I poeti appartati: Massimo Rizzante
Ho provato una vera felicità quando Massimo mi ha dato la bella notizia di questa nuova uscita – a dire il vero si dovrebbe dire entrata per queste occasioni, perché una pubblicazione significa proprio questo, la parola che entra nel mondo. E credo che il titolo di questa mia longeva rubrica, I poeti appartati, nel caso di Massimo diventi tanto eloquente quanto il silenzio che circonda la sua opera. In un’epoca dominata dai poeti tromboni e non avari in decaloghi di penna e di pena dei lettori, a noi rimane questo salutare venirci incontro delle vere poesie. effeffe
Tre poesie di Massimo Rizzante
Stato di grazia
non si può entrare nello stato di grazia
se non dopo una lunga abluzione nella vasca
dell’idromassaggio, una sauna e un infuso al ginepro,
naturalmente nudi, sotto lo sguardo severo dei giardinieri
delle terme, un pomeriggio all’ombra della vallata,
in cima c’è una fortezza, siamo solo alla metà di giugno,
la guerra non è finita, dopo aver lasciato il sentiero
del sottobosco e il lago incustodito – del resto
c’è un dio là sotto –, i loro sguardi sono solo passerelle
provvisorie sull’infinito, mentre ora, nell’acqua,
sembrano talee, forme vegetali dalle parti mancanti,
foglie, frasche, frange immerse per rigenerarsi
e dare vita a opere d’arte, a cui poi i giardinieri
daranno un nome – lylium, asphodelus, chionanthus,
in fondo è questa la loro missione: proteggersi
dalla natura che li coglie di sorpresa a ogni istante,
del resto, si dicono, non si è mai visto un ciliegio
suicidarsi, né una farfalla diventare collezionista,
inutile chiedere soccorso a Rudolf, il luogo
da cui vengono non è la Svizzera, le frontiere
sono chiuse, nessuno sa come siano giunti sin qui,
perché si siano messi a guardare il lago,
non si sono accorti che c’è una guerra?
devono averlo scambiato per il loro anno di nascita,
l’innatalità, infatti, li perseguita, ogni giorno tornano
sui lori passi, ma non lasciano tracce e,
quale sarà la loro sorte, varcheranno insieme
la soglia, così, dopo la morte, si ricorderanno
del loro trapasso l’una nel corpo dell’altro
Dogs in the night
«I am Providence», scrisse una volta quel tale antisemita,
scrittore di storie macabre, con il pallino della fantascienza
e inventore, prima di Borges, del pseudobiblion: un libro mai
scritto, ma preso sul serio in tutti i campus del Connecticut
e non aveva torto! Dopo un secolo siamo tutti
così stanchi dell’umanità che la nostra attenzione
sembra ridestarsi solo se leggiamo di due omicidi al giorno,
o di innominabili orrori provenienti dallo spazio
brutti tempi, poi, quelli in cui nessuno sa più rubare
una frase senza farsi scoprire, finendo nella lista d’oro
dei post-modernisti. La libertà non è più di questo mondo!
Così pubblicare libri mai scritti non si paga a caro prezzo
per questo, forse, mi ritrovo da non so quanto tempo – vita
ai margini, sodomia, ubriachezza, versi di scherno ai progressisti
– a Città del Messico, a percorrere il circolo di Amsterdam,
avendo come unica compagnia una muta di cani
al guinzaglio di alcune grandi ombre che qui hanno intinto
i loro sogni nell’inchiostro dell’esilio. Ma i morti odono
quel che dicono i vivi? Oppure i loro tentativi, assediati
dal non-essere, passano al setaccio di questi mugolii canini?
Non so se esista una fede animale che, senza garantirci nulla,
ci separi dalla demenza. Se l’assenza influenzi la presenza
Ricordi della natura umana
ti hanno infilato in tasca un biglietto:
non creda con il suo anti-darwinismo
di rubarci il progresso! Non glielo permetteremo.
La risposta avrebbe dovuto essere istantanea
invece, come dicevi, «bisogna attraversare in tutta
la sua larghezza un fiume ingombro di giunche cinesi
spinte in diverse direzioni». Il vento le fa strambare
troppo spesso perché si possa decifrarne il senso
in ogni caso, non te l’hanno permesso e, deglutendo
a fatica, «il noioso progresso barbuto» ha seguito la rotta
dei porcellini di terra (cochinillas), discendendo
tutti i gradini della scala fino al disastro
per difendersi secernono gocce rosso sangue
e così, declassati da insetti a vittime, allettano
il più grande dei predatori, l’eterna crisalide,
a cui la natura ha voltato le spalle, ma non le stigmate
Benvenute, vertigini!
