AMARE IL PALLONE, COMPRENDERE IL MONDO
di Giuseppe A. Samonà
Divagazioni su: Sergej Roić, Achille nella terra di nessuno, Zandonai 2012 (nuova edizione Besa 2017, 188 p.)
Per chi come me ama la letteratura e il calcio – sì, questo mio testo è insieme una recensione e una confessione… – uno dei sogni più potenti è di riuscire un giorno a raccontare dal di dentro alcuni momenti, il senso di quella travolgente epica che ci parla delle nostre umane grandezza e miseria, come lo ha dimostrato Osvaldo Soriano sul campo (eh già!), lontano cioè da ogni astratta e insopportabile speculazione sociologica: anche se con la penna appunto al posto del pallone. Del resto, se uno degli obiettivi chiave della letteratura, della poesia, è l’esplorazione, la dissoluzione del tempo, la possibilità di farcelo attraversare à rebours, per riappropriarci, reiventandole, della nostra infanzia, della nostra prima giovinezza, non c’è argomento più letterario, poetico del calcio: cioè giocarlo, che tuttavia nel suo trasformarsi in poesia è da subito un averlo giocato, per poi guardarlo, riguardarlo, viverlo – proprio come quelle gesta di eroi sgranate dai poemi omerici, in cui i personaggi agiscono aspettando di essere raccolti dal canto dei futuri aedi, che dovranno immortalarne la gloria. Similmente, nel calcio, gli eroi sono sempre giovani e forti, anzi, fondalmente ragazzini, e immancabilmente, all’apice del loro itinerario, svelano il proprio τέλος: cioè la fine, anzi, la disfatta, o semplicemente il desiderio segreto contro tutto e tutti di farsi passato, di scomparire – anche chi non ama il calcio ricorda probabilmente la famosa testata di Zidane a Materazzi… – perché sanno che è proprio in quel momento che sboccia il loro futuro immortalizzante. Il per sempre.
Eppure, ed è curioso, di rado ama il calcio chi ama la letteratura – fosse anche soltanto leggerla, non necessariamente crearla: esistono infatti grandi artisti muti, che nulla creano se non la loro stessa vita – e così si priva non solo di poter sognare dentro questa grande epopea contemporanea, ma anche di alcune vere esaltanti pagine di epica letteraria: come quelle sublimi appunto di Soriano (ne esistono di migliori? io non ne conosco, anche se è doveroso avvicinargli sul podio il suo amico Eduardo Galeano…). Ecco, tali pagine risultano incomprensibili a chi non abbia acquisito per altre strade una conoscenza vera del gioco più bello del mondo.
In questa prospettiva il libro di Sergej Roić, Achille nella terra di nessuno, occupa un posto molto particolare: perché parte dal calcio, promette calcio (il suo protagonista, Achille, è un promettente calciatore), strizza continuamente l’occhio a chiunque sia tifoso e letterato, lo avvolge e rassicura, ma a differenza dei racconti-capolavoro di Soriano può essere, mi sembra, goduto anche da un pubblico non calciofilo. Certo, i non addetti ai lavori rimarranno spaesati di fronte ad alcuni passaggi – su tutti, il singolare concorso letterario sulla lettera N, come Nazionale, promosso dalla Biblioteca nazionale di Firenze alla vigilia del Mondiale ‘90 in Italia, e vinto da un irriverente scritto che si conclude proponendo una surreale piramide, cioè il leggendario 2-3-5, composta solo da giocatori che cominciano appunto per N: N’Kono, Nela, Niltos Santos / Notaristefano, Niccolai, Noby Stiles, / Nené, Neeskens, Nordahl (o Nereo Rocco), Niels Liedholm, Nilis… (Eppure – mi ostino? – se solo provasse a declamare ad alta voce quei nomi, anche il più convinto sostenitore dell’anticalcio sentirebbe risuonargli dentro l’eco degli esametri iliadici, quelle indimenticabili liste…: Βοιωτῶν μὲν | Πηνέλεως | καὶ Λήϊτος ἦρχον / Ἀρκεσίλαός τε | Προθοήνωρ τε | Κλονίος τε….) Globalmente però questo libro sviluppa, attraverso il suo protagonista calciatore, tutto ciò che insieme al calcio appartiene anche alla vita: la miseria e la grandezza dell’umanità, che avvincono tutti coloro che la letteratura avvince, qui non s’intravedono come in Soriano dietro le quinte: occupano il davanti della scena – che invece in Soriano è occupato proprio dal calcio: quasi che fra i due approcci ci fosse un rapporto d’inversione…
