La colla dei suicidi

di Walter Nardon

 

Erano le sei meno un quarto. Se avessero saputo resistere all’abbagliante richiamo cinematografico pomeridiano e alla sua indulgente penombra avrebbero avuto un paio d’ore per mettere a posto gli articoli sul loro profilo, ma dato che l’invincibile attrattiva di Firebuster 3 con le sue traiettorie spaziali aveva avuto la meglio ora, attraversando l’arteria principale sulla via di casa, per quanto appagati, dovevano proprio darsi da fare.

«Abbiamo solo un paio di controller da aggiungere alla lista, ho già fatto le foto: non ci vorrà molto» disse Enrico, felice di aver investito il pomeriggio in quel modo.

«È che io dovrei anche un po’ studiare», fece Alessandra.

«Vedrai, sarà questione di poco».

Il commercio on line dell’usato, che a volte per contattare clienti del quartiere e per le consegne coinvolgeva anche il prode Frankie, aveva cominciato a dare qualche frutto col quale pensavano di pagarsi un week end al mare.

«Comunque», disse Enrico, «Il terzo è meglio del secondo; lo metterei al livello del primo».

«Sì, mi è piaciuto. È venuto fuori anche l’aspetto religioso».

«È vero. Pensa al modo in cui il popolo riesce a sopportare la carestia del grano», disse Enrico.

«Capiscono di non essere soli», aggiunse Alessandra.

Passarono sotto il nuovo edificio della Fondazione Galli, che con la sua cuspide asimmetrica somigliava al disegno infantile di una casa riuscito male.

«Dobbiamo proprio sbrigarci», riprese Alessandra.

«Per le foto, finiamo in un attimo; poi restano da caricare il joystick e la vecchia console intera con alcuni giochi, una cosa per collezionisti, più che altro» fece Enrico, «ma preparo tutto io, questi li carichiamo domani».

Alessandra abitava in una casa a schiera, l’ultima della fila in Via Fratelli Cervi. Si trattava di una serie di edifici di metà anni Settanta ristrutturati nei Duemila. Vi si era trasferita con i suoi due anni prima. Enrico lasciava tutti gli articoli elettronici da Alessandra perché erano più al sicuro rispetto a quanto non fossero a casa sua, o all’agenzia di sua madre, dove aveva corso più volte il rischio di trovarli infilati insieme ai toner nel sacco dei rifiuti speciali. Dato che la madre di Alessandra sarebbe rientrata dal lavoro poco dopo le sei e mezza, era però indispensabile riuscire a finire il lavoro al computer in tempo, perché non avrebbe ammesso di trovarli ancora impegnati in quella che a lei, nonostante tutte le loro rassicurazioni, sembrava una faccenda che prima o poi li avrebbe infilati qualche casino. In più, Alessandra doveva studiare.

Sua madre non riusciva a capacitarsi del fatto che un’offerta quasi costante di apparecchi e giochi elettronici da parte di un singolo privato non nascondesse – più che la volontà di disfarsi di materiale inutile – una piccola ma fiscalmente non irrilevante attività commerciale. Così riteneva che prima o poi anche la piattaforma di cui si servivano sarebbe andata incontro a qualche grana, per questo li aveva avvertiti più volte di lasciare perdere. A tali considerazioni loro avevano opposto l’argomento dell’«ultima volta» che, per quanto non ammettesse repliche, avevano ripresentato in due ulteriori occasioni. Quindi, pensava Enrico, meglio non esagerare. L’ordine sereno della casa di Alessandra, il profumo di legno e cera continuavano a suggerirgli una possibilità alternativa rispetto a quella di sua madre, un equilibrio che lo toccava profondamente non perché rispondesse a un suo desiderio, ma perché lo considerava un buon punto di partenza, posto almeno duecento metri avanti al suo.

Alessandra aprì la porta al piano rialzato e in breve furono in camera, davanti al computer. Enrico si era già spedito le foto. Il pezzo migliore era appunto la vecchia console del suo vicino di casa Sandro, un modello che avrebbe potuto interessare solo qualche collezionista ma che, essendo arrivato miracolosamente gratis (Sandro non aveva neppure pensato di conservarla per i figli impegnati alla scuola materna), poteva generare un profitto quasi insperato.

«Scusa, ma questa quanto dovremmo tenerla esposta?» fece Alessandra, sollevando un’ombra di dubbio sul presunto trionfo commerciale dell’articolo.

Enrico finse di non cogliere l’ironia, mentre aggiornava il profilo utente di sua madre (nonostante avesse superato da poco la maggiore età, aveva preferito non creare un altro profilo): «Questa? In una settimana sarà già venduta. Non capisco proprio come ti possano venire in mente certe idee».

