Ritorno alla foce di Gianni Celati

di Paola Ivaldi (testo e foto)

“… le cose sono là che navigano nella luce, escono dal vuoto per aver luogo ai nostri occhi. Noi siamo implicati nel loro apparire e scomparire, quasi che fossimo qui proprio per questo”
Gianni Celati (1989)

Decido di mettermi in viaggio dopo avere letto Verso la foce. I racconti di osservazione di Gianni Celati, scritti in forma di diario tra il 1983 e il 1986, mi hanno acceso il desiderio di andarlo a vedere, questo nuovo paesaggio italiano, di scoprire con i miei occhi come e quanto sia invecchiato da quando Celati, solcandolo insieme all’amico Luigi Ghirri e ad altri fotografi, ne aveva descritto con grazia e spietatezza le primordiali increspature.

Mi muovo in automobile, per una maggiore autonomia, e viaggio da sola, perché così amo fare, e anche per vedere meglio, tutto tranne gli autovelox che stanno come tanti piccoli menhir di ferro arrugginito sul ciglio delle strade statali e irrompono quasi sempre all’improvviso nel mio campo visivo, strappandomi ogni volta, data la velocità quasi sempre eccedente i limiti, la stessa triviale esclamazione di rabbiosa sorpresa: a ogni autovelox sempre la stessa, fino alla foce del Po.

Nelle lunghe ore di guida, mi interrogo sul paesaggio: che cosa sia, il paesaggio, da dove inizi e dove termini, e poi mi domando quale sia il paesaggio da considerarsi per chi viaggi a una velocità artificiale, risultato di un processo meccanico, che non è dunque la lentezza del viandante, che consente al suo sguardo paziente di acquisire mutevole consapevolezza del territorio al ritmo dei passi. Che cosa sono tutti quei campi e capannoni che scorrono frettolosi e sfuggenti al di là del finestrino? E poi: quanto pesa l’età di chi guarda, come influisce sulla percezione e nel racconto del paesaggio? Celati, per esempio, non aveva ancora cinquantanni quando tenne i suoi diari di viaggio: vorrà pure dire qualcosa, il dato anagrafico, l’esperienza di vita, la traiettoria che ci conduce al cospetto di un paesaggio nel momento in cui ci apprestiamo a darne evidenza con le nostre parole. Siamo partiti allegri, trallallero trallalà, o con il cuore pesante? Quanto conta lo stato d’animo di chi osserva nello scandire e intonare l’osservazione stessa?

Mano a mano che mi addentro nel mantovano mi vado sempre più convincendo di questo: il paesaggio sono io che lo guardo, io che “faccio paesaggio”, inevitabile prodotto di uno sguardo, e dunque di un tempo – un’età – e di uno spazio – un percorso. L’oggettività, in fin dei conti, ha poca importanza, chi si illude che si possa trovare verità in un paesaggio? Lo stesso concetto di paesaggio tende a essere fasullo e fallace, tranne che si trascenda una buona volta dal dibatterne ancora, sposando l’idea di Italo Calvino, in larga parte corroborata dall’essenzialità degli scatti di Ghirri, il quale sostiene che altro non siamo se non finestre attraverso le quali il mondo guarda il mondo.

Io che leggo Celati, io stessa mi affaccio dalla sua finestrella, e mi faccio rapire proprio dal suo sguardo, quel peculiare modo tutto suo, celatiano, di interpretare ciò che lo circonda mentre esplora la nostra grande pianura a metà degli anni Ottanta in osservazione del cosiddetto paesaggio postindustriale.

Ancora. Io che vado verso la foce, lo faccio nell’agosto 2020, in epoca pandemica, ben oltre i miei cinquant’anni, con una separazione ancora in gran parte da metabolizzare. Che cosa vedo io che vado verso la foce? Che cosa mi aspetto di trovare lungo gli argini del Po, il fiume tante volte visto nascere sul Monviso e scorrere nella mia città? Le aspettative possono appannare il nostro sguardo, questo sì, e infatti io mi accorgo, per l’intera durata del viaggio, che mi sforzo di udire ancora l’eco dei pensieri di Celati, mi guardo intorno e cerco le orme dei suoi passi, nell’ingenuo tentativo di placare, con l’appiglio letterario, il mio stato di disorientamento e il senso della perdita, della disgregazione, che dalla sfera tutta personale si riverberano nella realtà circostante, nei fatti del mondo.

E quello che vedo è, in un certo senso anche un po’ amaro, la conferma della visione e in parte dell’interpretazione celatiana. La solitudine e la desertificazione del territorio sono fenomeni tangibili e quasi respirabili. La condanna sembra essere scontata, qui, da uomini e bestie che vivono intorno e dentro agli enormi capannoni maleodoranti che fanno la campagna, insieme ai monotoni campi di mais, questa campagna più di altre.

Capannoni, e giganteschi silos puntati al cielo come grassi razzi spaziali. Capannoni e silos. Capannoni pluripiano pieni di mucche tutte zitte, tutte ferme, mucche già morte dentro.

