei tanti filtri soggettivi della sua vita, uno dei tanti lasciapassare che consentono di imboccare i sentieri adatti a ricordare, rivivere e raccontare: la cucina, la lunga e accorta preparazione, il culto ‘laico’ della ricetta, i dosaggi, i tempi, il rapporto col fuoco e con l’acqua (non mancano neanche gli altri due elementi, naturalmente), il momento comunitario, l’ospitalità, le suppellettili, l’organizzazione degli spazi, la cura: tutto quello, insomma, che racchiude la parola cibo. Anche quel cibo imposto, tipicamente italiano (direi soprattutto del sud, per esperienza di siculo-calabrese-campano), che l’indimenticabile Mattia Torre ha ironicamente raccontato in Gola, uno dei suoi atti comici (M. Torre, In mezzo al mare. Sette atti comici, Mondadori, 2019, pp. 39-52).

Per la lettura di Valerio Mastandrea: https://www.youtube.com/watch?v=P7HoMSUMEJk ; https://www.youtube.com/watch?v=oe34Al2tos8.

Certo, nei prodotti delle due attività, sia libro che pietanza, c’è sempre qualcosa del processo di elaborazione che nessun fruitore (lettore, invitato a pranzo o cena) potrà più cogliere, qualcosa che rimarrà ricordo personale; d’altra parte mi pare difficile, anche se può essere contemplato, che uno/a scriva o cucini solo per se stesso/a, almeno a certi livelli.

Preciso che intanto il libro è ancora chiuso, è solo il mio pensiero che insegue la comparazione.

Con quell’uno/a mi accorgo, però, di essere entrato in un sentiero scivoloso, quello della differenza di genere, nel quale si è spesso equivocati, fraintesi, perché è difficile per un singolo (questa volta è proprio un, inteso come maschio) dover rispondere dei disastri fatti dal genere maschile, pur non essendone personalmente responsabili. Ma sfido la scivolosità: finora ho raramente trovato una donna che sia contenta di cucinare solo per se stessa, mentre spesso un uomo (io cucino, direi, da sempre) lo è: si imbandisce la tavola, si programma la pietanza e si gode il risultato, anche da solo. E per la scrittura? Non saprei. Certo, i famosi fogli nel cassetto non conoscono differenza di genere, mi pare.

Del resto, la memoria riesce ad affollare la scena letteraria immaginata di tante presenze che fanno comunque compagnia e attenuano la solitudine di chi scrive, come forse gli odori e i sapori durante la preparazione di un cibo fanno materializzare ospiti, assaggiatori. Magari, qualche volta, anche parassiti, come nelle commedie antiche: certo, ci sono anche parassiti della memoria.

Intanto ho riaperto il libro e ripreso la lettura. Diciotto capitoli, come gli anni che servono per raggiungere la maturità ufficiale e certificata: leggendoli, ho potuto con Iaia Caputo ritrovare volti e luoghi della vita napoletana che abbiamo avuto in comune (anche se io con un bel po’ di anni in più), come la collaborazione a un famoso quindicinale: La Voce della Campania.

Il libro va letto tutto d’un fiato (tranne la pausa iniziale, forse) godendosi, quasi assaporando il modo calmo e lento di raccontarsi e raccontare i ricordi, anche se si intravedono non poche tempeste e accelerazioni. Ho sempre sperimentato, leggendo autobiografie o scritture simili, che una scrittura funziona se consente di interagire continuamente in controcanto, se riesce a suscitare ricordi anche personali. Ma non solo. Fra le capacità dell’antica tecnica retorica (con buona pace di Platone) c’era quella di far vedere con le parole, di ‘mettere sotto gli occhi’. I maestri di retorica, per esempio Quintiliano, spiegavano che si potevano anche far sentire rumori e forse far sentire odori. Entrando nella famiglia (e nella vita) di Iaia Caputo – il libro è dedicato alla madre, Bianca – direi che si sentono anche odori, voci, con continue sinestesie, non solo di sensi, ma anche di pathe (attenzione a non leggere: di paté), di passioni, come quella politica e quella letteraria.