«Beh, i film di fantascienza vanno bene, ma qui mi sembra che chiediamo un po’ troppo».

Enrico la strinse forte: «Quanto sei stronza».

Lei rise: «Lasciami in pace, che fra poco devo mettermi a studiare Fisica».

«Ecco, magari nel compito potresti proporre alcune delle soluzioni di Firebuster, come le lampade all’ozono».

Caricarono un altro pezzo.

Poi il cellulare di Alessandra squillò. Era un messaggio. Caterina le diceva che aveva una brutta notizia da darle.

In un secondo messaggio la informava che avevano trovato Sergio, il cugino di Federica, impiccato in soffitta.

«Oh Mio Dio».

Alessandra passò il cellulare a Enrico.

Lo conosceva. Aveva solo tre anni più di lui. Dopo aver concluso le scuole professionali, Sergio aveva trovato un impiego come falegname in una ditta di serramenti. Enrico ci aveva giocato a calcio più volte. Mentre leggeva i messaggi, gli tornò in mente un’opinione che si era portato dietro troppo a lungo e che ora era stata definitivamente smentita. Orfano di padre, Sergio aveva smesso di giocare a calcio, almeno in forma ufficiale, vale a dire con la squadra. Un giorno, mentre lo osservava tornare a casa in moto, si era trovato a pensare che la pressoché impossibile solitudine pavesiana, quella che basta a sé stessi – che per lui era solo occasione di disagio – potesse davvero incarnarsi nella vita di qualcuno; aveva seguito con ammirazione quella che appariva come una solidità interiore quasi inattaccabile, espressa con parole misurate e che invece ora, in fin dei conti, si rivelava una pena non diversa da quella che aveva provato anche lui.

«Cosa possiamo fare?» fece Alessandra, «chiamo subito Caterina, non me la sento di telefonare a Federica».

Si alzò e fece due passi in corridoio col telefono in mano, mentre Enrico caricava le foto.

Sistemando la didascalia del controller, cercava di capire le ragioni per cui si era abituato a pensare che Sergio potesse vivere bene da solo con la madre. Forse l’incapacità di capirlo fino in fondo era nata dalla sua scarsa attenzione, dalle risorse limitate che gli restavano tolte quelle necessarie per tirare avanti, che giorno dopo giorno non riusciva più a quantificare. Ma al di là di questo, isolando le sue considerazioni per concentrarsi sulla vicenda si trovava di fronte a qualcosa di incomprensibile, un inferno che Sergio non era stato in grado di attraversare, un inferno muto, per così dire. Qualcosa di cui Enrico sapeva che non sarebbe riuscito a venire a capo.

Alessandra tornò in lacrime: «Caterina non riesce neanche a parlare. Federica le ha detto che in questi mesi sembrava andasse tutto bene. Non si era mai lamentato, non aveva mai dato segni di difficoltà. Anche sul lavoro andava tutto bene. Nessuno pensava che non ce la facesse più».

Si abbracciarono.

«Ha lasciato qualcosa?» chiese Enrico.

«No, per ora non hanno trovato niente».

Lei si soffiò il naso e continuò: «Ecco, davanti a cose come queste mi dico che non può essere tutto qui, che non possiamo essere così soli». Si asciugò gli occhi, «Mando subito un messaggio a Federica» e uscì di nuovo.

Chi poteva dire se il suo equilibrio fosse solo apparente, se nascondesse un’insidia interiore? Enrico si era alzato e guardava dalla finestra. Certo, parlava poco. Forse cercava semplicemente di affrontare le delusioni con i mezzi che aveva quando a un tratto, per ragioni sconosciute, si era trovato davanti una forza che l’aveva tirato verso il basso e lo aveva schiacciato.

«Cosa facciamo adesso?» chiese Alessandra, «diciamo sempre che se l’avessimo saputo prima forse non sarebbe successo ma forse lo diciamo solo per noi».

«Non lo so» disse Enrico, «con lui davvero non era facile saperlo». Non era il momento di discutere.

Alessandra si sedette, con le mani fra le ginocchia.

Rimase un momento in silenzio, mentre Enrico le si sedeva accanto.

«Sai,» disse lei, «in questi casi io non riesco a fare niente se non a pregare, ad affidare a Qualcun Altro ciò che non capisco, non perché non cerchi di capirlo, o non voglia capirlo, ma perché, per quanto vada avanti, la risposta che trovo è come una tazza senza manico: non riesco a tenerla in mano».

