Acqueforti spagnole
SANTIAGO DI COMPOSTELA – CITTÀ TRISTE, SENZA ALBERI, CHE SI RALLEGRA D’INVERNO SOTTO LA PIOGGIA
(“El Mundo”, 6 ottobre 1935)
Il Medioevo. Sì, il Medioevo, con le sue vaste zone di ombra e pietra, così lo immaginiamo dopo aver letto una cronaca e aver chiuso gli occhi.
Gelido, ascetico.
Galizia, la bucolica, si cancella al giungere dinnanzi alle mura di cinta di Santiago di Compostela. La violenta presenza della città medievale è così intensa che di colpo ci si dimentica che nel mondo esistono ancora città allegre. Si volta la testa, spaventati, come se il mondo finisse qui, lungo questi confini granitici, tra i quali, alle tre del pomeriggio si potrebbe uscire nudi per strada senza che nessuno se ne accorgerebbe. I caseggiati di pietra, grigi, di tre piani, con ampie scale scure, sembrano un pretesto per riempire lo spazio che lasciano i quarantasei edifici religiosi, monumentali e sinistri. I negozi, sotto i portici contorti, sembrano tane, molti banchi sono di granito, ed è inutile cercare la folla sotto le arcate levigate dal vento o a cassettoni. Solitudine. Solitudine di morte, di spopolamento, di noia e di penitenza.
Dico che Santiago di Compostela gela il cuore. Strade oblique e in pendenza, con nomi taciturni: Angustia,
Lagarto, Pescadería Vieja, Ànimas, Sal–si–puedes, Calderería. Mostruosi cubi di pietra, lisci, con alte finestre e inferriate, porte verdi, scudi di armi sulle facciate, pale d’altare con bambini scrostati che gettano saette di oro finto, vergini scolorite sulla groppa di un asinello, illuminate lateralmente da fanali di ferro, appesi, come impiccati, a catene, e una farfalla che brucia al sole in un bicchiere d’olio. E poi stemmi, campane che suonano, tuoni, pilastri di pietra al centro della carreggiata, irregolare, morse cancellate dall’ossido dei secoli. Nei buchi dei muri ciclopici, immagini di tortura e sofferenza sorvegliano una porta verde. Di fronte a un fanale di ferro, un santo con un pugnale piantato nella gola e la palma del martirio nella mano. Le gronde sporgono orizzontalmente da altissimi muri di pietra, teste di iena col busto di donna. Dove si guarda, figure abominevoli, segregate, dietro le sbarre come nelle gabbie dei leoni, bare di pietra, rilievi di monaci, la barba con gli anelli come i re assiri.
Neanche un albero.
Nelle fughe, tra i blocchi di pietra, qua e là c’è una macchia, lilla o viola. Un pon–pon sinistro nato da un prato. Ai fianchi della cattedrale, si apre una piazza con una gradinata talmente larga che sembra entrare in mare, e il mare è una pianura di pietra, e non c’è un solo albero nel cuore della città signorile, e questa piazza, tutta lastricata e chiusa da un lungo muro e da portici di fronte, è la Plaza de los Plateros con piccole vetrate dove, nell’ombra, brillano intagli di argento, oggetti religiosi e, nel punto più alto del lungo muro di ferro, scendendo una scala di pietra come se si attraversasse un corridoio, si scopre un’altra piazzetta lastricata dove non c’è un solo albero, come se il verde fosse sacrilegio qui, dato che tutto è di pietra, e al centro c’è una fontana di pietra con cavalli di pietra, con le colombe che beccano nelle giunte, tra una lastra e l’altra, o dentro gli occhi delle statue. Ovunque cadano gli occhi, ferro o pietra, e se si alza la testa, non si vedono cime di alberi, solo torri piramidali di pietra, annerite dal muschio e dai liquami degli uccelli, e scudi di pietra, squartati, con corone orizzontali. E il vento corre in questo deserto pietroso, sinistro, come se soffiasse nella città degli spettri, che qui ci devono essere, stipati sotto i portici che coprono i vicoli, e le stesse persone si perdono come fantasmi sotto gli archi, perché le colonne, rotonde o quadrate, e gli archi delle colonne sono di pietra, e il sole sembra un sole di pioggia, un sole bagnato e triste, venuto forse dal purgatorio, e tutto così crudele, che i ferri verdi, i fari agli angoli, e i monaci che si perdono tra le arcate, e le macchie del sole livido, il rintocco delle campane ci fanno pensare a un’umanità consacrata esclusivamente agli offici della penitenza religiosa, inginocchiata, solo inginocchiata.
La città silenziosa.
Ed è inutile che i bambini ridano, incorniciati dalle ciclopiche arcate, ed è inutile che le donne passino con luccicanti vestiti a fiori. La morte ha esteso così il suo impero a Santiago di Compostela che le voci umane risuonano fuori dal tempo, come quelle degli uccelli in gabbia, che ogni volta che cantano, dal loro carcere, ci ricordano che non dovrebbero stare lì dentro.
Silenzio. I clacson delle macchine non suonano, nemmeno gli altoparlanti delle radio, o i grammofoni, e neanche il chotis madrilegno, o i canti dei ciechi con la chitarra, o le orchestre di strada degli ebrei tedeschi. Silenzio, spegnimento, morte. Dicono che Santiago in inverno rivive con l’allegria degli studenti. Ma è d’inverno che in questa città piove ogni giorno, finché la pietra da grigia non si fa nera, così che, se Santiago, ora, in estate, è buio come un purgatorio, in inverno deve sembrare un sepolcro, il sepolcro dei vivi.
NdR: questo magnifico pezzo fa parte della magnifica raccolta “Acqueforti spagnole” (il titolo originario è ben diverso: “Aguafuertes, Gallegas Y Asturianas”) di Roberto Arlt, pubblicato recentemente da Del Vecchio, nella traduzione di Marino Magliani e Alberto Prunetti)
Molto bello, scritto con calibrata maestria.
Leggete ” i Sette Pazzi” ed “I lanciafiamme” capirete che stiamo parlando di uno dei veri maestri della letteratura argentina