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Il camion della guardia

di Pedro Lemebel

 

Poi il mare è agitato
e piove sangue.

Pablo Neruda

 
Mai avrebbe pensato che il calore sarebbe stato così intenso. Cinque minuti prima, l’ombra dei muri massicci e il letto intatto perfettamente vuoto di Francisco le avevano fatto venire freddo: si sentiva congelata dentro, se avesse respirato troppo profondamente il suo cuore si sarebbe frantumato come un pugno di ghiaccio. Ma ora, completamente all’aperto, il sole picchiava forte, bruciava la sua mediocre gonna a quadri azzurri, che all’altezza dell’addome si allargava in una protuberanza senza forma e un po’ troppo in alto per essere una gravidanza. Sotto i suoi piedi, una strada sperduta e aspra senza nessuno che si avventurasse a percorrere a piedi i cinque chilometri fino a Basaure. Allora si fermò: nel reggimento il boato del cannone di mezzogiorno le bloccò il battito come in una morsa, la lasciò ferma a osservare la curva dalla quale sarebbe dovuto apparire il camion della guardia. Dalla polvere saliva il torpore di un’ondata di calore febbrile, che strappava alla terra ogni traccia di umidità.
Mercedes Quilobrán cambiò piede, appoggiando il peso del corpo sulla gamba più stanca; poi introdusse la mano nella cintura che aveva in vita e le sue dita, quasi con affetto, palparono le sporgenze di quelle corazze di tartaruga e sistemarono le pesanti uova tra gli stracci che le avvolgevano. Ricordava bene quello stato: erano passati solo ventitré anni, il cuore di Francisco le batteva sottopelle, crepitando come un piccolo astro, come una segreta estensione di sé stessa che le avrebbe portato più vita. Fino a quella sera, lì aveva vissuto Mercedes, vigilando sulla tristezza del deserto dalla sua finestra. Di quell’uomo aveva un ricordo sfumato, soltanto il cappello stinto che era rimasto simbolicamente sul tavolo. Poi il ricordo aveva cominciato a sparire sulla strada per Basaure, dopo essersi legata al ventre quel fertile nodo d’indipendenza. Per questo Francisco era così suo. Ne era stata l’assoluta padrona durante i nove mesi della gestazione materna, lui veniva dalla terra, arando la corteccia della sua pelle con il parto a spintoni, perché aveva gli occhi color del fango, e quando imparò a parlare, quell’aria di prepotenza di chi si sente amato e necessario dava un senso all’aridità del paesaggio. Saperlo vivo le dava ragione di esistere, anche soltanto per osservarlo. Mercedes abbassò gli occhi e non per il sole: la terra la circondava in un vortice immenso di abbandono. Alcune gocce caddero sulla polvere e si asciugarono rapidamente. A quell’ora niente sembrava poter stare in piedi, qualunque progetto si scioglieva, si perdevano l’entusiasmo e la memoria. Era talmente forte il calore… ma nonostante quella coltre d’afa lei non avrebbe ceduto, non avrebbe disertato la sua impresa di morte. L’odio trabocca una volta sola, altrimenti poi arriva la rassegnazione, l’apatia che come una camicia di forza ci fa mettere seduti ad aspettare che le cose cadano sotto il loro proprio peso.
Lei non si sarebbe accontentata: in molti sarebbero saltati in aria, ma anche così non sarebbe stato sufficiente, perché erano stati crudeli; sarebbe bastato un tiro, indifeso com’era. Perché allora i dieci buchi nella lana bruciata del suo maglione? Perché non aveva potuto vestirlo e cambiargli i calzini macchiati di sangue? Lui, che era così fissato per queste cose e le diceva: «Mamma, la camicia blu con il maglione celeste, per favore.»
Ora nel suo cervello la storia prendeva forma, lo vedeva in quell’ufficio…
“Fa il pretenzioso il campagnolo, talmente pezzente che non ha nemmeno un posto dove cadere morto”, il caporale lo guarda con scherno da dietro la scrivania.
“E così anche tu ti sei messo a fare il rivoluzionario, merda? Avresti dovuto controllare chi era tuo padre, prima”, allora, come una molla si lanciò contro quella faccia, per romperla.
“No, Francisco, attento!”, Mercedes si contrasse sentendo forte nel petto l’ardere degli spari. Francisco cadeva, cadeva senza forze, cadeva fatto a pezzi come un acrobata tragico che non tocca mai il fondo. L’ultima eco del Mauser si perdeva nel paese e risuonava nel ventre di lei a un ritmo implacabile. «Aveva ventitré anni ed era mio figlio», si ripeté varie volte come per ribadirselo, ma quella parola suonava così strana dal giorno che erano venuti ad informarla della sua morte. Era un suono che si era annidato nel suo stomaco e aveva cominciato a creare odio, coprendola di rabbia e impotenza, per questo aveva cercato gli esplosivi mettendo a soqquadro la stanza, quei souvenir che Francisco si era portato dal servizio militare, rovistò tra i vestiti e non si dette pace finché le sue dita non sentirono il freddo dell’acciaio, la corrente gelida delle due bombe a mano che adesso costituivano la sua falsa gravidanza.
Il camion apparve improvvisamente accelerando la marcia dopo la curva. Ironicamente, era l’unica cosa verde che si vedeva nel raggio di chilometri. Il cigolio del ferro e le ruote scivolavano a soli tre metri da lei. Mercedes in piedi e con le gambe aperte interruppe la marcia.
“Che cosa vuole?”, la domanda venne accompagnata da un gesto impaziente.
“Sono in travaglio, portatemi a Basaure, per favore”, da dietro lo sporco parabrezza i soldati si guardarono: “Alla sua età?”, lei non rispose, abbassando la testa in un gesto sommesso.
“Va bene se entra lì dietro, e si sbrighi, siamo in ritardo.”
Mercedes, girando intorno al veicolo, si aggrappò a una sbarra e salì lasciandosi cadere all’interno. Il camion accelerò facendola forzatamente accomodare sulle dure lamiere del pavimento. Sotto il tendone ancora una volta sentì freddo, anche se un odore di corpi umani e metallo caldo la avvolgeva. Da entrambi i lati la fila di soldati resisteva come lei, immutabile, agli scossoni della strada. Nessuno le disse niente. Gli otto uomini aggrappati ai fucili lì seduti erano solo quello: uomini con armi.
Quando tolse le due sicure, qualcosa si liberò dentro di lei. Un gesto di rabbia le incurvò la bocca e prendendo forza dai ricordi di Francisco, azionò il detonatore… Erano quindici secondi che contò assegnandone uno ad ogni uomo seduto lì: gli altri cinque li lasciava alla giustizia divina.
La fiammata le tolse il respiro. Lo scoppio ebbe varie ripetizioni meno rumorose. Poi il fumo cominciò a salire dalle macerie con una lenta sensazione di libertà; per un momento quella nube oscura coprì il sole, facendo sentire l’ondeggiare dell’ombra tiepida sulla strada.
Dopo, il calore continuò a mitragliare la terra.

