Le forme dell’amore
di Matteo Quaglia
Mamma diceva sempre che non esiste solitudine, per chi non apprezza la compagnia. Secondo lei, per soffrire davvero, era necessario conoscere le alternative.
Papà era un tipo più pragmatico. Un campione dell’evoluzionismo darwiniano. Non solo perché ha modificato la propria caratura umana in modo direttamente proporzionale al lievitare della sua influenza nell’Apparato, ma anche perché è venuto a patti con lo stravolgimento di una vita, pianificata, fino a quel momento, al minimo dettaglio. Questo non significa che sia stato un cattivo padre. Non uno di quelli a cui si chiede di leggerti la storia della buonanotte. Non uno di quelli che ti accompagnano al corso di danza, o al cinema. Il suo pragmatismo lo ha guidato lungo le nostre vite con l’ostinazione del sordo. Ha chiuso gli occhi ed è andato avanti per la sua strada.
L’ultimo ricordo che ho, di lui in vita, è di questa mattina. Un uomo con la cornetta in mano e le gambe di burro. Quando hanno telefonato per dirci che mamma era morta, la faccia di papà ha assunto l’espressione di certi quadri di Courbet. Non ha versato una lacrima e non ha detto una parola. Si è chiuso nel suo studio e da quel momento, per lui, ho smesso di esistere.
Sebbene fossimo preparati alla notizia, la scomparsa di qualcuno che ami è sempre un pugno su per il culo.
Papà si è impiccato senza lasciare nemmeno una lettera, o un’altra forma di addio. L’ennesima dimostrazione dell’economicità di un certo funzionalismo.
Quando ho bussato e non ho ricevuto risposta, ho inspirato e ho chiuso gli occhi. Ho aperto la porta del suo studio ed era lì, appeso, con una specie di ghigno che ricordava un sorriso. L’ho tirato giù e l’ho adagiato sul tappeto. Mio padre era un uomo compatto, ma non avrei mai detto che pesasse così tanto. Era così compatto che, se mi ha voluto bene, è solo perché amava mamma. Il suo sentimento, nei miei confronti, una forma di rispetto per la donna che amava così tanto.
Così, in un colpo solo, ho perso mamma e papà. Ho sempre creduto che questo genere di coincidenze capitassero solo nei b movies, o in seguito a qualche cataclisma. La verità è che la vita sa essere più grottesca di ogni finzione o evento naturale. La verità è che papà non mi ha mai voluto e, dopo la pensione, mamma era il suo unico motivo di vita. Quando ti dicono che si può imparare a voler bene alle persone, be’, è una grande cazzata. Imparare non è da tutti. Voler bene non è da tutti. Dicono che si possa imparare dai propri sbagli, ma non è sempre vero. Ho capito che mio padre si era sempre adattato a tutto, perché non era in grado di adeguarsi a niente.
Dopo aver tirato giù papà e avergli dato quel minimo di compostezza cui aveva sempre aspirato in vita, ho chiamato il portavoce dell’Apparato per dargli la notizia. Gli ho detto che papà era morto d’infarto. Gli ho detto che avrei utilizzato la Macchina, quel giorno stesso, perché avevo una cosa da fare. Il portavoce dell’Apparato ha risposto indicandomi un indirizzo e un’ora precisa. Ha detto che mi avrebbero aspettato lì, con la Macchina e le condoglianze.
Mamma mi raccontava sempre che, quando ha scoperto di essere in attesa, ha trascorso un pomeriggio pensando al nome da darmi. Papà non le è stato molto d’aiuto. Più per questione di volontà, che per mancanza di immaginazione. Se avesse conosciuto le conseguenze che il parto avrebbe avuto sulla salute di mamma, papà l’avrebbe costretta ad abortire. Non voglio dire che, così facendo, avrebbe risolto due problemi in uno, ma insomma.
Il punto è che papà amava mamma e ha accettato la sua volontà di diventare madre e di consacrare quell’errore in una forma di amore. Ha accettato la mia nascita come un moscerino che ti si infila nell’occhio.
Mamma mi ha più volte detto che non sono stata proprio il frutto di uno sbaglio, perché non è mai proprio così. Ha ripetuto che, se anche sono stata uno sbaglio, sono lo sbaglio che l’ha resa più felice. Il nome che mamma ha deciso di darmi, quando sono nata, è Mia.
Ho raggiunto l’indirizzo all’ora indicata e ho trovato gli uomini dell’Apparato ad attendermi, i volti scuri di chi si sforza di dimostrare dolore e comprensione. Ci sono state strette di mano e parole di circostanza. Mi hanno chiesto se sapessi come utilizzare la Macchina. Ho detto di sì. Mi hanno detto che non ci sarebbe stato bisogno di riportare la Macchina indietro, perché la Macchina è sempre ovunque.
Così sono arrivata in quell’altro indirizzo preciso, a quell’ora precisa di diciannove anni fa. Mamma mi ha raccontato che lei e papà si sono conosciuti un pomeriggio piovoso, in un vecchio caffè. A mamma era caduto il libro che stava leggendo all’epoca, papà l’aveva raccolto e da lì era nato tutto quanto. Da lì ero nata io.
Vedo mamma. È giovane, una ragazza con la spensieratezza di chi ama le giornate di maggio. Il libro sotto il braccio. Mi hanno sempre detto che sono mia madre da giovane, ora ne ho la prova. Forse è questo il motivo per cui, papà, non ha mai utilizzato la Macchina per cambiare il corso degli eventi. Per cancellarmi dalla storia. Forse, questa è la stata la sua personalissima forma di amore.
Ora è il mio turno per fare ciò che va fatto.
Si dice che si impara dai propri sbagli, ma a volte anche gli sbagli imparano. Ed è per questo che siamo tutti e tre dentro il caffè e fuori pioviggina e siamo tre sconosciuti dal destino intrecciato. Da giovane, papà sembra meno duro, meno intagliato nel legno. Forse, è diventato ciò che è diventato in seguito alla mia nascita. A vederlo, ora, pare impossibile che tra diciannove anni si appenderà per il collo.
Mi avvicino a mamma. Lei non mi nota. È appoggiata al banco del bar. È bellissima. Papà è poco distante. Anche papà si avvicina, per ordinare da bere. Mamma si volta verso di me e il libro le scivola da sotto il braccio e cade al suolo, sollevando un piccolo sbuffo di polvere. Mi chino e raccolgo il libro. Lo porgo a mamma, che mi sorride. Papà nota la scena e mi sorride. Poi abbassa gli occhi sul giornale che sta leggendo.
Mi guardo le mani. Sto iniziando a scomparire, come Marty McFly in Ritorno al Futuro. Certe volte la vita è davvero come un film, a quanto pare.
Ho la testa ovattata, tanto che posso sentire i battiti del mio cuore farsi sempre più leggeri, mentre un raggio di sole bianchissimo attraversa i vetri impolverati del bar e mi bagna di luce. Mentre scompaio per sempre, nel pomeriggio, ripenso a quella frase di mamma, secondo cui, per soffrire davvero, è necessario conoscere le alternative. Mi chiedo se papà soffrirà. O se, senza di me, la sua vita sarà più felice. Mamma non mi avrà, ma mi ha già avuta, in un’altra vita. E vissero tutti felici e contenti, in un modo o nell’altro, senza di me e con me.
I miei occhi incrociano di nuovo quelli di mamma e le labbra di mamma si aprono e mamma sembra sapere chi sono e mi dice qualcosa, che non riesco a capire, e in un attimo sono solo un ricordo, un’altra forma dell’amore, e scompaio con uno sbuffo negli angoli più reconditi della vita futura di mamma e papà.