Quanto ai ricordi personali suscitati dalla lettura, due in particolare: io l’ho conosciuto, Aurelio Fierro, a differenza di Iaia Caputo (se ne parla a p. 100, nel capitolo 12), e dovevo farlo, perché da ragazzino, a Salerno, fui invitato a incidere, per un concorso in Rai, di cui poi non seppi più niente, un disco da dilettante, e scelsi Guaglione, accompagnato al piano da mia zia, disco che non ho più ritrovato. Quando vivevo a Napoli partecipai a Napoli Nobilissima, incontri organizzati al Convitto Vittorio Emanuele, su varie amenità, napoletane da un amico purtroppo scomparso da poco, Catello (Lello) Tenneriello. Io parlai della Pedamentina con Rosa D’Elia, una bibliotecaria della Federico II. In prima fila riconobbi Aurelio Fierro, mi presentai e gli parlai di quel mio Guaglione, di cui conservo invece lo spartito. Fu molto cordiale e me ne rimane un bel ricordo.

Il secondo riguarda quella certa Rosa, che la pizza la mangia nel pane (a p. 104 dello stesso capitolo). Ebbene, posso vantare un record rimasto finora imbattuto, a quanto mi risulta: da ragazzino mangiavo i grissini dentro il pane, nel cozzetto (la parte finale dello sfilatino); allineavo in bell’ordine i grissini e mi deliziavo al sapore e allo scrocchiare della masticazione. Potrei dire che quella è la mia madeleine che non ho cercato più, ma non escludo che prima o poi lo farò.

Sono alla fine del libro, l’ultimo capitolo non ha numero e si intitola Infine (pp. 141-142). Ritrovo la madeleine, ma Iaia Caputo si chiede se lei voglia davvero ritrovare le sue intatte: i gelati di Capri, la coviglia di Scaturchio, la pizzetta di Moccia: «Finirebbero per deludermi, poiché nel tempo trascorso la fantasia li ha trasformati, e la poetica perfezione raggiunta nella nostalgia che proviamo per ciò che non solo è trascorso, ma anche perduto, non troverebbe mai conferma nella realtà. Allora meglio, molto meglio continuare a immaginarle, le madeleine. Niente può competere con la menzogna di un ricordo inventato per restare il gusto stesso del passato».

L’ultima frase del libro, certo, sembra escludere che si possa andare di nuovo in cerca della propria madeleine, ma io penso che sia un metapensiero, quello che una scrittrice deve per forza formulare; per forza libera e volontaria, intendiamoci. Ma che un lettore può mettere alla prova.

Anche perché, nei tristi giorni che stiamo vivendo, c’è un virus che fa perdere proprio il gusto, non solo del cibo, ma anche della vita. E contro il virus serve anche ritrovarlo, se possibile, il gusto della vita, tutto intero. Nelle cose e nelle persone reali, non solo in quelle dei ricordi.

 

 

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3 Commenti

  1. Stamattina sono corsa a comprare il libro, come dire che sono tornata in piazza Verdi (il luogo del delitto)…
    ancora stanotte avevo sognato l’università, che ormai frequenterei, covid permettendo, da cultore della materia…
    quindi mi godo almeno il libretto, così ben presentato da gigi che lo rende allettante, nella mia prigione dorata….
    ciao a Gigi e a Francesco

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Sono musicista, quando si studia un brano si considera che anche il silenzio, la pausa sia musica. Compositori come Beethoven ne hanno fatto uso per sorprendere, catturare, ritardare le emozioni del pubblico, il silenzio parte della bellezza. Il silenzio qui però non è la bellezza. Il silenzio che c’è qui, da più di dieci mesi, è anti musicale, è solo vuoto.
francesco forlani
francesco forlani
Vivo e lavoro a Parigi. Fondatore delle riviste internazionali Paso Doble e Sud, collaboratore dell’Atelier du Roman . Attualmente direttore artistico della rivista italo-francese Focus-in. Spettacoli teatrali: Do you remember revolution, Patrioska, Cave canem, Zazà et tuti l’ati sturiellet, Miss Take. È redattore del blog letterario Nazione Indiana e gioca nella nazionale di calcio scrittori Osvaldo Soriano Football Club, Era l’anno dei mondiali e Racconti in bottiglia (Rizzoli/Corriere della Sera). Métromorphoses, Autoreverse, Blu di Prussia, Manifesto del Comunista Dandy, Le Chat Noir, Manhattan Experiment, 1997 Fuga da New York, edizioni La Camera Verde, Chiunque cerca chiunque, Il peso del Ciao, Parigi, senza passare dal via, Il manifesto del comunista dandy, Peli, Penultimi, Par-delà la forêt. , L'estate corsa   Traduttore dal francese, L'insegnamento dell'ignoranza di Jean-Claude Michéa, Immediatamente di Dominique De Roux
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