In quel momento si sentì qualcuno aprire all’ingresso. Era Roberta, la madre di Alessandra. La porta della camera non era neanche accostata. Dal modo in cui pose misuratamente le chiavi dell’auto sul piatto di porcellana e si tolse il giubbotto di pelle che indossava sopra la camicia bianca capirono che sembrava aver già chiara la situazione. Lo sapeva, infatti, le avevano mandato un messaggio.

Non cercò neanche di dividerli, di riportare Alessandra allo studio, ma passando davanti a loro ebbe uno sguardo di straordinaria comprensione: «Tutto bene?» chiese.

«Sì, sì» rispose Alessandra.

Enrico guardava a terra. Quando Roberta uscì riprese fiato:

«Devo dirti una cosa. Non perché è un momento particolare, ma proprio perché c’entra con quello che è successo. Quando ero bambino, lì dove sono cresciuto, tenuto conto della mia famiglia e di quelli che più o meno conoscevamo, casi come questi ne sono successi altri cinque, anzi sono anche di più, se conto anche quelli che ci hanno provato e sono stati salvati in tempo. Quando andavo alle elementari, a volte mi sono trovato davanti a scene come quelle che si staranno svolgendo a casa di Sergio. Mi ricordo ancora la sorella di un tizio morto ferma contro il muro. Un’altra volta ero sceso dalla bici fuori della rete del vecchio campo sportivo per seguire il decollo dell’elicottero che trasportava un’anziana che avevano ripescato dal torrente e che poi avrebbero salvato, anche se non sarebbe più ritornata quella di prima. Sarò andato in terza, forse in quarta elementare. Uno di quei giorni mi dissi che avrei dovuto dare un mio contributo. Così scesi nel garage di mio padre con un barattolo di plastica e gli rubai un po’ di colla per il legno, che lui teneva da parte. Verso sera, andai in bici nella vecchia strada dietro il cimitero, quella che non prendeva mai nessuno e che poi con la ristrutturazione del parco è scomparsa. Arrivai in prossimità del mucchio di rami di cipresso e fiori guasti che le signore che tenevano pulito il cimitero buttavano proprio in un punto di quella strada. Con le mani scavai nel mucchio per arrivare a terra, vicino al muro, poi tirai fuori dalla tasca una sottile striscia di carta che incollai alla parete grazie al barattolo e al pennello che mi ero portato. Sulla striscia scrissi a penna il nome della persona morta e poi ricoprii il tutto con i rami e il resto. Finito il lavoro, rientrai a casa. Ogni volta che succedeva una cosa del genere la sera tornavo in quella strada e lo rifacevo con cura, anche se della striscia precedente era rimasto poco: ripulivo il muro dal muschio, ne incollavo un’altra a fianco e poi sotto. Era come un mio tentativo di dare loro una memoria in più. Tornavo a casa e nascondevo in garage il barattolo con la “colla dei suicidi”, quasi fossi in un film di avventura. L’ho fatto per tutte le cinque volte, finché non sono cominciati i lavori del parco».

Alessandra passò una mano fra i capelli di Enrico. Per lei quel gesto era più di un mazzo di fiori lasciato come ricordo.

«Se vuoi, questa sera ti ci porto».

«Ma quel posto non esiste più», disse Alessandra.

«Il posto no, ma nel parco ho ritrovato il punto esatto. Non è stato difficile, visto che il cimitero è stato allargato solo dall’altra parte».

«Va bene, spero di farcela. Ti mando un messaggio».

Enrico la baciò e prima di uscire salutò cortesemente Roberta, affacciandosi in cucina.

Fuori c’era ancora molta luce. Cominciavano ad arrivare in serie i messaggi dagli amici, ma Enrico rispose solo a Carlo e Serena, poi rimise in tasca il cellulare e si avviò verso casa.

Probabilmente era una questione di equilibrio. Quando vinceva una partita Sergio era contento di festeggiare con gli altri, sebbene la sua esultanza non fosse mai tanto pronunciata nemmeno quando segnava. Forse, per così dire, l’arco con cui sapeva accettare le cose era più stretto del comune, per cui le sue reazioni a una vittoria o una sconfitta erano più vicine fra loro di quanto non lo fossero per gli altri (per lui sicuramente, visto che tendeva a esagerare). Ma un arco così stretto non poteva essere un vantaggio perché offriva meno spazio per trovare un equilibrio precario – quello in cui vivevano tutti – spingendo anzi verso il centro, ossia verso un’indifferenza che non era tanto quella dei filosofi stoici dell’antichità, quanto unicamente quella dei sensi, come se Sergio non fosse più in grado di distinguere una parete illuminata da un secchio d’acqua tirato in faccia. Anche se fare queste ipotesi forse era irrispettoso, poteva essere quello il limite con cui non aveva saputo fare i conti, ciò che lo aveva spiazzato.

