Finitudine
di Antonio Sparzani
E’ uscito da qualche giorno il volume dal singolare titolo FINITUDINE, che l’autore, Telmo Pievani, definisce nel sottotitolo ”romanzo filosofico su fragilità e libertà” (Raffaello Cortina, € 16,00). Telmo ha ottenuto a Padova la prima cattedra italiana di “Filosofia delle scienze biologiche”, ha molti scritti, scientifici e divulgativi, alle spalle, ha collaborato con Luigi Luca Cavalli Sforza (di cui ha qui scritto un bel ricordo) e, lo si sente in ogni riga di quel che scrive, è un autentico appassionato della sua scienza, della ricerca e dei collegamenti della sua scienza con altri rami del sapere, più o meno adiacenti.
Non è facile descrivere questo libro, data la sua densità e la ricchezza di prospettive che offre. Comincerò a raccontare la singolare maniera in cui è organizzato. Il 4 gennaio 1960 Albert Camus (Nobel 1957 per la letteratura) moriva tragicamente sul colpo in un incidente d’auto. Pievani si immagina questa finzione: Camus non muore sul colpo, ma, ricoverato in ospedale, gravemente ferito, rimane tuttavia lucido e in grado di conversare e argomentare. Il suo amico
Jacques Monod (che riceverà il Nobel “per la fisiologia o la medicina” nel 1965 insieme ai colleghi francesi François Jacob e André Lwoff, pure molto nominati nel libro) si precipita a trovarlo. Sia Camus che Monod stavano realmente scrivendo, al momento della loro scomparsa (quella di Monod nel 1976) ciascuno un libro, L’ultimo uomo quello di Camus e L’uomo e il tempo quello di Monod. Pievani si immagina che si tratti dello stesso libro, le cui bozze Monod comincia a leggere all’amico in ospedale: quindi tutto comincia con la lettura della bozza del primo capitolo; ne discutono, lasciano passare qualche settimana e Monod torna con la bozza del secondo capitolo e così via fino al sesto capitolo e alla chiusa finale, che sarà anche una chiusa per l’amico Albert. Dunque il testo del libro si finge sia stato scritto dai due amici e Pievani vi aggiunge i loro molto interessanti e spesso divertenti colloqui ospedalieri periodici. L’altra cosa fondamentale di questa scrittura è che l’autore immagina che il De rerum natura di Lucrezio sia una specie di filo conduttore: l’esergo all’inizio di ogni capitolo è un passo di quest’opera di venti secoli abbondanti fa, che peraltro si attagliano stupefacentemente al contenuto del capitolo.
Tutto parte da questa strana parola del titolo: Finitudine è, così si comincia a capire, una proprietà di tutto quanto, l’umanità finirà, la Terra pure, il sistema solare, la galassia nella quale incessantemente giriamo e anche tutto l’universo andrà verso quella che i termodinamici fin dall’inizio del secolo scorso chiamavano la morte termica dell’universo. Non c’è ombra di trascendenza in tutto questo libro, Telmo è un darwinista convinto, gli dèi della Grecia sono morti e non si ha notizia di altri che li abbiano degnamente sostituiti. Ma la ricerca che spinge tutto l’argomentare del libro è quella di una scappatoia, di una luce in fondo alla strada, di qualche percorso che ci conduca a uscire dalla disperazione del finire, e io certo qui non voglio fare spoiling e dirvi chi è l’assassino, o, meglio, se e come qualcosa ci salva dall’assassino. I titoli dei capitoli da soli indicano questa strada: 1. La finitudine di tutte le cose, 2. Sfidare la finitudine con la tecnica, 3. Sfidare la finitudine con il progresso, 4. Sfidare la finitudine con il DNA. Ma il capitolo 5 ha un titolo diverso: Diventare un coleottero alato, e il sesto, poi, si chiama Le virtù della finitudine.
Il libro non è sempre di immediata facilità, soprattutto quando Monod spiega all’amico Albert certe sottigliezze della genetica tirando fuori gli operoni e la allosteria (per carità, senza apostrofo), ma la sostanza dell’argomentazione si capisce sempre. I colloqui dei due poi, il genetista, colonna del prestigioso Istituto Pasteur di Parigi e l’amico Albert, già nume sacro dell’ambiente letterario francese, sono infarciti di altre vicende, grandi e piccole: i due hanno fatto entrambi la Resistenza antinazista nel loro paese e anche su ciò hanno ricordi comuni; Monod poi, sta cercando di liberare una collega genetista ungherese dalle durezze del regime (siamo nel 1960, ricordate?), cosa che poi nella realtà veramente riuscì. Ho molto apprezzato anche la competenza di Pievani che ha dovuto forzatamente limitarsi a quello che era noto sessanta anni fa, anche se una volta il termine “pandemia” è menzionato, dato che, dal punto di vista della genetica e della medicina in generale, sempre si tratta di una possibilità futura. Confesso che l’ho letto con grande piacere e non esito a consigliarlo, soprattutto poi di questi tempi in cui tutti abbiamo più tempo da dedicare alla lettura e a cercare di praticare quella che a un certo punto del libro, questo è l’unico indizio che vi fornisco, viene chiamata etica della conoscenza.
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Molto interessante questo esperimento di romanzo filosofico. Comincerò presto la lettura.
Grazie della segnalazione Sparz, sono proprio a corto di letture!