NdR Questo racconto fa parte della raccolta “Irracontabili“, dello scrittore cileno Pedro Lemebel, pubblicata recentemente da Edicola, nella traduzione di Silvia Falorni

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giacomo sartori
giacomo sartori
Sono agronomo, specializzato in scienza del suolo, e vivo a Parigi. Ho lavorato in vari paesi nell’ambito della cooperazione internazionale, e mi occupo da molti anni di suoli e paesaggi alpini, a cavallo tra ricerca e cartografie/inventari. Ho pubblicato alcune raccolte di racconti, tra le quali Autismi (Miraggi, 2018) e Altri animali (Exorma, 2019), la raccolta di poesie Mater amena (Arcipelago Itaca, 2019), e i romanzi Tritolo (il Saggiatore, 1999), Anatomia della battaglia (Sironi, 2005), Sacrificio (Pequod, 2008; Italic, 2013), Cielo nero (Gaffi, 2011), Rogo (CartaCanta, 2015), Sono Dio (NN, 2016), Baco (Exorma, 2019) e Fisica delle separazioni (Exorma, 2022). Alcuni miei romanzi e testi brevi sono tradotti in francese, inglese, tedesco e olandese. Di recente è uscito Coltivare la natura (Kellermann, 2023), una raccolta di scritti sui rapporti tra agricoltura e ambiente, con prefazione di Carlo Petrini.
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