Città in bilico
di Valentina Parisi
Vicini per chilometri, vicini per stagioni.
C’è modo e luogo di scoprire che il confine è d’aria e luce.
D’aria e luce.
C.S.I., Vicini
Ci sono città in bilico, dove il presagio del confine è così onnipresente da spingerci a credere che a ogni passo potremmo inavvertitamente varcarlo. Città che, come un seggiolino catapultabile, proiettano altrove chi vi è nato, facendogli capire che la loro vera natura consiste nell’essere un trampolino di lancio e, nel migliore dei casi, un luogo cui fare ritorno. Perciò non stupisce che Trieste – dopo le “escursioni” tra saggio e reportage di Magris e Rumiz – continui a generare testi che, eleggendola a proprio punto di partenza, la abbandonano quasi subito per guardare al di là, preferibilmente a est. Pur nella differenza delle rispettive scritture, La frontiera spaesata di Giuseppe A. Samonà e Il bosco del confine di Federica Manzon tematizzano entrambi la natura liminale del capoluogo giuliano, l’uno sotto forma di un erudito invito al viaggio attraverso l’Istria e Lubiana fino a Zagabria, l’altro con una vicenda esemplare di inquietudine e rispecchiamento tra ovest ed est prestata a un io autofinzionale.
Fulcro comune per i due testi è la definizione che Samonà dà di Trieste come città del non: “Non Austria, non Ungheria, non Italia, non Slovenia, non Serbia o Croazia, e un poco, o anche molto, in proporzioni e con propensioni diverse, di tutte queste culture (…) A pochi passi da Venezia, non è più Italia, nello spazio (…); non è più Austria nel tempo, anche se ricorda Vienna per l’architettura; non è ancora Balcani, anche se se ne pronunciano molti suoni e se ne sentono gli odori, i sapori”. Quel non che per Samonà ha una valenza positiva, in quanto presupposto di un’inevitabile tendenza all’incontro con l’altro e alla mescolanza, per la protagonista di Manzon è invece all’origine di un senso di spaesamento indotto dalla decisione assai poco convenzionale dei suoi genitori di iscriverla alla scuola slovena. Una scelta per cui non si ravvisava alcuna ragione concreta: “…ho trascorso l’infanzia in un equilibrismo esotico: straniera in una scuola che non avevo motivo di frequentare non potendo vantare nemmeno un parente nella linea diretta del sangue che abitasse fuori confine, intrusa nel mio quartiere dove i bambini andavano tutti alle stesse elementari nell’ordinato viale di commissione asburgica”.
Senonché – come l’autrice suggerisce fin dall’incipit – un motivo ovviamente c’era, e consisteva nella scuola di anticonformismo cui il padre “distintissimo nullafacente”, pacifista e poliglotta, sottoponeva l’io narrante sin da piccola, portandola a camminare senza meta per intere giornate nei boschi. Il posto migliore – a suo avviso – per spiegare a un bambino l’inconsistenza delle frontiere: “…il bosco non si divide per nazionalità come una cartina geografica, hai mai visto una betulla ritrarre i rami per non sconfinare in territorio straniero?” Benché questo convincimento sia destinato a rivelarsi tragicamente errato, l’esplorazione in salita e in discesa di un entroterra montuoso, a piedi o con gli sci, di giorno o al buio, resta la coordinata essenziale del romanzo. Se per l’autore della Frontiera spaesata mare e montagna sono a Trieste pressoché “inseparabili”, Manzon esclude invece risolutamente dal suo orizzonte quello che Samonà chiama l’“apeiron dalle frontiere liquide”. Nel Bosco del confine il mare è rimosso e riguarda sempre qualcun altro: i compagni di scuola, liberi di sguazzare “nell’acqua petrolifera dei bagni Ausonia” mentre la protagonista e il fratello vanno a scarpinare sul Carso, ma anche i turisti che dell’ex Jugoslavia conoscono solo le isole della Dalmazia.
Proprio questa attenzione esclusiva accordata al retroterra verticale che cinge Trieste consente a un certo punto la sua “metamorfosi” in Sarajevo, città che, non a caso, appare all’io narrante che la raggiunge durante le Olimpiadi invernali del 1984 stranamente “vicina”, e insieme inspiegabilmente affascinante, come del resto tutto ciò cui l’avverbio “di là” allude. Una sensazione di “inquietante familiarità”, in grado di far riemergere strati rimossi della memoria, che si ritrova anche in Samonà, anzitutto a proposito delle spensierate “gite senza valigia” in quella che all’epoca era ancora e semplicemente “Jugo”: “…tutto ti era esotico e familiare nel contempo”. Viaggi invariabilmente intrapresi da Trieste, consuetudinari al punto da non sembrare neppure tali, eppure che per l’autore già tracciano quella via verso i Balcani, in cui ogni tappa non fa che rinnovellare il desiderio di partire, “come se si trattasse di conoscere il mondo semplicemente mettendo un passo dietro l’altro”.
Un titolo o sottotitolo alternativo della Frontiera spaesata avrebbe infatti potuto essere “Fin dove arriva l’eco di Trieste”; ma anche la presenza fantasmatica di Venezia non è meno sporadica in queste pagine dedicate sì a luoghi concreti, ma anche e soprattutto “alla grazia/disgrazia (…) di non poter scegliere di appartenere completamente a un posto, a una nazione, persino a una lingua invece di un’altra”. “Non sono serbo se non per caso (…) Non sono bosniaco perché sono nato in un paese che si chiamava Jugoslavia e lì sono cresciuto (…) Non posso dirmi nemmeno europeo perché in Europa non ci vogliono (…) È molto pericoloso non avere un’identità collettiva”, spiega Dragan all’io narrante di Manzon tornata a Sarajevo nel 2015, dopo che la guerra ha posto fine a quella che Samonà, citando Fulvio Tomizza chiama “la miglior vita”. E soprattutto dopo che il bosco del Trebevic, quello dov’era stata realizzata la pista di bob per le Olimpiadi, da proiezione delle selve dell’infanzia s’è trasformato nel “bosco del confine”, ossia un punto in cui le linee convenzionali che separano gli stati hanno acquisito una loro minacciosa ancorché invisibile realtà. La Sarajevo post-bellica sembrerebbe dunque incapace di continuare ad assolvere la funzione di “luogo di elezione” attribuitale dai ricordi; eppure, lasciando il finale sostanzialmente aperto, Manzon ci lascia liberi di chiederci se la sua protagonista non preferirà in extremis un’altra soluzione al ritorno in quella città molto più a ovest di Trieste “dove tutto funziona a meraviglia”. Anche se, come suggerisce acutamente Samonà, “la terra che si pretende amare è un tempo, più che uno spazio”, e infinite sono le delusioni cui si espone chi spera di ritrovarvi ciò che si era desiderato.
Giuseppe A. Samonà, La frontiera spaesata. Un viaggio alle porte dei Balcani, Edizioni Exòrma, 2020, pp. 306, euro 16.
Federica Manzon, Il bosco del confine, Aboca, 2020, pp. 176, euro 14.
Due belle segnalazioni, grazie