C’erano molte macchine in giro, ma il più della gente ormai era a tavola. Ci mise ancora un po’ ad arrivare a casa.

Sua madre era a cena con Erin, gli aveva lasciato il riso da scaldare. Mangiò col libro di scienze a fianco, aperto sulla teoria della tettonica a zolle. Diede un’occhiata a italiano e a Ovidio. Poi tornò alle scienze.

«Se vuoi che usciamo un momento, dobbiamo farlo subito. Altrimenti è un casino» gli scrisse Alessandra.

«Ok. Fra un quarto d’ora all’entrata ovest del parco».

Lavò il suo piatto e scese di nuovo in strada.

Col cielo non ancora scuro e le insegne accese, la sera era piacevole.

Camminando incontro ad Alessandra provava un conforto che non aveva precedenti concreti, ma non riusciva a smettere di pensare a Sergio. Era difficile credere che non sarebbe rimasto più nulla di lui se non un ricordo, che ciò che era stato – il passato e le sue sciocchezze, anzi soprattutto queste ultime – fossero diventati d’un tratto definitivi. Più duro ancora era pensare che tutto questo, con un grado di volontà difficile da intuire, fosse dipeso da lui.

Fuori l’edicola accanto a piazzale Mortimer, intento a prelevare laboriosamente un pacchetto di sigarette dal distributore automatico, si era accovacciato un suo vicino di casa, Lucio Brin. Era proprio sul marciapiede, a tre metri da lui. Non avrebbe mai potuto evitarlo.

«Guarda un po’ il nostro Enrico in splendida forma» disse, in un’espressione di giovialità non del tutto padroneggiata. «Cosa fai da queste parti? Ti pensavo lanciato negli studi». Era una di quelle persone che, in borghese, sembrano sempre indossare una tuta mentre al lavoro conservano un residuo di euforia da venerdì sera impegnativo: si muoveva fra le due dimensioni come un acrobata, con un senso della misura inaccessibile alla maggior parte delle persone.

«La scuola non è ancora finita» rispose Enrico.

«Ma io credevo che avessi già la mente rivolta ad altri lidi» fece l’altro, come fosse il risultato di una lunga riflessione.

In questi casi Enrico cercava di rimanere sulla risposta più rassicurante: «Eh, magari».

«Tua madre è sempre sportiva?»

«Sì, la vedo in forma».

Mentre Enrico camminava verso il parco con in tasca il messaggio di Alessandra, che era già uscita, non era facile capire dove fosse diretto Lucio. Per ora, nonostante l’espressione laconica di Enrico che continuava di proposito a tenere gli occhi sul cellulare, sembrava che lo accompagnasse. Lucio conviveva con Rosalba, una commessa del supermercato Elicona, non avevano figli. Era spesso assente per ragioni di lavoro, cosa che ai più sembrava normale, occupandosi di un import export in un settore non era del tutto chiaro (cancelli motorizzati, si diceva).

«Un appuntamento?» chiese Lucio, con tono insinuante.

«Beh, sì e no», rispose Enrico.

«Fai bene a non scoprirti. Non si sa mai come vanno a finire certe cose». Lucio si accese una sigaretta.

Sembrava quasi che avesse intenzione di pedinarlo per scoprire chi fosse la ragazza che doveva incontrare. Non che gli dispiacesse mostrarsi con Alessandra, lo faceva sempre; ma non era la serata giusta per la socializzazione e meno ancora per gli argomenti da bar nei quali temeva che tutto sarebbe poi precipitato, rendendo il quadro banale, si trattasse di lui e Alessandra o della storia di Sergio. Aveva bisogno di raccoglimento, doveva difendere ciò che provava. Lucio non doveva riuscire ad annacquare nella conversazione tutto ciò che gli stava passando in testa. Chissà? Forse per lui poteva essere un modo come un altro per riempire una serata (probabilmente Rosalba stava facendo il turno che finiva alle dieci).

«C’è una bella aria, si respira. Che dici?», riprese Lucio.

«Già».

«La sera esco sempre a fare due passi. Fumo una sigaretta in santa pace perché in casa Rosalba non me lo lascia fare, vedo quello che si muove in giro. Più che altro cerco di capire quel che succede. Mi fermo un po’ al bar. Si imparano sempre molte cose». Lucio aveva assunto l’aria dell’osservatore svagato, ma era pressoché impossibile crederlo privo di interessi particolari.

