Concerto per l’inizio del secolo
di Roberto Minardi
Tema della fine
non saremmo dovuti nascere
né avremmo dovuto lanciare
la bottiglia vacante
amarne la percussione al rotolare sul bitume
saremmo dovuti rimanere cani con le lingue lunghe
ragni o servitori di tè, tiratori di lenze
in una maniera o nell’altra, guardiani
avremmo dovuto prestare l’attenzione tutta
ai granchi che sollevano le conchiglie e s’affacciano
studiarli per lunghi e interminabili mesi
ci si aspettava l’avanguardia invece
gonfiamo il centro commerciale
nostro adultero Paese dei Balocchi
faremmo meglio a non pensare al figlio pinocchiesco
lucignolesco o peggio adorato dalle maestre
il bacio privo di ragione, perfetta scultura a più labbra
ce lo saremmo dovuti dare prima dello scoppio
lassù, e volare fianco a fianco
mano nella mano
come in pura e svenevole ballata
fino a atterrare sulle crepe della salata terra
dove attendeva il formicolio
non saremmo dovuti avviarci verso l’oceano
se tutto si conclude fra la battigia e lo scoglio che sbuca
non era questo l’orizzonte
non dovevamo infinocchiare le menti
con la sacralità delle tiritere musicate
della parola secca, in croce
della passiva lode dei cieli
le ere non sarebbero dovute trascorrere
per giungere allo scambio vicendevole di elettrodomestici
gemelli per polsini
visioni fiorettate
il genitore doveva tirarci in mezzo al campo
perché imparassimo la radice, lo stelo che fa capolino, il fragile ramo
e l’incanalata acqua
pace ai loro diavoli
ai loro gas e i loro grassi
non dovevamo far sì che medici e armati
godessero di ammirazione sconfinata
certamente più dignità ci si sarebbe aspettati
da una specie tanto fotterina, che tutte le studia
fuorché scordarsi di essere in vita
genìa dedita a faticare nei mattatoi
a usare tanto la cavalletta quanto l’oca
per le digestioni cattive
si doveva essere più feroci
morsicare la propria progenie
cibarsene in porzioni mezzo crude
o rimanere seduti e inermi sotto un albero solenne
e l’abbiamo compiuto, tutto questo
oltre a finire coll’abbigliarsi
e edificare ripari
avremmo dovuto imparare
a non comprendere un’acca
a rimanere in posa da autentici feti
scorgere il male salvifico nel bene
tutti i sangui e gli spermi e le sabbie
avremmo dovuto mischiare
e non preoccuparci delle nostre pelli frivole
essere punti, pungere
non dovremmo essere là, dove non siamo
riposare i pollici e gli indici sulla guancia
per valutare le vie di mezzo
ma ammutolire davanti alla burrasca, urlare
massacrati dagli schizzi della fanghiglia
non azzerare la foga
a colpi di famiglia, per mal di testa
per insufficienza di glorie
dovevamo essere partoriti di nuovo
divenire il più fidato nemico di noi stessi
stupirci per l’ultimo lembo di sole che vela la rena, piangere.
Anticipazione n.2
Doveva essere terra iberica e tutt’intorno pullulava una comunità di magrebini. Dai loro sguardi era come se ci prendessero in giro. Stranamente c’era il sole anche di notte e io non riuscivo a spiegare il fenomeno a mio figlio. Dovetti litigare con lui per impedirgli di entrare in mare, dove galleggiava diversa merce da vendere, in bella vista. Per sedare sia il pianto del bambino che il mio impaccio acquistai un cubo di metallo grezzo.
