Annotare il dolore. – Su “Taccuino dell’urlo”di Sonia Caporossi

di Antonio Francesco Perozzi

Mi piace parlare di Taccuino dell’urlo (2020, Marco Saya Edizioni) di Sonia Caporossi in termini di dialettica e “impaludamento”, intendendo con questi i due diversi impianti di significazione all’interno dei quali si muove il linguaggio del libro. Mi pare – voglio dire – che il Taccuino possa leggersi come reazione del linguaggio allo stress provocato da due spinte poietiche separate ma dipendenti l’una dall’altra: la prima, elastica, che nasce dall’energia che si agita tra due (s)oggetti in attrazione; la seconda, entropica, che viene dalla (e incide sulla) coesistenza/opposizione tra lo svelamento e l’occultamento di un quid reale nel (e attraverso il) linguaggio.
Di fatto, il libro racconta una relazione, amorosa e dolorosa, tra due soggetti. Nella sezione “Indizi” (di per sé già significativa: l’autrice lascia al lettore alcuni possibili strumenti ermeneutici, e il testo si annuncia in partenza come labirintico) le prime parole che si incontrano – che sono quindi le prime dell’opera – sono proprio «Lui e lei». Le pagine successive non faranno altro che interrogare, attraverso un linguaggio di cui ora proverò a studiare le caratteristiche, quanto in potenza già contenuto nell’incipit: la relazione – in senso metafisico, oltre che affettivo – tra due soggetti, che è, giocoforza, connessione e separazione al contempo (potremmo riconoscere nella congiunzione “e” l’allegoria della compresenza di vicinanza e lontananza).
Ma l’impianto dialettico, a mio avviso, è riscontrabile anche nella struttura del testo: trentadue poesie (segnate con numeri romani) sono inquadrate da altre tre composizioni (segnate con lettere greche) che scandiscono i tre momenti dell’opera. Anche seguendo queste sole poesie-cornice è possibile tracciare in linea di massima il percorso del Taccuino: α si incentra su atti di denotazione e percezione, tramite l’anafora di «ho visto» e l’individuazione di qualcosa «in un altro» (precisamente, «l’abisso», «il riflesso», «l’influsso», «l’ossesso»: si nota già qui la potenza della relazione, che chiama in campo immagini e concetti legati alla indeterminatezza, al buio, al dolore); φ segna la fase più acuta della disfunzione della referenza del linguaggio, e cioè – ma ci tornerò più avanti – della parola che si auto-sabota di fronte alla realtà («voglio solo addormentare questa voglia di volere»); ω, in chiusura, colloca nel silenzio («alla fine lui resta in silenzio») l’approdo risolutivo della dialettica (ma – e sarà più chiaro nelle righe successive – è un silenzio che non può farsi se non in simbiosi con la propria negazione, che è poi l’affermazione del linguaggio; tant’è che l’ultima strofa torna a parlare di scrittura, cioè di distruzione del silenzio).
Quando parlo di “relazione” e “dialettica” all’interno di questo libro intendo, perciò, lo spazio che intercorre tra «Lui e lei», ma anche il campo “magnetico-semantico” (la stessa autrice parla, in XXXII, di «campo d’azione», tra i due soggetti) provocato dal cercarsi di questi due soggetti, che si traduce (sul linguaggio) in termini di tensione distorcente e massimalismo. Maria Grazia Calandrone, che firma la prefazione, parla infatti di un rapporto «che disorienta, perché procede per contrasti e contraddizioni» e individua la miccia del caos nel dolore: «anche la lingua con la quale la relazione racconta sé stessa deve simulare il disordine della ferita, il dolore che scaglia fuori da sé.»