Capannoni dai quali non si leva un muggito nemmeno ad aspettarlo fino a sera, si sentono invece rumori metallici, di sbarre, e rumori secchi e meccanici. Non vedi quasi più gli animali, a volte li puoi scorgere in lontananza se una porta del capannone rimane aperta, allora sì, eccoli laggiù, li scorgi tutti affiancati nelle loro postazioni, senza scampo. Anche gli uomini non sono facili a vedersi, ogni tanto un’automobile scintillante di grossa cilindrata sgomma via dal cortile dell’abitazione solennemente annessa al capannone, il cartello intima di non avvicinarsi.

La sera, prima di addormentarmi, rimango nel letto a considerare quel concentrato di malessere animale che sta dentro ai capannoni, che so così vicini a me, insostenibili grumi di tristezza che costellano tutta la campagna, ammorbandola. Nell’oscurità della notte penso dunque al sonno triste degli animali, i loro occhi chiusi così come lo sono i miei.

La pena suscitata dal pensiero dei grandissimi numeri di animali non più allevati, ma gestiti come cose, mi rabbuia già in autostrada, a dire il vero, quando non riesco a ignorare la quantità di camion di trasporto bestiame, tutte quelle mucche e quei polli movimentati come fossero pezzi di legno o piastrelle. Mentre un tir mi sorpassa scorgo la coscia di un bovino e mi commuovo, sì, ma nel farlo dico a me stessa: no, ma tu non sei normale. Però, che diamine, non è forse questa l’anomalia, alla fine: la mia stessa reazione nei confronti del mio scarno impulso di pena, l’istintiva solidarietà animale.

Sopra un dépliant promozionale del Parco del Delta del Po leggo, tra le tante pubblicità stampate sul retro della mappa (o forse il retro è la mappa), quella di una società agricola della zona, che produce e vende carni e salumi, il cui slogan è: il porco del parco, c’è anche il disegno con l’immancabile maiale che sorride alla propria sorte. Maialini dotati di ali angeliche svettano svolazzanti su di un’installazione pubblicitaria simile a totem posta al centro di una grande aiuola di una trafficata rotatoria stradale.

Tra un campo di mais e l’altro, vecchie case rurali in stato di grave abbandono, fatiscenti cascine di corte pericolanti, tetti crollati dai quali svettano verdeggianti alberi e arbusti. Quando il flusso di traffico e lo spazio lungo la carreggiata me lo consentono, mi fermo e mi avvicino a piedi, a volte entro nelle stalle abbandonate, a terra vecchie catene. A guardare tutte queste rovine si può cadere facilmente nel tranello di una edulcorante vaga nostalgia, tendente a evocare i famosi bei tempi andati, una âge d’or di aie pullulanti di vita salubre, lieti quadretti famigliari e zampettanti animali.

In una delle aziende agrituristiche nella quale faccio tappa, si nota il mirabile recupero architettonico di una vecchia casa padronale, quello che era il fienile viene usato come riparo per enormi macchinari. Il giovane, che ha appena parcheggiato la macchina agricola e con il quale scambio qualche parola, mi fa notare che quella macchina, oggi, fa il lavoro che al tempo dei suoi bisnonni richiedeva la fatica di due famiglie. E poi: “le bestie, una volta, mica stavano meglio, sa”, indicandomi l’angusta porcilaia sotto al pollaio, e aggiungendo: da lì il maiale usciva soltanto per essere ammazzato.

Capita dunque, di tappa in tappa, che io avverta la necessità di abbandonare la presa di posizione, e di sospendere, almeno momentaneamente, il giudizio riferito a quello che vedo che, lo sento, è dettato il più delle volte dai luoghi comuni e dalla inconsistente superficiale conoscenza di fatti e di luoghi oltre che dall’approccio di ostinato rimpianto così tipico dell’età mia.

Voglio restare a quello che vedo, dunque, fino alla foce. Lungo le strade statali le indicazioni non vengono in soccorso del guidatore, confondono, caotizzando nomi di località e luoghi e/o modalità di smercio: iper, mega, discount, spaccio, grossista, outlet, store, truck point. Abbigliamento bimbi, mobilifici, salumifici, vivai, accessori camion, cereali, mangimi zootecnici, pannolini per bambini & adulti. Alla fin fine il cartello con l’indicazione “Zona industriale” suona bugiardo. L’industria non sta in una direzione, in assenza di argini ha tracimato ovunque.

In mezzo ai campi svuotati di uomini e bestie si vedono talvolta, in lontananza, nuvole di polvere sollevate dal passaggio di qualche macchinario, anche gli aironi bianchi danzano insieme al pulviscolo beigiolino per poi riposarsi lievi nuovamente a terra. Le macchine spargono, spruzzano, raccolgono, tagliano, sono loro, massicce, tutte spigoli e punte, che scandiscono le fasi agricole, non ci sono voci, solo rumori. E puzza.

Ancora, campi e capannoni, torri elettriche e tralicci, e tra i tanti capannoni un parallelepipedo di cemento, sulla facciata si legge: lap dance, l’insegna raffigura due enormi labbra dischiuse e rosseggianti. Il locale appare abbandonato, essendo giorno è normale che così sembri, l’ampio parcheggio completamente vuoto, così le new entry, lunghi elenchi di nomi femminili, non resta che reclamizzarle online, dove batte il cuore social della community.