Si tratta di indossare – capita spesso –
la maschera dell’ossigeno.
E le maschere, come è noto, sono, con l’assenza,
l’unico collante. Di qui società, valori,
comportamenti. Sebbene, in fondo, il più delle volte
siamo spasmi, svenimenti, sudori freddi.
Ci aggiriamo attorno al prossimo
come funesti anelli di Saturno,
mostrando i nostri siderali impulsi,
mentre, a frotte, generazioni di burocrati
si legano gli uni agli altri per non lievitare, o sparire
addirittura nell’ozono assorbiti dalle loro occupazioni.
Malgrado le migliori previsioni dei medici,
oltre all’udito, ho perso il gusto.
Così mi vesto come un pezzente, e la mia lingua,
che non ha mai fatto le ore piccole con l’eterno,
può parlare con ironia anche maggiore
a chi riduce la poesia al lamento del suo ombelico.
Agli asceti gourmet,
direi che leggiamo troppo.
Se anche questo non fosse il menù del giorno
– lo stesso da decenni. Ma ora che il mio sistema
neurovegetativo si è arreso al mondo vegetale, preferisco
all’acre profumo dell’intelligenza il ronzio primordiale.
Nota
di
Giuseppe Montesano
Fedele a una modernità troppo spesso sbertucciata dai post-qualcosa, Massimo Rizzante dà forma a una
poesia che racconta e fa entrare il tempo narrativo della prosa nel verso in modo originale proprio perché
volutamente pieno degli echi dei Maestri. La sua poesia è un vademecum per resistere alle mitologie
del presente e ingaggia una terribile battaglia frontale contro l’oscena volontà di potenza sposata al
capitalismo spettacolare che è la sola religione del nostro tempo. Ma è anche un taccuino sui cui foglietti
sono segnati i luoghi dove abbeverarsi alla poca sapienza che ci resta.
La voce profonda che qui parla con il tono inconfondibile di chi è in viaggio verso l’essenziale chiede che sia fatto spazio a una civiltà fuori dalla sopraffazione, una civiltà che chiede sogni per vivere e non incubi per morire. Raccogliendo in questo volume la sua opera poetica, Massimo Rizzante ha scritto semplicemente uno dei più bei libri di questi anni di miseria dei sentimenti e della mente.
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Meritevolissima rubrica di Francesco Forlani, cui devo molte scoperte tardive, non quella di Massimo Rizzante, per mia fortuna. Grande scrittore, grande studioso, poeta, narratore, traduttore eccellente, docente dalle ampie vedute, Massimo è un grande artista europeo. Questo in Italia non è perdonato. E’, come avrebbe detto Cristina Campo, un imperdonabile, anche perché se ne è giustamente fregato di apparire dove solitamente, specie in poesia e specie in Italia, si appare, nei modi retoricamente abietti e politicamente patetici tramite cui in poesia e in Italia si appare. Allora evviva lo stare appartati. Dispiace però che pochi universitari beneficino della conoscenza dell’unico intellettuale italiano che ha diffuso nella nostra lingua la poesia contemporanea di aree europee o limitrofe, meravigliosa e altrimenti ignota. Grazie a Massimo e a Francesco, e buona domenica a tutti i lettori dei libri di Rizzante.
Grazie Rosaria per queste tue parole.
effeffe
ps
mi piacerebbe ospitare anche te in questa mia rassegna non rassegnata.
Grazie, Francesco. Quando vuoi.
Se da un lato potrei concordare con la constatazione circa il “silenzio che circonda (…) l’opera” di Massimo Rizzante, dall’altro noterei che, forse, tale silenzio proviene da settori dell’accademia e della cultura italiana la cui chiusura e arretratezza è ben nota e pervicace.
Nel mio piccolo segnalerei, invece, che La Dimora del Tempo sospeso di Francesco Marotta e la rivista Zibaldoni e altre meraviglie, affidata alla cura di Enrico De Vivo, seguono da anni con puntualità e passione l’opera di Massimo Rizzante.
uaneme!
’innatalità, infatti, li perseguita, ogni giorno..”
non si poteva dirlo meglio