La miseria: il prepararsi e l’esplodere della guerra che porterà alla disintegrazione della Jugoslavia. La grandezza: il sogno, cioè l’utopia, di una lingua di pace, come antidoto proprio a quella guerra che, come e più di tutte le guerre, si è attaccata innanzitutto a contaminare la lingua, la ricca lingua una e molteplice del pluriculturale spazio jugoslavo, sino a frantumarla in diverse lingue l’una contra l’altra armata. Questo, nessuno potrebbe raccontarcelo meglio di Roić: che essendo svizzero ticinese scrive in italiano, ma per “origini” – virgolette d’obbligo, perché è proprio separando le origini dalla propria storia complessiva che cominciano i guai… – è croato, cioè serbo, cioè serbo e croato, serbocroato, croatoserbo, jugoslavo, e soprattutto cosmopolita… Per di più, ce lo racconta con una lingua italiana magistralmente, persino classicamente dominata, ma che si arricchisce appunto di tutte queste onde di mondo, che scuotono proficuamente la scrittura: ne esce fuori uno stile non a caso ondivago, nel contempo sobrio e sanguigno, a tratti persino barocco, affatto originale (e non nel senso delle “origini”!). E non sto parlando della presunta originalità delle cosiddette scritture migranti – spesso appiattite l’una sull’altra da un poderoso lavoro di editing – ma di quella, più profonda, che dovrebbe caratterizzare ogni scrittura che si voglia originale, cioè sovversiva – come lo dice Proust in un celebre passo del Contre Sainte-Beuve: “les beaux livres sont écrits dans une sorte de langue étrangère” – il che vuol dire, al di là e contro ogni retorica della (inesistente) purezza, che l’estraniamento agisce al cuore di chiunque pensa e scrive, anche dentro la propria lingua: sempre strappiamo senso, traduciamo, reiventiamo una lingua a partire da un’altra, anche se per ventura lavoriamo con una lingua soltanto… (Ma una delle cose che apprendiamo, leggendo questo libro, è che una lingua non è mai sola…)
Già, Proust… Ahil Duimović, cioè Achille (nome di cui non occorre, credo, ricordare la matrice omerica), il calciatore protagonista, ama la filosofia e legge proprio lo scrittore della Recherche… Non è un caso: se infatti dentro il mondo del calcio bolle, come lo dicevo all’inizio, la molto letteraria ossessione del proprio “tempo perduto”, e del come riconquistarlo, è impossibile trovare guida migliore di Marcel Proust! Il calcio allora, in queste pagine, vive – come l’amore… – di entusiasmo, di passione e soprattutto di nostalgia, una nostalgia assoluta, come quelle per le grandi glorie calcistiche di un passato che non si è mai conosciuto, un po’ come a volte abbiamo nostalgia dell’epoca in cui vivevano i nostri nonni, prima della nostra nascita…
Così orientato il libro si costruisce in parte come un agile romanzo di poco più di centocinquanta pagine, e racconta appunto la storia del biondo Achille – lo stesso color di capelli dell’eroe della guerra di Troia – da prima della sua nascita, perché nel calcio come nell’epica, cioè nel potente scorrere della vita, le storie hanno i contorni sfumati, non hanno veramente inizio, non hanno veramente fine… Siamo nella letterariamente gloriosa isola dalmata di Hvar / Lesina, in Croazia, verso la metà degli anni Cinquanta: il futuro padre di Achille, Čedo, allora tredicenne, accudisce il proprio padre malato; unici suoi passatempi, il gioco degli scacchi e quello del pallone, che pratica