L’attrazione verso l’Altro (o il distacco da esso; comunque il riferirsi a) determina quindi una scossa interna alla sintassi. Da qui deriva quello che ho chiamato in apertura “impaludamento”, facendo implicitamente riferimento alla «palus putredinis» di Sanguineti: se le ragioni storiche, e perciò poetiche, di Laborintus possono ritenersi lontane da quelle del Taccuino, non pochi sono gli elementi che in questa Caporossi fanno pensare – almeno a me – a Sanguineti, come la deformità dei versi, l’accumulo di materiali, le lettere greche, i giochi di parole, l’innesto di vocaboli e concetti filosofici e accademici. Quello che soprattutto ci interessa, però, – e al netto comunque di altrettante ragioni di distanza tra l’autrice e il primo Sanguineti, come, ad esempio, il verso breve e la struttura fonico-metrica regolare di alcuni testi (entrambe le cose già in α) – è il generale sconquassamento dello strumento poetico che anche Caporossi mette meticolosamente in atto; e lo fa esplorando gli ambiti più vari del mondo verbo-visivo: dal deragliamento grafico dei versi sulla pagina all’uso di caratteri “speciali” (la parentesi graffa e i doppi due punti mi sembrano i più caratteristici), dal lessico “difficile” (la filosofia, le scienze, il greco, il latino; ancora più stridente se coinquilino del lessico pop, come nel caso della metafora calcistica su cui si impernia XXXII) all’evidenziazione di parole (corsivo, grassetto, ma anche il barrato, che cancellando mette in risalto).
La “palude” del Taccuino dell’urlo è quindi la palude di linguaggio originata dalla tensione incontrollabile che collega i due soggetti e si ripercuote sui versi in un gioco (tragico) di apparizione/sparizione dell’Essere nella parola. Ancora torna utile la prefazione, quando Calandrone scrive: «La scrittura di Sonia Caporossi è mossa dalla necessità di comprendere filosoficamente il mondo, che si dà silenzioso nei suoi nessi». Il poetico, potrei chiosare, nasce allora proprio dal fatto che il tentativo di comprensione filosofica del mondo – che richiede un sistema logico – si scontra con i vuoti del mondo stesso (la tensione irrisolta verso l’Altro) e quindi con gli effetti di quelli sul linguaggio (da cui la necessità di “Indizi” lasciati come viatico da chi scrive a chi legge).
Sono molti, infatti, e sparsi ovunque, i punti in cui il linguaggio si annuncia potente e impotente insieme e – anche in questo caso – con tecniche e intensità diverse: ne sono esempi le “negazioni tetiche” (negazioni che chiamano in causa, nell’immaginazione, ciò che negano: stessa strategia del testo barrato) su cui si fonda VI, gli ossimori («irragionevole ragione»), l’oscillazione tra esterno e interno dell’Io («prospettive e vedute / come fossero panorami del mio inconscio»), le dichiarazioni dirette dell’inefficacia materiale delle parole («in questa bieca pretesa / sensoriale del linguaggio», «chiamare il suo nome nel vuoto», «e nessuno risponde / a ciò che ha domandato»), le tautologie e i meta-processi («ragionare la ragione»), i versi che giocano su meccanismi paradossali e di circolo vizioso tra presenza e assenza («nell’ipocrisia / di questo industriarsi a non fare», «e non era stato mai / così prossimo / alla meta della perdita»).
Nel deragliamento del linguaggio generato dalla tensione emotiva-esistenziale tra due soggetti in attrazione-repulsione io vedo la ratio di questo libro, che non si risolve artisticamente, però, in una meta-poetica assoluta, ma diventa documentazione – seppur non mimesi – del reale proprio nel momento in cui si rivela franta e incontrollabile: né meta-poesia né referenzialità pure, ma un’estetica che abita lo strato intermedio tra realtà e linguaggio, l’alternanza tra asserzione e sottrazione di entrambi. Uno sforzo meticoloso – ecco il senso del titolo – di annotazione, di nominazione della sfera più dolorosa del non detto.

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Daniele Ventre (Napoli, 19 maggio 1974) insegna lingue classiche nei licei ed è autore di una traduzione isometra dell'Iliade, pubblicata nel 2010 per i tipi della casa editrice Mesogea (Messina).
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