Cronaca differente
siccome finocchio per giunta povero e incurvato
viene sfottuto se dice siamo figli della stessa madre
e avantieri ha rubato un cavolo verza nell’alimentari
ha riportato la verdura nella tana del suo amante
lentamente hanno consumato la refurtiva bollita
dopo hanno porto l’un l’altro la fiala con sacralità
vicendevoli succhiotti e leccate hanno preso il via
quando vi è amore non contano nemmeno gli orifizi
e avvolto nel tepore scruta il velo fioco dell’aurora
spostando attentamente un angolo del piumino
ammira l’amato dormire con la bocca aperta
il giorno che verrà si introduce col vento che spiffera
dalla calligrafia scomposta sorgono parole dolci
l’ardore e la tenerezza dell’universo intero
dentro il foglio quadrettato di un bloc notes
voi scolpite una statua che ne immortali i ciuffi nodosi
la corporatura mingherlina, gli occhi, la piega struggente
e in ciascun polmone incamerate l’aria che verrà.
Anticipazione n.5
Il mister di una squadra di serie D tiene serrata tra le labbra la sigaretta e inveisce contro i calciatori più pigri. Il gruppo è numeroso e composto da uomini delle più svariate etnie. Nasce una zuffa di polvere e pallonate alla rinfusa. Qua e là nel campo di terra battuta dei roghi emanano un fumo color pece. I lampi del cielo rischiarano a intermittenza i visi di alcuni dei giocatori rimasti a rincorrersi, a sgambettarsi. Solo uno si ostina a dribblare con movimenti subitanei ed eleganti delle gambe smilze. Molti altri sono già stravaccati a bordo campo, non si capisce se tutti ancora vivi.
*
Dalla Prefazione di Davide Castiglione:
«“Ti auguro di non tramortire il vigore, di stare all’erta: / dalla mestizia ricava una musica robusta”. In questi due versi, tratti dal poemetto conclusivo Materia per aperture alari, c’è già in miniatura buona parte di questo Concerto per l’inizio del secolo: un’opera di slancio emancipatorio, pietas per il vivente e sicura perizia artigianale che, a lettura ultimata, si rivela all’altezza di un titolo senz’altro impegnativo. Che il destinatario di questi versi sia il figlio di Minardi, Minardi stesso o il lettore, quella che viene articolata è in effetti una “musica robusta”; una musica che si lascia alle spalle la circospezione novecentesca, dall’abbassamento ironico-dimesso del “quartetto di cannucce” di Montale (La mia musa) alla musica delle “tende che sbattono sui pali” del prigioniero Sereni (Non sa più nulla, è alto sulle ali). Vincendo dentro sé anche il proprio tradizionale riserbo e senso della misura, Minardi si emancipa – senza abdicarvi – anche dal suo stesso, allenatissimo orecchio per il decoro quotidiano che già si è avuto modo di apprezzare nelle due raccolte precedenti: Il bello del presente, del 2014, e La città che c’entra, del 2015 (la cui sezione finale, Prima di essere padre, anticipava già per temi e toni alcuni dei modi di questo Con-certo). Non che le scene intime, in minore, si siano dissolte: basterebbe leggere Frammenti dell’operaio o Cronaca differente per ritrovarle intatte. E tuttavia anch’esse riverberano di accenti comunitari, epici, sopra le righe. Per esempio, in Cronaca differente l’antefatto prosastico di bruta datità (“avantieri ha rubato un cavolo verza all’alimentari”) viene trasceso in rituale (“hanno porto l’un l’altro la fiala con sacralità”), e il rituale a sua volta trasceso in memoria collettiva per i posteri (“voi scolpite una statua che ne immortali i ciuffi nodosi”), senza dover ricorrere all’escamotage di stemperare l’innalzamento con l’ironia. Soprattutto in alcuni punti chiave del libro, come incipit ed explicit, Minardi accetta il rischio del sovrattono retorico assumendo toni quasi millenaristici, gonfiando la voce sotto il peso del risentimento per il mondo odierno, per suoi meccanismi di potere e status quo radicati: “le ere non sarebbero dovute trascorrere / per giungere allo scambio vicendevole di elettrodomestici” (Tema della fine).
Non si assiste mai tuttavia a un atteggiamento di sconsolata accettazione: come nei versi citati in apertura di prefazione, alla “mestizia” si reagisce, al male perpetrato dagli uomini ci si ribella con contro-narrazioni, sacche più o meno tangibili di resistenza […]»
Roberto Minardi, Concerto per l’inizio del secolo, Arcipelago Itaca, 2020.