Abbondano i tricolori, appesi alle ringhiere delle case, forse sono rimasti lì dal lockdown di primavera, dimenticati o lasciati per scaramanzia oppure, in ampio anticipo, già in attesa dei mondiali del Qatar. Le bandiere, come quelle che sventolano sopra le ampie tettoie di alcuni insediamenti industriali, sono quasi sempre sfilacciate e scolorite. Anche quella della Coldiretti è stracciata. A Taglio di Po, sulla facciata del municipio, è rimasto lo striscione “andrà tutto bene”, scritto in caratteri tutti maiuscoli e con tanto di hashtag iniziale, il disegno di un arcobaleno e di un cuore colorato a strisce verde, bianca, rossa.

Nei tanti paesi che attraverso, dove abbondano monumenti ai caduti delle due guerre mondiali e i bar sembrano ancora essere il luogo di incontro privilegiato dagli avventori di sesso maschile, ritrovo le “villette geometrili” raccontate a suo tempo da Celati. Ancora le loro tinte acriliche, le anfore reclinate e i velieri nei giardinetti dotati di palma e cancello elettrico. Molte delle villette di Celati, quelle con i nani disneiani, ora sono in vendita. La desolazione, camminando in certe viuzze, sembra essersi stratificata, incrostandosi su muri e ringhiere, amara come ruggine.

Non sarà stato quello, un grave errore? Guardare le case degli altri, proprio negli anni Ottanta, e scuotere la testa. Senza sforzarsi di capire che cosa ci fosse oltre il cancelletto, ancora non automatizzato. Senza chiedersi quale tipo di vuoto, di incertezze e di paure, fossero chiamati a presidiare diligentemente i tanti nanetti colorati.

In quello stesso errore, d’altronde, cadiamo più o meno tutti, essendo quasi inevitabile l’arroganza del punto di vista, la condanna alla superficialità che grava sull’atto descrittivo, sul paesaggismo narrativo. Forse per dire qualcosa di meritevole bisognerebbe penetrare in quello che descriviamo, noi involontari prigionieri dell’estetica e del nostro sguardo emotivo, e capire un po’ meglio, anche per approssimazione, sempre che questo sia possibile. Nelle cose umane ci sono delle quinte dietro le quali scorgere qualcosa di diverso da ciò che sta sul palcoscenico, basterebbe forse cercarle meglio prima di dire qualcosa? Osare spingersi dietro le quinte, esplorando l’invisibile, eventualmente accettando l’inciampo nell’inedito o il rischio del tutto buio.

Alla fine, il Po appare, largo e placido, emozionante, e la gita naturalistica che compio con l’allevatore-­‐pescatore di molluschi, un ragazzo in gamba che dice cose sensate e interessanti, mi riappacifica con il mondo e la sua complessa trama, lo sfacelo lo sento alle spalle.

Sul barchino che percorre i labirintici canneti del Delta riesco a scorgere una straordinaria varietà di uccelli sempre visti sulle pagine dei libri o nei documentari, i colori dei loro piumaggi sono quanto di più meraviglioso si possa immaginare, da togliere il fiato. Ecco, io lì non ravviso necessità alcuna di andare oltre le apparenze, di varcare una soglia, di chiedere perché. La natura è sempre nuda e vera allo sguardo. Lì, tra fiume e mare, ripongo nello zaino penna e taccuino, smetto di prendere appunti. Lì io mi sento beatamente giunco tra i giunchi, e taccio.

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davide orecchio
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Vivo e lavoro a Roma. Libri: Lettere a una fanciulla che non risponde (romanzo, Bompiani, 2024), Qualcosa sulla terra (racconto, Industria&Letteratura, 2022), Storia aperta (romanzo, Bompiani, 2021), L'isola di Kalief (con Mara Cerri, Orecchio Acerbo 2021), Il regno dei fossili (romanzo, il Saggiatore 2019), Mio padre la rivoluzione (racconti, minimum fax 2017. Premio Campiello-Selezione giuria dei Letterati 2018), Stati di grazia (romanzo, il Saggiatore 2014), Città distrutte. Sei biografie infedeli (racconti, Gaffi 2012. Nuova edizione: il Saggiatore 2018. Premio SuperMondello e Mondello Opera Italiana 2012).   Testi inviati per la pubblicazione su Nazione Indiana: scrivetemi a d.orecchio.nazioneindiana@gmail.com. Non sono un editor e svolgo qui un'attività, per così dire, di "volontariato culturale". Provo a leggere tutto il materiale che mi arriva, ma deve essere inedito, salvo eccezioni motivate. I testi che mi piacciono li pubblico, avvisando in anticipo l'autore. Riguardo ai testi che non pubblico: non sono in grado di rispondere per mail, mi dispiace. Mi raccomando, non offendetevi. Il mio giudizio, positivo o negativo che sia, è strettamente personale e non professionale.
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