in un campo spelacchiato sulla collina di fronte al porto (deve esistere quel campetto, lo vediamo, lo rivediamo, diventa quasi un luogo dell’anima…): giochi intrecciati fra loro, perché si muovono i pezzi sulla scacchiera, come a dribblare quelli dell’avversario, e si deve pensare nel campo di calcio, per poter sperare di vincere – e subito si entra nella mitologia, con il vecchio Mikula, che gli ha insegnato insieme entrambi i giochi, e soprattutto racconta, come un cantore dalle molte primavere e pur immortale: per esempio di quel primo campionato del 1930 in Uruguay, anzi a Montevideo, che si trova di fronte a Buenos Aires, dall’altra parte del Río de la Plata, luoghi e anni mitici per chi ama il calcio e insieme, è inevitabile, il tango… La Jugoslavia aveva battuto il Brasile; era arrivata in semifinale proprio contro l’Uruguay; era passata in vantaggio; ma poi – si narra – nella cancha, nel campo, era entrato un gatto nero, e la Jugoslavia era stata travolta, 6 a 1: vittima del maleficio felino, o forse, rieccolo, del prototipico 2-3-5 praticato dai gloriosi charrúas… (Uno dei punti di forza di questo libro, specie per gli amanti di calcio e di antiche greche epopee, è il suo saper fondere insieme la realtà, la leggenda e la pura invenzione: non è mai sicuro del dove si trovi, il lettore, è spaesato: e finalmente, è proprio questo il bello…)
Morto il padre, alle soglie dei suoi vent’anni, Čedo si trasferisce sulla costa, a Split / Spalato, per studiare medicina, poi nel fatidico 1968 lo ritroviamo medico a Zara / Zadar – i doppi nomi ricordano precedenti, dolorosi conflitti, ma anche la ricchezza di quelle terre – dove conosce la futura moglie Tanja, che sarà insegnante, storica dell’arte, pensatrice, infine nella vicina Bosansko Grahovo, dall’altra parte della frontiera interna con la Bosnia Erzegovina. È qui che all’inizio degli anni Settanta nasce morto il loro primo figlio Andrej, e un paio d’anni dopo il nostro protagonista, Achille, di cui seguiamo il percorso attraverso questi e altri luoghi: la Krajina croata, Zagreb, Belgrado, Sarajevo… Luoghi di cui intravediamo, magari anche attraverso una sola frase, scampoli di melanconica poesia, quasi sempre spiraglio di passata grandezza (… i tram sferragliano nella Frankopanska, file davanti alle cabine telefoniche, l’autunno colorato della città nelle foglie, nei cappotti, cappelli, facciate ridipinte di palazzi asburgici…); e poi di odio, violenza. Basta leggere il libro con una mappa accanto, mettendo un puntino ad ogni luogo menzionato: emergeranno alla fine alcuni degli itinerari cruciali delle rovinose guerre degli anni Novanta – con un dettaglio, che non dovrebbe avere importanza, ma si gonfia a dismisura di pagina in pagina: il padre di Achille è croato, la madre è serba, lui cresce in Bosnia, alla quale sente profondamente di appartenere: dove sta Achille? “Essere e non essere in nessun luogo” (quel sentimento doloroso), lo ha capito, e ce ne fa partecipi, il vecchio cantore Mikula, in una decrepita stamberga al confine cileno-peruviano…
Già, perché la geografia di Achille non si ferma allo spazio balcanico: con lui, e appunto con altri personaggi che lo accompagnano, magari solo cavalcando l’alata immaginazione, inaspettatamente ne usciamo, arriviamo in Svizzera, in Francia, in Inghilterra… o più lontano, eccolo, in Perù, e poi in India, e poi…: Paris, Delhi, Calcutta, Champex, il Gran San Bernardo, la quebrada andina … È un’improvvisa, apparentemente folle, disordinata esplosione di nomi, di luoghi-tempo – più che luoghi sono infatti ricordi – che tuttavia disegnano sapientemente un mondo intorno alla Jugoslavia, in cui si rientra e si riesce e si rientra…, e meglio ne fanno emergere la sua sua struggente e poliedrica bellezza, come