Allegria alla fine del mondo. Quattro poesie di Andreia C. Faria
traduzione e cura di Serena Cacchioli
Andreia C. Faria è nata a Porto nel 1984. Nel 2008 ha pubblicato la sua prima raccolta di poesie, De haver relento (Cosmorama Edições), seguito da Flúor (Textura Edições, 2013), Um pouco acima do lugar onde melhor se escuta o coração (Edições Artefacto, 2015) e Tão Bela Como Qualquer Rapaz (Língua Morta, 2017), che ha ricevuto il Premio della Società Portoghese degli Autori nel 2017 come miglior libro di poesia. Nel 2019 ha vinto il premio Letterario della Fondazione Inês de Castro con il libro Alegria para o fim do mundo (Porto Editora, 2019). Propongo in traduzione quattro poesie tratte da quest’ultima antologia, Allegria alla fine del mondo, che riunisce una selezione di testi delle opere precedenti.
*
Se mi arrivano nuove di chi ancora sei
mi si sporcano le guance di fuliggine e rossore,
m’annerisce la tristezza e ulula, si rivolta
in petto la terra scura.
Sale in me un immenso fragore, se il tuo nome
ancora sento, uno sciame la testa,
i nodi delle dita blasone
d’idiomatica furia, malinconico insorgere
di maschera tribale.
Mia madre, che non ha mai saputo
chi fossi o ancora sei, vede nascermi negli occhi
cattiveria pura e senza pianto, paesaggio lacustre,
liquore spesso.
Come alcol d’alta gradazione, mia madre vede in me
cattiveria incontaminata se mi arrivano
notizie di chi sei, che ancora vivi, che passi
le paludi a guado
e al galoppo mandi saluti
all’imbranato demonio che mi assale.
*
NARCISI
Un alito venereo entrando in macchina, un’eccitazione funebre, e li vidi: caduti, caldi di sete, febbrili, le palpebre calpestate dal sole.
Avevi colto narcisi per me, ma li avevi dimenticati in macchina, e se ne stavano lì come figli unici, la carne tiepida, mansueta per il ripudio, avidi di profumo e di straniamento dalla terra.
Poteva essere mio il gesto: toccare il tuo volto, il taglio della tua gioventù. Ossa massicce ti facevano capolino spaurite sottopelle, la tesa architettura che serbavi come una cicatrice. Avrei potuto toccare il fiore inesperto della lama sulla tua guancia, berlo, acquifero su una mappa arida. Era un amore concepibile. Ma venuto da chissà che perfette solitudini, da un’educazione altezzosa in cui nemmeno l’acqua calda ci fece venire in mente che stavamo vivendo. Un amore di denti che non brillano, il sesso rappreso e spesso, ferito dalla polvere, suolo inadatto dove posare le radici urgenti.
*
SCARNIFICAZIONE
Fino a trent’anni hai
la faccia che ti ha dato Dio. Dopo
hai la faccia che ti meriti. È una promessa
d’ironia, una sentenza
senza ricorso.
Ti viene detto:
sei in balìa dell’intimo travaglio
di quel che mangi, del numero di ore che dormi,
di quello che fai e soprattutto
di quello che pensi. Dio
(perdonagli la debolezza)
ci tollera mentre siamo giovani,
ci protegge, ci accarezza
la fronte dopo un dolore, forse
ci ama, ma ci lascia
soli quando la bellezza
è terreno poco saldo
e assiste da lontano
alla temeraria sfida lanciata
a ogni figlio.
Sai allora che il volto è un fiore
piantato nel buio, una corolla
tenera, rotonda e impenetrabile
che si schiude e si apre
con petali lisci e brillanti, o
confusi e spettinati,
a seconda della forza
e la direzione del vento.
*
Con gli stivali sporchi e la pelle intatta
tornare a casa.
Con le suole maculate, appiccicose, i passi
che hanno ordito nel piscio un insistente miele.
Lo stivale è uno stelo
che allude alla purezza caduta
alla purezza versata
e fiorisce
attorno a bar e orinatoi, cavalcando un fianco
un solo cranio che fa il giro della notte
con il ferro spurio delle stelle.
Un piede nudo sulla ghiaia ferisce la vista.
L’inguine porta il sangue al proprio sostegno.
Qui un frutto
gocciolante dal cuore
dovrà ascendere alla carne.
Ma lo stivale è carne lavorata.
Che supplica la strada,
che delira.
Nel suo scricchiolare di pietra canta
il cuoio delle comete e affonda
ai piedi del letto.