Dialoghi con le tubature
di Roberta Salardi
Frammento tratto da Trilogia della scomparsa di Roberta Salardi, Effigie, settembre 2020 (pagg 99-102)
T’è mai capitato di mangiarti le mani? Io ho continuamente voglia di masticare qualcosa, qualunque cosa. Finito il pane e le sigarette, mi mangio le unghie, i capelli, le pellicine… Finiti i miei, vorrei passare ai tuoi. Ma dopotutto non credo affatto che staresti meglio senza tua madre. Nonostante tutto, ti sono necessaria. Qualcuno deve pur piangere sul latte versato! Tu saresti capace di sprecare persino l’olio senza fare una piega.
«Senti quello che dico?»
Mi fai blaterare e blaterare al vento. Dov’è quel disgraziato di tuo fratello? Non è colpa sua se non risponde. Sei tu che l’hai ridotto così.
È difficile per te immaginare una corsa per portare a qualcuno, da qualche parte, a qualcuno, un corpo freddo, bagnato, ferito, esanime, svenuto, trascinato correndo, prendendo in braccio un corpo morto, incespicando, sollevato ansimando, pesantissimo, caduto, cadendo a corpo morto, rialzandosi, facendosi aiutare da qualcuno sulla strada, forse dietro l’angolo, fuori dalla boscaglia, credendo che fosse un tuffo non un scivolata, mettendo male il piede, raddrizzandosi, il corpo di qualcuno respirante, gorgogliante però muto, assente, snodato, annegato, il corpo di un fiume, di un mare scivolato per sbaglio in una bocca, in una gola aperta, con i pesci che vogliono nuotare, saltare, respirare, il naso che vuole respirare, uscire tra le foglie, gli occhi chiusi che anelano alla luce oltre i rami, oltre la superficie delle foglie, ma la testa riversa, un braccio pesantissimo, il corpo molle, sciolto, libero di nuotare sbracciato, con la testa indietro, in giù, crollata, scrollando l’acqua, vomitando i pesci, la sabbia, le mie collane, nuotando, affogando, sbagliando strada, rifacendola a testa in giù, sott’acqua, ma respirando ancora, soffiando, senza dimenticare di saltare le onde, mangiare i pesci, passare sotto i rami, dandomi la spinta, ancora un colpo di reni, incrociando qualcuno, chiamando a gran voce, a grandi bracciate…
È difficile immaginare le fatiche inutili, le corse controvento, il tempo perso per salvare qualcuno: per qualcuno che era già morto tanto tempo fa, a sedici anni: felice di esserlo, di sedici anni e morto per sempre.
Lasciatemi stare! Sto tanto bene dove sono… Voi scherzate! Non tornerò per due donnette stupide, per una madre che straparla e per una ragazzina presuntuosa e petulante, favola di tutto il quartiere. Tutti ridono a crepapelle alle nostre spalle per le sue stramberie e vanterie. Una che vorrebbe darsi a tutti ma nessuno si prende, tanto per capirci. C’è da vergognarsi ad avere una famiglia così. Non tornerò per un inferno ammobiliato con cucina abitabile, meglio non abitarle troppo le cucine: pane e sangue marcio, sangue marcio con e senza pane… Soprattutto se torna mio padre, quello proprio non fatemelo rivedere. Lavorava ma era sempre povero in canna; manco a farlo apposta, più lavorava e più era povero… Qua in giro non lo poteva vedere nessuno. Doveva dei soldi a metà isolato e tutti a chiedere a me, da quando era sparito, manco m’avesse lasciato l’eredità, lo stronzo. Mia madre, una scema e mia sorella, una stronza anche peggio di mio padre. Due gocce d’acqua. Mai una volta in sedici anni che mi abbia regalato uno dei suoi ciondoli, delle sue collanine, che so, da rivendere tanto per farci qualche dose, per sballare un po’ con gli amici. Poteva venire anche lei se voleva. Ma no, lei faceva la freddina, la perfettina. Si dava un tono, la cretina, poi si sarebbe fatta scopare da cani e porci, soprattutto i porci. Se per caso c’era un nuovo arrivato scartato da tutti con la faccia da depravato, quello le piaceva. E chiedeva a me come arrivarci, come fare a conoscerlo. Ah, sì? E tu cosa mi dai in cambio? Inutile stare a spiegarle, solo tempo perso. Quante volte avevo provato a dirle che volevo ritrovare nostro padre per spaccargli la faccia? Ma lei non ascoltava, le parole le entravano da un orecchio e le uscivano dall’altro. Solo canzonette. Non aver tirato un pugno a mio padre, questo sì, questo lo rimpiango. Ma non rovinatemi il trip, se no m’incazzo. Questa è la dose più figa che mi son fatto, se permettete.
Non torno indietro certo per quella faccia di merda di chi ha avuto la viltà di mettermi al mondo. Prima si è scopato per bene mia madre, ma non è tutto. Non gli è bastato. Ci ha pure lasciato a galleggiare tutti quanti in questa fogna. Grazie tante. È questo che dovrei dirgli? Bastardi!
Dovrei tornare indietro per voi, figli di puttana?
Le fighe… ho capito dove volete arrivare. Ma io non ne ho bisogno. Visto che ci tenete, v’insegnerò un trucco. Si può arrivare al bello saltando quel passaggio, tutta la rottura di coglioni delle donne. Io ci ho dato un taglio. Be’ c’è chi può, modestamente…
Quando scopri la chimica, sei salvo. Sei Dio, cazzo!
Modestamente, ce l’ho fatta. Io sono in paradiso. E voi crepate, stronzi!
Mia madre che correva per le scale cercando di capire, di sentire: «Cos’è successo?» Ma il fiato era fermo in gola, allacciava le parole. Scendendo, risalendo le scale. Correndo con lentezza, la voce arrotolata, le gambe annodate… «Ho sentito qualcosa…» … i piedi… «un rumore… » … pietrificati… «Perché i piedi sono così freddi?» Non un rumore, un grido. «Mi avete chiamata?» I piedi pesantissimi. Un corpo scomposto, un grido disarticolato, caduto giù per le scale… Scendendo, non più salendo, solo scendendo… «Non sarà…?» Il corpo ghiacciato. «Fulvio! Martina!» Credevo fosse un tuffo, non una scivolata. Quando uno salta sugli scogli e sta provando… salta sui lastroni… «Martina!» Credevo fosse una finta, non una caduta… «Non è possibile!» Una passeggiata, non una corsa. «C’era qualcuno con te, se no… » Saresti capace… «Dov’eri?» Soltanto una stupida…
Che bella prosa teatrale. E che titolo. Brava
Ottimo testo, intrigante.