l’assurdità della guerra che cova e poi deflagra, inarrestabile. Mentre continuiamo a seguire l’itinerario di Achille che si scopre calciatore (ovviamente cominciando a giocare con il padre) e insieme amante innamorato (la madre…) di letteratura e di pensiero: il mondo non è sferico come il pallone? Le sue regole, come quelle del calcio, non sono spesso ingiuste, o comunque inatte a proteggere dall’ingiustizia? La letteratura quando indaga l’uno, non comprende anche l’altro? – Ma nel medesimo slancio si scopre anche amante innamorato tout court… Così, fra i passaggi più accattivanti, contagiosi, ci sono proprio quelli che descrivono l’amore, quello che eternamente aspetta, e sogna: Oh Zdravka, primo amore. Non potevi essere una ragazza qualunque? Ti avrei tenuto per mano passeggiando accanto al mare, ti avrei comprato un gelato, il vento di maestrale avrebbe scolpito, nella leggera gonna potenziale, la splendida forma delle tue gambe…; ma anche quello che fatalmente si consuma: … per raggiungere dapprima il piccolo seno e poi, trionfo della carne, la vertiginosa linea seguendo la quale arriverà a baciare le pudiche labbra “altre”… Insomma, il libro è anche un classico romanzo di formazione. Ma solo in parte…
Anzi, come si diceva all’inizio, è proprio al genere “romanzo” che appartiene solo in parte. L’altra parte si costruisce come una sorta di riflessione antropologico-filosofica per voci, nel senso del dizionario, e questioni, che sembrano mescolare liberamente il metodo socratico, con il talmudico, o lo zen: ma su tutti domina – insieme all’invisibile ma diffuso Omero – Platone. Queste due parti si fingono distinte: la riflessione per voci e questioni è organizzata in sei Quadri, ognuno con un titolo; l’azione narrativa in trentaquattro Immagini… Ogni quadro dovrebbe isolare alcuni interrogativi astratti, che poi la conseguente azione narrativa dovrebbe esplorare in medias res. Per esempio nel Quadro terzo, leggiamo, proprio alla voce “Bugia”: Giudicare se qualcuno menta o no – è Sant’Agostino che avvalora questa riflessione – dipende non tanto dalla veridicità della cosa affermata, quanto dalla convinzione intima del mentitore. La colpa di chi mente sta tutta nella volontà di ingannare… E le Immagini seguenti, dalla sedicesima alla ventesima, raccontano le vicende intrecciate della Jugoslavia che implode – siamo nel 1991 – sotto la spinta degli odianti (come sempre…) nazionalismi, e dell’amore impossibile di Achille e Lada: qui come là è al lavoro, appunto, la menzogna…
E tuttavia questa separazione è illusoria – come lo sono forse le separazioni fra generi libreschi, e spesso le frontiere tout court… – perché la riflessione, il pensiero, s’infiltrano spesso dentro l’azione del calciatore che ama la letteratura e l’amore: anche con il pallone al piede, del resto, è indispensabile pensare. Sino alla fusione finale in cui il pensiero entra dentro l’avventura narrativa e si sostituisce a questa: La repubblica della lingua, lo scritto allucinatorio-profetico di cui attraverso intricati percorsi gli eroi attori Tanja e Achille sono, almeno in parte, i redattori, si sovrappone per intero alla trentaquattresima e ultima Immagine: d’altronde Tanja è oramai morta, e il calciatore Achille, nonostante sia ancora giovanissimo, s’inabissa col disgregarsi della Jugoslavia. Se la realtà non esiste più, insomma, o è impazzita, solo il sogno, l’utopia possono permetterci di continuare a vivere. Qui, il sogno, l’utopia, prendono l’aspetto di una repubblica appunto della lingua, cioè in prospettiva della pace, in cui siano state abolite parole come potere, massa, odio, invidia… Perché sono le parole-pensiero con cui impariamo a comprendere il mondo che lo plasmano e plasmano anche i nostri sentimenti: di odio, o di amore.
