I reduci
di Maria La Tela
A cinque anni dovevo cantare Cicale, era un provino per una piccola rete tv.
Mia madre diceva che la facevo bene, che ero intonata, sapevo tutte le parole a memoria e la cantavo con un ritmo allegro.
Se me la fai sentire, mi disse la signorina al provino, ti regalo la mia catenina, il ciondolo era un delfino che luccicava.
Dopo quello mi ricordo solo i tacchi stizziti di mia madre che si alzavano svelti dalla strada come una marcia e la mia mano stretta forte, troppo forte, nella sua.
A nove anni mi dice andiamo a fare i buchi alle orecchie per la Comunione.
Ma faranno male?
No.
Vieni mi disse il commesso, è solo un pizzicotto, passa subito.
Il marciapiedi era pieno di bisogni animali, mi muovevo fissando quel labirinto per non guardare la schiena di mia madre che avanzava come un cadetto. Accarezzai le mie orecchie intatte, mi piacque pensarle di un colore rosa chiaro. Facevo quasi tutto con mia madre, perché dei tre ero la figlia femmina, perché mio padre spesso lavorava fuori sede.
In casa mia si ascoltava Como un vagabundo di Bertín Osborne, erano i mesi in cui mio padre lavorava in Spagna, ci ha fatto diverse trasferte come operaio per riuscire a guadagnare qualcosa in più. Questa Lingua, lo spagnolo, non l’ho mai scelta per i miei studi, era un codice che annunciava distanza, a volte anche di mesi. Mio padre imparava lo Spagnolo, io e i miei fratelli, no, canticchiava in Spagnolo, noi no, ho desiderato per molto tempo che ci portasse tutti con sé almeno una volta d’estate, un anno addirittura tracciammo il percorso con un pennarello sull’atlante geografico, ma a conti fatti, avrebbe significato far sfumare parte del guadagno della trasferta e non se ne fece mai niente. Un giorno arrivò un suo amico di Valencia, era in visita a casa di parenti della moglie e lo chiamò per un saluto, volli a tutti i costi accompagnarlo, avrò avuto una decina d’anni, per controllare con i miei occhi com’erano fatte queste persone che parlavano con la lingua tra i denti e che facevano illuminare mio padre. Arrivammo in una casa con giardino, sotto il patio una tavola di legno portava ancora i resti di un pranzo consumato da poco, in giro alcuni bambini si rincorrevano ridendo forte. Mio padre e il suo amico sorridevano, si raccontavano cose gesticolando e tra un amaro, un liquore, donne con i grembiuli che svuotavano piatti, arrivò un vassoio di dolci. Ero poggiata a un’altalena dove un ragazzino gridava ayudame! Ayudame! fingendo di essere lì lì per cadere, lo ignorai; mi girai dall’altra parte verso il tavolo e restai a fissare l’amico di mio padre che in una manciata di minuti mangiò tre cassatine siciliane di un bianco eccezionale; mise la prima tutta intera in bocca, la saliva mi arrivò copiosa sotto la lingua, ingoiai. Così fece con la seconda e la terza, non desideravo mangiarle, desideravo solo quel modo di prendere; non conoscevo quell’esagerazione, a casa nostra, ci si guardava prima di prendere un dolce, si cercava di intuire in che direzione andare per essere accontentati tutti. Lui invece affondava i denti nella glassa senza riserve, prendeva l’attenzione di mio padre senza riserve. Una volta tornati a casa, raccontai a mia madre solo di bambini stranieri e altalene, mio padre ascoltava compiaciuto, ma solo quando imitai la voce del bambino spagnolo che gridava ayudame!, rise in un modo irraggiungibile e inconsapevolmente doloroso.
Durante i viaggi di mio padre, mia madre ci accontentava più del solito; nei primi anni ottanta ci fu il boom dei pulcini, pigolavano nei cartoni a ogni angolo di strada, noi addirittura ne comprammo tre, non tutti insieme, a distanza di qualche settimana, il tempo che passava tra una morte e l’altra. Il primo correva veloce e scivolava in corridoio come un proiettile, doveva essere un gallo; era strano vedergli toccare il pavimento di marmo, restavo stordita dal rumore delle zampe rugose sulle mattonelle lisce, un’immagine che prendeva a calci tutti gli scenari possibili in cui mi ero figurata dei pulcini; morì strozzato da una mollica di pane bagnato, mia madre provò in tutti i modi a salvarlo versandogli in gola un filo d’acqua che invece lo soffocò del tutto.
Il secondo riuscì a raggiungere il balcone e fece un volo di cinque piani, senza far rumore; non riuscii a vedere dove si fosse schiantato e tornai sulla poltrona a guardare i cartoni.
A sette, otto anni ero senza cuore, ancora senza coscienza e funzionava.
Il terzo lo trovammo un mattino con le zampe dritte e rigide, lo aveva ucciso il freddo della notte, la scatola di cartone e l’ovatta non erano bastate a scaldarlo.
Non ricordo nessun pianto, nessuna ombra nei miei pensieri, per qualche motivo da qualche parte dentro di me c’era l’idea che la vita dei pulcini si riducesse ad un ammalarsi e morire in fretta, forse per via dei loro occhi sempre assonnati. Era come se non avessi un fondo o un pensiero morbido, ogni tristezza era precaria, ogni gioia era fugace, tutto era provvisorio. Tutto, tranne la paura di provare dolore che sapeva tenersi in vita come sterpaglia.
