Isola aperta
di Francesco Ottonello
[Propongo qui un estratto della prefazione di Tommaso Di Dio al libro di esordio di Francesco Ottonello Isola aperta (Interno poesia), pubblicato nell’ottobre 2020. A seguire una prosa e due poesie del libro. B.C.]
Tommaso di Dio:
“[…] La poesia di Francesco Ottonello sta tutta qui: un tentativo di raggiungere il punto in cui la propria singolarità si faccia altro, possa essere materia di vita altrui. Eppure, per quanto ci si possa provare, niente e nessuno potrà mai accogliere integralmente ciò che una volta si è stati: ogni momento è unico e chiusi siamo da un limite che, sebbene poroso, non ci è dato mai aprire del tutto. E allora, ecco, la consapevolezza senza appello di un destino che non è di certo solo del poeta, ma si allarga ben oltre i confini biologici e di genere, per farsi riflessione offerta ad una generazione di coetanei: sarai sterile, dice il primo verso di questo libro. E l’eco di queste amare parole si riverbera per tutta la traversata delle pagine come lo sfondo necessario dei nitidi, lavorati versi di questo giovane autore che, se indugia nei propri ricordi e nelle proprie parentesi biografiche, lo fa soltanto per mostrare meglio questo «gesto» di cui consta la scrittura: dare qualcosa che non può essere ricevuto nella sua completezza, che nel donarsi si ritrae in un segno che ci lascia soli. Ma l’epigrafe iniziale del poeta americano Hart Crane già ci aveva messo in guardia: la memoria affidata alla pagina si spezza […]. E così grazie al buon uso dell’oblio, delle lacune, dei bradisismi del cuore, dei buchi e delle separazioni di cui racconta questo libro fatto di prose, poesia, immagini, di aggregati di versi separati e uniti da sottili linette, costruiamo un percorso possibile di avvicinamento ad una condizione di consapevolezza interiore […]. Attraverso questo linguaggio della memoria e dell’estraneità, linguaggio della litania, della preghiera e della filastrocca, è come se chi scrive imparasse a lasciare finalmente aperto il passaggio, a farsi attraversare da qualcosa di senza tempo, che fa sì che i giorni evaporino nei suoni più impalpabili, più imprevedibili […].”
Fissare troppo a lungo
Dimentico per questo invento
–
domani lontana sarà una terra
non basterà, distesi sulla sabbia
non bastava eppure batteva dentro
a granelli man mano sbiadendo
come sfumarsi, come fiumi.
I quark non si manifestano mai isolati. Più si cerca di separarli più il campo di forze si oppone, nel nucleo l’interazione forte aumenta all’aumentare della distanza. Fino a un certo punto, in cui compaiono altri quark, come dal nulla, per cancellare un eccesso di forza crescente.
Il processo è detto adronizzazione. Gli scienziati hanno difficoltà a comprendere, nei rilevatori non si riesce a vedere l’individuale quark, ma solo fasci di particelle impacchettate assieme.
Così ti scrivo. L’isola si apre, si dilacera. L’isola è aperta per esistere ancora.
Alluxingiau babbaluxi deslùxiu
Trova una formula al mitologema
a sicut erat at semper a torrare
–
ovunque prende il corpo muti suoni
ripulsano i rizomi dei pianeti
l’astro morente ingurgita i battiti
come se giacessimo lì, addormentati
in sas tumbas ’e sos gigantes nuovi eroi
incubati noi, guarendo da visioni ininterrotte
svincolati dal tempo appena culmina il sole,
è così che usciamo e incomincia un altro
vociare di verbo is brebus ’e is brebus
–
lasciamo il giorno controluce nel suono.
Nota
Alluxingiau babbaluxi deslùxiu è in sardo (letteralmente “sgualcito baluginio invisibile”) così come il v 2. – “così com’era sempre tornerà” – un capovolgimento dei versi a sicut erat / non torrat mai (“così com’era non torna più”) del testo A Nanni Sulis (I), in Poesias de Giuseppe Mereu (1899). L’espressione al v. 8 “nelle tombe dei giganti” si riferisce ai monumenti costituiti da sepolture collettive appartenenti all’età nuragica (II millennio a. C.), a cui è legato il rito di incubatio, un sonno profondo atto a placare le proprie ossessioni (descritto già da Aristotele, Fis., IV, 11, studiato da R. Pettazzoni in La religione primitiva in Sardegna e K. Kerényi in Il mitologema dell’esistenza atemporale nell’antica Sardegna). Riguardo al v. 13, is brebus ’e is brebus (“verbi di verbi”, dal latino verbus) non indicano “le parole” del linguaggio umano quotidiano (paràulas, fueddos), ma quelle magiche dei rituali di antica tradizione sarda, parole fatte per generare, con un potere effettivo sulla realtà.