Ma attenzione, si tratta di un’utopia nel migliore senso del termine, cioè in quello del lontano orizzonte che se facciamo un passo si sposta di un passo, ché solo ci serve per continuare a camminare, come avrebbe detto Eduardo Galeano. Terribile è infatti l’utopia quando la si confonde, la si vuol fare coincidere con la realtà: il libro sotterraneamente ma continuamente lo ricorda – almeno, così l’ho letto io – attraverso tutta la sua storia; anzi, le sue storie: tutte le storie-divagazioni che si ramificano a partire dall’asse principale, con mille fili che tirano dentro altri personaggi, altri libri ed autori. Su tutti – oltre al già menzionato Proust, e a Puškin, che meriterebbe un discorso a parte – l’onnipresente Borges, di cui per altro (è appunto una delle tante storie) molto borgesianamente si racconta la fantastica e inaspettata origine metamorfica: siamo in Austria, alla fine degli anni Trenta, per seguire le vicende di un oscuro commisario, forse d’origine ebraica, che fugge l’Europa verso la Patagonia, e lo ritroviamo scrittore, lo scrittore, a Buenos Aires, verso la metà degli anni Quaranta… Ed ecco, appunto: in tutta la storia, in tutte le storie, c’è sempre, insieme all’orrore per la logica dell’odio, anche lo sguardo intenerito per l’umanità, per come è, con i suoi slanci, le sue cadute, le sue imperfezioni: mai si afferma il bisogno di imporle un nuovo modello di vita. L’utopia, in questo senso, è anche, semplicemente, una volatile, fragile possibilità che nasce e muore perennemente dentro la realtà, ne è un aspetto, già esiste – o se vogliamo, è un gioco, nel senso spiegato all’interno del Quadro sesto, che introduce appunto La repubblica della lingua; quel gioco che è libera attività dello spirito e del corpo senza ricerca di interesse, fine o profitto, a differenza dell’agire, del formare e del lavorare che sono conformi a uno scopo… Non è la gratuità, che come avrebbe detto Hölderlin ci rende vicini agli dèi, il fondamento per l’appunto giocoso di questo tipo di utopia?
Fragile e volatile: come una partita di calcio – quella partita di calcio, di cui forse l’utopia costituisce il rovescio, il finale che avrebbe potuto realizzarsi e non fu. L’alfa e l’omega del mito: Uruguay 1930, la prima competizione ufficiale della Jugoslavia; Italia 1990: l’ultima. Con appunto quell’ultima maledetta partita. Il paese degli slavi del sud sta già implodendo, e il calcio, le rivalità delle tifoserie, in particolare quelle della Dinamo Zagabria e della Stella Rossa di Belgrado, sembrano delineare, dentro gli stadi, il primo teatro della guerra – ma ecco, l’eccellente progressione della squadra nazionale ai Mondiali italiani vede di nuovo nascere una sorta di entusiasmo trasversale; sulle gradinate, nel mare di bandiere serbe e croate, torna a sventolare la bandiera della Federativa. Sino a quell’Jugoslavia-Argentina del 30 giugno 1990, a Firenze. Le due squadre non riescono a superarsi durante centoventi minuti del tempo regolamentare allungato, decideranno i calci di rigore: ed è un’altalena di errori (persino Maradona ne sbaglia uno), sino al 2 a 2, con gli argentini che dispongono di un solo tiro, contro i due degli jugoslavi: il destino è fra le loro mani… Ma a quel punto il traditore Osim manda allo sbaraglio due terzini (entrambi di origine musulmana, come non tarderà a sottolineare la stampa serba), anzi, è “musulmano”, cioè bosniaco, anche il traditore Osim, l’allenatore. Il finale è noto: l’argentino segna, i due jugoslavi sbagliano entrambi… La leggenda vuole che se Faruk Hadžibegić, l’ultimo decisivo tiratore, non si fosse fatto parare il suo rigore, condannando la Jugoslavia-squadra all’eliminazione, la Jugoslavia-paese avrebbe evitato la guerra. (Da notare che in realtà solo quest’ultimo, insieme al traditore Osim, era bosniaco, musulmano; l’altro tiratore mancato, Dragoljub Brnović, era montenegrino, e per di più giocava a centrocampo, non in