«Io invece devo rientrare presto».

«Beh», disse l’altro, quasi fermandosi sul marciapiede: «si capisce, se poi vuoi studiare».

Procedevano quasi affiancati, Enrico mezzo metro in avanti, nell’intenzione di affrettare il passo per toglierselo di torno.

«La porti in un locale?»

«No, non avrò tempo. Più che altro, la riaccompagnerò a casa». In effetti, la conversazione lo stava rallentando.

«Bravo, mi sei sempre sembrato uno dalle idee chiare. Devo dire che anche in questo campo in fondo noi ci comportiamo il più delle volte in modo trasparente: le donne, la vita insieme. A lungo andare, il calcolo della seduzione conta sempre meno. Siamo quello che siamo, inutile fare conti. Andiamo a finire tutti nello stesso modo».

«Scusa ma adesso devo proprio sbrigarmi» disse Enrico, cercando di mostrare più apertamente la sua fretta.

«Ma sì, certo. Hai poco tempo. Vai pure, vai» disse Lucio, senza salutare, restando qualche passo indietro a osservarlo. «E salutami tanto tua madre, grande donna sportiva».

Dato che aveva fatto di tutto per mostrare la sua fretta, si mise proprio a correre, cercando di entrare nella prima laterale disponibile per riprendere poi la direzione verso il parco, sopportando il peso del ridicolo che qui sentiva necessario.

Alessandra lo stava aspettando all’ingresso ovest con l’aria un po’ impaziente. Il parco chiudeva alle ventuno; c’era proprio da sbrigarsi. Entrarono dunque.

Enrico si sentiva meglio. La fragilità che Sergio aveva rivelato e che li turbava entrambi meritava un’attenzione privata, non sapeva ancora reggere l’urto del luogo comune. Anche se a lungo andare avrebbero fatto tutti la stessa fine, come diceva Lucio, non era affatto chiaro quale fosse: in quel momento cercavano di stringersi l’un l’altra, augurandosi che tutto passasse in fretta.

Quasi deserto, il parco sembrava bianco sotto le luci al led dei lampioni fotovoltaici, con i nuovi palazzi residenziali a delimitarne il perimetro. Incrociarono con lo sguardo un runner e, più vicina, una ragazza con uno spinone al guinzaglio. Presero a salire per il vialetto a destra, in direzione del cimitero.

«Ho sentito Federica», disse Alessandra, «le ha parlato anche mia madre. È stata brava a tenere duro, ma i suoi sono sconvolti. Dopo cena suo padre l’ha chiamata in soggiorno con Carlo, suo fratello. Voleva sapere se avessero bisogno di qualcosa. Non riusciva neanche a parlare».

Enrico fece un cenno di assenso: «Mia madre era fuori con Erin. Le ho mandato un messaggio, mi ha chiamato. Tutto a posto».

Arrivarono davanti alla rampa in cima alla quale, sempre a destra, sporge il muro di cinta del cimitero.

«Il posto è questo» disse Enrico, «la strada che c’era prima correva accanto al muro, te la ricordi?»

«Sì, da piccola la guardavo sempre con un po’ di paura».

«Le donne buttavano i fiori a marcire più o meno a questa altezza. Una volta a settimana poi passava il sagrestano con l’ape, caricava il mucchio e andava a rovesciarlo nei campi. Ora anche il muro non c’è più. Questo è interamente nuovo, glielo hanno costruito addosso. Hanno spianato il terreno circostante e ricavato questa strada che corre più in basso, credo per separare il parco in modo più netto dal cimitero. In pochi anni non è rimasto quasi niente».

«Credi che ci abbia pensato a lungo, o che sia stato un gesto improvviso?» chiese Alessandra.

«Non lo so» fece Enrico, guardando le grate sopra il muro di cinta, «Doveva star male già da prima, ma per me è stato un gesto improvviso».

Lei riprese subito: «Il muro è troppo alto per attaccarci qualcosa, non c’è un punto nascosto, almeno da questa parte».

«Lo so, e in più ci sono troppe telecamere».

Alessandra tirò fuori dalla tasca un pezzo di carta e lo diede a Enrico, che prese una penna dallo zaino e ci scrisse il nome di Sergio. Finito, lo piegò in quattro e poi ancora in quattro. Fingendo che gli fosse caduto a terra qualcosa, si accovacciò, sollevò una zolla d’erba e piantò il pezzo di carta nel terreno, ricoprendolo con cura.

 

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