Quest’allerta rispetto alla sofferenza maturò in maniera latente negli anni successivi. Avevo una compagna alle medie, era ripetente, magra, pallida, portava delle magliette corte che lasciavano a vista la sua pancia tenera. A quei tempi i jeans si portavano corti, attorcigliati in fondo e le sue caviglie ossute venivano fuori da scarpe nere troppo grosse. Si chiamava Mariangela, aveva il palato molto stretto, i denti superiori erano storti e chiudevano a imbuto fino agli incisivi, formandole un triangolo nella bocca; questa caratteristica le faceva emettere dei suoni dolcissimi quando pronunciava le esse. Per carnevale invitò me e le altre ragazzine della classe a una piccola festicciola a casa sua, una delle tante palazzine basse che si trovavano nel quartiere. A carnevale, se avevi tredici anni, non potevi farti vedere in giro in costume, così ci vestimmo tutte da punk, l’unico travestimento che ti concedeva di andare per strada in quei giorni senza essere quellochesieravestitopercarnevale. Eravamo così.
La stanza di Mariangela era rosa, sui muri la vernice era scrostata a chiazze, la madre, una piccola donna vestita a lutto, poggiò sulla scrivania un piatto con delle patatine e un’aranciata. Allora era così una festa delle medie senza maschi, tutte sedute sul letto di Mariangela con una patatina in bocca e l’altra nella mano, un piede che segue il ritmo di una canzone e nessuna che parla. Dopo due ore di musica, qualche coriandolo, e le esse di Mariangela che arrivavano tra una risatina e l’altra, era già un po’ buio, nei bassi è sempre già un po’ buio a tutte le ore, forse per questo lei non studiava, si assentava spesso e ripeteva l’anno. Forse voleva chiedere a qualcuna di aiutarla con i compiti, magari proprio a me che andavo bene, ma non lo fece mai. Tornai a casa e volli cenare con il mio trucco ancora in faccia, perché non volevo staccarmi da quel pomeriggio, volevo pensare a Mariangela che in quel momento raccoglieva da terra i coriandoli e le patatine, risistemava il suo letto, i suoi capelli cotonati e decideva di non tornare a scuola mai più. Guardai mia madre riempirmi il piatto di pollo e patate, ero lì, a quella tavola, non in quella stanza rosa, ma tenermi lontana dal dolore cominciava a non funzionare come prima.
Provai a pensare al primo ricordo che avevo di un’amica, ero molto piccola, si trattava di Rossella, una bambina che viveva nel mio stesso palazzo; mi piaceva andare a casa sua, c’era una motivo preciso, il ricordo di un momento un po’ strano che mi era rimasto dentro e che cercavo di far accadere di nuovo per poterlo dimenticare bene. Non lo sapevo ma lo facevo.
Quando andai da Rossella la prima volta era d’estate, giocammo a tante cose, mangiammo dei biscotti, corremmo in corridoio con le scarpe di gomma che fischiavano a ogni frenata, finché la sua camera, l’ingresso, tutta la casa diventarono troppo piccoli per inventare ancora nello stesso pomeriggio; ci restava il balcone, così ci andammo portando con noi qualche pentola di plastica, delle posate viola e delle bambole. Faceva caldo, ma all’ora in cui ci andammo, c’era ombra. Siediti lì, mettiti qua, dai da mangiare a lei, mescola la zuppa, la zuppa era il piatto di sempre, versavamo in quelle bocche di plastica litri di poltiglia invisibile di verdure che noi non avremmo mai mangiato. Eravamo comode sul pavimento con le gambe nude sulle mattonelle, i nostri denti bianchi ancora intatti; alzai gli occhi mentre spazzolavo i capelli gialli di Gloria, la bambola toccata a me e guardai i balconi del palazzo che si affacciavano sul nostro, sia a destra che a sinistra. Eccolo lì, il tavolo di plastica con le sedie, la tenda verde per tenere lontane le mosche, il mio pappagallo nella gabbia blu, eccolo lì, è il mio balcone, mi si agitò tutto nel petto, mi alzai, mi sporsi per guardare meglio: com’era strano senza di me, allora così lo vedeva tutti i giorni Rossella.
In quel momento mia madre uscì dalla nostra cucina per gettare qualcosa nella pattumiera:
«Mamma! Mi vedi?»
Mi vedeva, mi salutò con la mano come se stesse su un molo e io su una nave.
«Mamma!» gridai ancora, solo perché si girasse di nuovo.
Siete lì senza di me e siete tranquilli, pensai.
Mia madre mi mandò un bacio con la mano e tornò in casa.
«Vieni!» mi sgridò Rossella «la zuppa si fa fredda!»
«Me ne devo andare.» dissi.
«No! Perché?»
«Il balcone è vuoto e mia mamma ha detto che devo tornare perché le manco.»
Mia madre se n’è andata presto lasciandoci come reduci di guerra. Siamo state vicine e distanti in modi che ci rendevano esauste nel nostro moto eterno dell’onda sulla riva, ma se le chiedevi di me, lei, ricordava solo cose belle.
Molto bello, anche se non ho capito se l’Autore è Andrea inglese o Maria La Tela, se c’è un gioco di pseudonimi…
Grazie per illuminarmi.
Gentile Rossana, sono felice le sia piaciuto il mio racconto. Grazie di averlo letto, Maria La Tela.
No, no, Rossana, Maria La Tela esiste, ed è lei l’autrice del bel racconto. Io sono solo il “postatore”…