difesa: ma nell’immaginario collettivo che fiorì dentro quella disfatta divenne terzino e musulmano anche lui. Perché la Bosnia stava per diventare il centro della più spaventosa di tutte le guerre, che avrebbe persino alleato fra di loro i nemici serbi e croati: in questa prospettiva, spiegare l’immaginario di una nazione in disfacimento, cioè i suoi fantasmi più profondi, non svela qualcosa di più reale della superficiale realtà?) Su quel fatidico rigore, Gigi Riva – il giornalista non il calciatore (!) – ci ha scritto su un intero libro (L’ultimo rigore di Faruk, Sellerio 2016) ricostruendone con puntiglio e chiarezza la vera storia, i fatti; Roić alla vera storia consacra solo due pagine, e anzi in parte la modifica, confondendo ad arte finzione e realtà, mischiandole insieme, proprio per scendere più a fondo nei meandri di quell’intreccio fra calcio e guerra, e ancora più a fondo, attraverso tutte le sue pagine, a svelare le origini della malattia nazionalismo come il suo possibile antidoto. Di quel proficuo e volontario confondere le acque il calciofilo appassionato, come me, si divertirà a ritrovare diversi dettagli, come nei giochi quiz della Settimana enigmistica. Qui, per tutti i lettori, anche per i non calciofili, basti raccontarne uno: nella partita reale, il primo rigore è tirato dall’argentino Serrizuela, ed è rete; gli risponde il geniale Stoiković, noto come il Maradona europeo, il suo tiro è perfetto, spiazza il portiere… ma si stampa sulla traversa, senza varcare la linea di porta… Nella drammatica partita raccontata da Roić, ad aprire la serie dei tiri dal dischetto è invece proprio il nostro biondo Achille; il suo faccia a faccia vincente con il nero Goycochea (il portiere dell’Argentina) ricorda quella fra il biondo eroe acheo e il suo rivale di sempre, il troiano Ettore, anche lui dai neri capelli; e gli risponde il rigorista argentino, che pareggia. Ahil-Achille è dunque l’ingresso dell’immaginazione – non è mai esistito un giocatore di tal nome – nel regno della realtà. A chi, a cosa s’ispira? Per posizione è Serrizuela, ché come quello ha tirato per primo ed ha segnato; per nazionalità, e genio, è Stoiković, che come lui è jugoslavo, ma ha sbagliato il suo tiro. Potremmo dire allora – è una speculazione che mi sono divertito a fare – che il nostro immaginario Achille slavo mescola insieme il proprio sangue con quello dell’avversario, come l’Achille omerico che finisce in qualche sorta per riscoprirsi fratello dell’Ettore troiano (del resto parlano la stessa lingua): non è forse nello stesso tempo serbo, croato e bosniaco? (che anche loro parlano la stessa lingua…?) Achille insomma rappresenterebbe la possibilità di un altro finale, vittoriosamente di pace… Appunto, la buona utopia.
… E poi sì, lo so, ho divagato, a volte parlando del libro di Roić ho parlato dei miei sogni, dei miei slanci barocchi, del mio amore per il calcio, e per tutto quel che si mescola, e per i Balcani che, malgrado le spaventose guerre, ricordano appunto che mescolarsi è possibile – e ora, rileggendo questa divagazione, a tratti non sono neanche sicuro di dove finiscano le sue parole e comincino le mie. Non è, questa, una delle esperienze più belle che possa capitare con un libro? avere, qua e là, la sensazione di ritrovarci pezzi della propria scrittura, dei propri pensieri più preziosi, mischiati, confusi con quelli di un altro autore?
P.S. Forse – ho esitato… – il titolo di questo mio pezzo avrebbe dovuto essere all’inverso: Comprendere il pallone, amare il mondo. Come se la conoscenza del pallone potesse, come altre cose, incendiarci d’amore per il mondo. (Lo so, mi ostino di nuovo: queste mie parole, questo libro, potrebbero almeno intrigare calcisticamente qualche umanista refrattario?) Ma l’inversione è ritmicamente più rude: rompe la musicale armonia, anche nella lingua italiana, dell’alexandrin. E la musica è importante, quando si parla di un libro musicale.