Inno a Lagioia (prima parte)
di
Effeffe
Grazie a Rocco Pinto , libraio e amico, sono riuscito a partire per Parigi con sottobraccio la copia de La città dei vivi, di Nicola Lagioia.
In treno ho staccato lo sguardo dalle pagine aperte sul tavolinetto, in quei momenti che Fernando Pessoa aveva definito intervalli tra il sé e il sé stesso , e mi è venuto in mente un viaggio fatto anni prima da Roma dove si era appena conclusa la fiera della piccola e media editoria, a Torino, città in cui allora risiedevo. Per puro caso, in quello stesso scompartimento, avevo incontrato Giorgio Vasta e per vincere la noia c’eravamo avventurati in una lunga conversazione su temi a noi cari. Non so come, ma solo perché non me ne ricordo la transizione, Giorgio mi cominciò a parlare dello sceneggiato, L’amaro caso della Baronessa di Carini e più particolarmente dell’omonima ballata della sigla d’apertura che, mi faceva notare Giorgio, diceva allo spettatore, d’emblée, come sarebbe andata a finire la storia.
Il romanzo inchiesta di Nicola Lagioia, questa sua ballata dal ritmo incalzante, perentorio, come ogni narrazione che si dedichi a una storia veramente successa, e sufficientemente raccontata dai media, non può riservare sorprese al lettore su come vada a finire perché la realtà non si cambia. Il solo “spazio” aperto rimane quello dell’interpretazione dei fatti, una genealogia degli eventi che sia in grado di illuminare le zone d’ombra, centrali o periferiche che siano, di una storia umanamente inspiegabile se non si accoglie un’idea dell’umano più complessa di quanto l’etica comune ci faccia credere.
I fatti:
L’omicidio Varani, risale al 2016. Manuel Foffo e Marco Prato si resero responsabili di un delitto caratterizzato da particolare crudeltà, uccidendo Luca Varani nell’appartamento di Foffo nel quartiere Collatino a Roma, colpendolo con oltre 100 tra martellate e coltellate. (Adnkronos)
Loin de MOI. Dalida e Clément Rosset
Nelle prime pagine scopriamo dell’amore/ossessione di Marco Prato, uno degli assassini – a rose is a rose – per la cantante Dalida e così sono andato a cercarmi il titolo della sua canzone preferita, Loin de moi, per leggerne le parole.
Loin De Moi L'ennui m'enchaîne Je n'y peut rien Quoi qu'il advienne L'ennui me tient (...) L'ennuie me ronge Tout doucement Il me replonge Dans mes tourments
La parola noia, ennui, che in francese quasi si sovrappone per suono a quella di notte, nuit, ricorre per ben tre volte ogni volta associata allo stato d’animo di una vittima, di un prigioniero. La noia m’incatena (…) mi tiene in pugno,(…) mi rode dentro. Un dato questo che è per me rivelatore e come vedremo paradigmatico per tutta la vicenda da come ce la racconta Nicola Lagioia. Loin de moi, Etude sur l’identité è anche il titolo di un magnifico saggio di Clément Rosset e rileggendolo per questa occasione mi sono reso conto di come La città dei vivi vada letto come un essai/roman sulla questione dell’identità ai tempi dei social.
La tesi di Clément Rosset è che, per quanto ci si ostini a pensare ancora all’individuo come una persona la cui “vera” identità è nascosta dalla sua identità sociale, non esiste nessuna identità al di fuori di quella sociale. Particolarmente felice, a mio avviso, un passaggio del secondo capitolo intitolato ” l’identità in prestito” in cui la questione viene posta in modo estremamente chiaro.
Scrive Rosset:
D'altronde, quando diciamo di qualcuno che "lo conosciamo bene", stiamo solo dicendo che ne abbiamo riscontrato il carattere ripetitivo del suo comportamento e che di conseguenza sapremmo quasi a colpo sicuro prevedere come questi si comporterà in date circostanze. Il che significa che abbiamo capito perfettamente quale sia il suo "ruolo"(la lingua spagnola lo traduce con papel, documento, testo) e la sua logica ripetitiva. Va da sé che tale ruolo concerne il suo comportamento sociale e che dunque la persona che diciamo di conoscere non è un'identità personale bensì sociale.
La costruzione di un orrore
A proposito di questo libro è stato scritto troppo spesso e, a mio avviso, in modo scriteriato che si inseriva in quella tradizione di grandi romanzi d’inchiesta inaugurata da Truman Capote con A sangue freddo fino a quel piccolo capolavoro che è L’avversario di Emmanuel Carrère. Come ha rilevato in una nota Helena Janeczeck si tratta invece “di un libro molto autonomo da tanti modelli, anche per dire da “L’avversario” che è l’altro titolo tirato in ballo a raffronto. Può piacere o no, ma epigonale non lo è per nulla.” Se infatti nei primi due casi siamo di fronte a una ricostruzione dei fatti attraverso l’indagine condotta “corpo a corpo” con i protagonisti, nel caso di Nicola Lagioia ogni esplorazione delle vite dei due assassini e della vittima non avviene mai in modo diretto – le circostanze del processo non lo permettevano- ma solo e sempre attraverso la mediazione di testimoni di quelle vite, sia che si tratti di familiari o di personaggi, amici e no, dei rispettivi entourage. Sul finale soltanto abbiamo la corrispondenza che l’autore intrattiene con Manuel Foffo ma anche in questo caso mediata dal mezzo di comunicazione. Insomma Nicola Lagioia non guarda mai dritto negli occhi gli autori del crimine, ma si immerge totalmente nel magma sociale che ne ha bruciato i destini.
Ecco perché il termine “costruzione” mi sembra più valido di quello di ricostruzione, dispositivo che è il vero motore di quei romanzi citati in apertura e a cui aggiungerei lo Sciascia dell’Affaire Moro e del caso Roussel. Nicola Lagioia con uno stile ancor più che neutro direi neutralizzato dalla dimensione quasi sovrannaturale dell’eccidio, mai ostentatamente empatico e ancor meno estetizzante- tentazione in cui si imbatte sempre colui che abbia deciso di scandagliare gli abissi dell’animo umano, la sua parte più insopportabile e perfino banale- assolve il compito di costruire un tempo, un luogo, i personaggi di questa vicenda, in poche parole le tessere grazie alle quali sarà possibile per il lettore “ricostruire” le vicende, in un mosaico che è essenzialmente sociale.
Quelle tessere c’erano già, in forma di articoli, documenti, testimonianze, flussi di coscienza più o meno impigliati nella rete dei social ma sono qui riproposti en vrac allo stato brado e allo stesso tempo composti ritmicamente in una narrazione che si fa sequenza dopo sequenza naturalmente. Le cose, insomma, sono andate così perché non potevano andare diversamente.E a renderci consapevoli di questo determinismo sociale saranno soprattutto i padri dei tre ragazzi: Ledo Prato padre di Marco, Valter Foffo padre di Manuel e Giuseppe Varani padre di Luca. E le madri? Quasi del tutto assenti.
( à suivre)