I poeti appartati: Alberto Rollo
di
Alberto Rollo.
Cinque poesie con nota di Maria Grazia Calandrone
7.
Così li riconobbe il vecchio, ancora,
gli ultimi teatri.
Poi fu sequenza di sale
impedite, sgocciolii,
cordami molli sulla scena,
e poltrone divelte; e il “da capo”
tossito, scartavetrato
della memoria. Ora ho te
che eserciti la scienza
impietosa dell’assistenza
e che cancelli, nolente, ogni residua
parvenza di tempo. Benvenuto.
Estingui con servile
sapienza quel che resta.
Sii scudiero, custode, vigilante
notturno dei miei “tu”.
12.
Dicevano – così dicevano – che il vecchio
avrebbe patito nostalgie.
Balle. Immobile egli sta fra vetro e letto.
Non ha tempo, né fame, né vergogna.
Esili i polsi
sfuggono al legno della gogna; nuda
scivola la nuca, vedi il manto
trasparente di peluria e il cranio.
Secondino,
invero ingiudicato, e senza accuse,
accusa il vuoto.
Cencio, la pelle sente, e non sente.
Vecchio è sì tanto costui che non si pente
di essere stato o di non essere stato.
25.
Quella, laggiù, è una casa. Guarda.
Io l’ho abitata, sappi, l’ho abitata.
So un corridoio che cos’è, la stanza
dei genitori maestosa, il bagno
con la vasca, la domata
attesa d’una festa, e, profumata,
la cucina, le ombre sotto il tavolo:
la conosco l’infanzia, cosa credi?,
nel catalogo passo anche per un uomo.
Ma non temere, piccino, altri argomenti.
Io cresco carne che non può abitare.
Il tuo mestiere solo può
tollerarmi. Stammi al fianco.
Eppure – è l’alba questo sgomento rosa? –
eppure ecco laggiù le case, dio, le case,
case d’inverno. E i cappotti
e le sciarpe, le borse sotto il braccio,
le figure che vanno, i fiotti bianchi
dei fiati, il cane che attraversa
– diagonale imprudenza –
la coppa gialla ancora del lampione
altissimo, e una donna
– pallida, lunga, più operaia
che commessa – il fuoco degli zingari.
57.
Tu che non ascolti, tu che hai perso
la fragranza e il dono, mi sprimacci
il letto ad ammonirmi che ci sono.
Come dirti invece “quanto” sono?
Tu non pirati o sciti attendi in questo
modesto albergo di lungodegenti:
non l’opera degli uomini disfatta,
né l’opera di Dio. Ma tieni d’occhio
l’ora e il lento male sullo stesso
orologio.
L’elmo ti sta largo, e sulla lancia
sonnecchi come me.
Ultimo senza gloria, senza pianto,
guarda gli onesti soldatini,
le belle vivandiere, i capitani
di quelle retrovie, laggiù, e i fuochi,
e i vani bivacchi delle periferie.
Nota di lettura
di
Maria Grazia Calandrone
Il protagonista de L’ultimo turno di guardia di Alberto Rollo si presenta di vedetta. Come Agamennone, come un cane, come il sottotenente Drogo di Dino Buzzati. Anche qui la battaglia vitale e carnale è finita, ma il nemico immaginario non è fuori, è incluso in quella che non è fortezza, ma torre. Il libro inizia citando l’inizio della civiltà: il vecchio portato sulle spalle dal figlio. Chi parla, qui, è il vecchio, che affida alla pagina il proprio monologo anche stentoreo, anche teatrale, fatto di versi che vengono dal confine del tempo, da un osservatorio di vetro in cima a una torre, dove pulsa un presente quasi immobile e fatto tutto carne. Chi parla, è corpo decrepito che accumula in sé corpi trapassati, corpo che esiste e basta.
Accanto alla nostra sentinella immobile c’è un altro, una “torre gemella”. Le due torri gemelle, destinate senz’altro a crollare entrambe (chi, dopo il 2001, accosta la parola «torre» alla parola «gemella» sta evocando volontariamente una caduta rovinosa) sono corpi divisi, ma uniti nel comune destino mortale: il vecchio si riflette nel custode e lo guarda, con qualche scatto di rabbia e qualche tenerezza, affannarsi a far restare il corpo, a curarlo, a volte offenderlo involontariamente, favorendolo al gioco o esercitando su di lui «la scienza / impietosa dell’assistenza».Chi scrive esorta l’altro a depredarlo, piuttosto, ad approfittare della vita fin che c’è, perché «mai possesso fu più volatile» del tempo.
Quando la vita nella sua gran parte è evaporata – o meglio, quando la vita è ormai stata solo quel che è già stata e ogni altra possibilità è perduta – non rimane che tempo, non siamo che tempo che ancora dura nella carne e ogni tanto viene visitato da una scheggia di memoria inservibile o, peggio, da un desiderio infine solitario. Una tra le più belle immagini del libro è la Pietà formata dal vecchio sulle ginocchia dell’inverno. Freddo nel freddo, freddo sopra freddo senza morte, la mite morte, che pure s’aggira nella torre «vivacchiando» in attesa.
Il protagonista di quest’ultimo turno di guardia, pur avendo uno o più interlocutori, ha già collocato sé stesso oltre un confine invalicabile, si conserva dentro una solitudine riottosa, da stilita, abita un tempo impervio, un’altezza fisica e biologica dalla quale osservare e trascrivere la fine della storia, anzi di più: la fine del tempo lineare e l’impennarsi della linea del tempo nella sequenza di microfratture che altri chiamano vita.
Il vecchio però non ha rimpianti, né lezioni da dare: osserva, documenta quanto vede, con cura da scienziato. Perché lo fa, se non intende tramandare il passato? Lo fa per decifrare il presente e tramandare a sé stesso un presente vissuto come controluce, spesso, anzi, ustionato da una luce di cupola azzurra. Il presente acceca, ma la posizione di esiliato in altezza aiuta a comprendere nello sguardo molta pianura e molta circostanza, dunque il libro è una presa diretta dall’interno di una scelta luminosissima, ispirata, che punta lo sguardo alla briga degli affetti, del moto e del «brulicante / non amore», per infine concludere che, sì, valeva la pena. Vale ancora la pena.