Il cielo amaranto sopra San Francisco
di Sara Marinelli
9 settembre 2020
Se non sei a distanza ravvicinata dalle fiamme e non stai pensando a dove fuggire per salvarti la vita in queste giornate di fuoco che sta consumando la costa occidentale degli Stati Uniti, hai un’altra cosa a cui pensare: come tirare fuori da dentro tutto stesso la forza di convivere, o sopravvivere, con un’altra dura prova di esistenza sulla terra nell’anno della pandemia. Quando una mattina di settembre ti svegli alle 7:30 ed è come se fosse ancora notte, e la tua casa è avvolta in un buio pesto ancora molto lontano dall’annunciare il giorno. Quando una mattina di settembre la luce perversa che filtra dalle tende ti sembra invece giunta ad annunciare una fine.
L’hanno visto in tutto il mondo questo cielo amaranto. Le fotografie del 9 settembre a San Francisco, del suo skyline, dei suoi ponti, dei suoi grattacieli e palazzi ammantati di rosso e arancio, hanno fatto il giro del globo in tempo reale sui social, la stampa e i telegiornali. L’hanno paragonato al paesaggio futuristico di “Blade Runner”, hanno citato “Apocalypse Now”, “The Day After” e altro, insomma tutto l’immaginario surreale e distopico del cinema e della letteratura divenuto di colpo realtà. A me, DJ per passione in una stazione radiofonica della città, sono venute in mente tante canzoni da farci una playlist a tema, da “Si è spento il sole” a “Cupe vampe”, da “L’aridità dell’aria” a “Cieli neri”, e anche “Il cielo è sempre più blu”[1]— quest’ultima così, per sdrammatizzare. Un istinto di sopravvivenza dello spirito. Un bisogno di commentare a modo mio questa circostanza straordinaria che mi chiedo se diventerà — anche questa — la “nuova normalità”.
Le ho ammirate anch’io le centinaia di foto impressionanti e sensazionali, spaventose e affascinanti che girano in rete, materiale prezioso per ricevere cuoricini e faccine dalla bocca spalancata sui social. C’è chi avrebbe voluto essere qua per poterlo scrutare di persona questo cielo fenomenale, per poter dire di aver vissuto questa giornata memorabile da apocalisse e fine del mondo.
Io c’ero. Sono ancora qua. La frase che conta più di tutto di questi tempi. Quella che dici a te stessa quando la stai scampando un’altra volta, quando in realtà non sai bene dove poter stare perché non hai più molta scelta, perché il virus o il fuoco stanno scegliendo per te.
Io c’ero.
Questo è il mio diario di un giorno dal cielo amaranto sopra la città.
9 settembre 2020
Le 7:40, ma mi pare impossibile, è tutto buio, meglio continuare a dormire, meglio ancora non sapere. Perché svegliarsi se il mattino tarda ad arrivare?
Le 8:30, qualcosa non quadra, ancora tenebre. Svogliatamente lascio le lenzuola; i pochi metri dal letto alla finestra sono un breve viaggio alla scoperta del mistero di questa luce sinistra. Scosto la tenda e un brivido mi attraversa la schiena. Un drappo di cielo amaranto si stacca dai tetti delle case davanti a me. Silenzio inconsueto intorno, come se il quartiere avesse il fiato sospeso o semplicemente non sapesse più che dire, proprio come me. Richiudo la tenda, l’oscurità e la quiete intorno mi danno il permesso di tornarmene a letto; non so che fare. Dal letto guardo il buio gli con occhi sbarrati, in realtà non so a cosa sto pensando. A cosa pensa le mente quando è improvvisamente sotto shock?
Le 9:10, dò un calcio alle lenzuola, mi alzo convinta — qui bisogna capire che cazzo succede. Apro tutte le tende, le finestre: ancora tenebre. Odio accendere la luce al mattino, ma è ciò che dovrei fare se almeno voglio centrare il caffè nell’imbuto. Il caffè mi desterà da questo strano incanto. Ma no, è impossibile non restare imbambolati davanti alla finestra. Poi esco sulla scala antincendio e mi alzo in punta di piedi per vedere quanto più lembo di cielo possibile oltre gli alberi e le case. Ma dove è finito il sole? Non so per quanto tempo resto braccata nel mio stupore mentre l’amaranto degrada in un arancio forte e vivo, una specie di tramonto lentissimo, o meglio statico, paralizzato nel mezzo del suo viaggio. È uno di quei paesaggi in cui il solo atto del guardare non ti basta.
Mi infilo la camicia da notte nei jeans, prendo il telefono, la N95, ed esco di casa.
Le 11:15, fuori tutto cambia, uno sconvolgimento dei sensi. A ogni passo mi viene incontro una specie di mare solido senza orizzonte. L’arancione inonda le strade, le macchine, Dolores park e i suoi alberi, la sua collina, e la gente abbarbicata in cima. Ci salgo anch’io lassù, fermandomi sul punto più alto per vedere l’intero skyline della città. Noto subito che posso respirare aria non (ancora) tossica, e non mi sento in pericolo. Mi sento in sospeso; come in ipnosi, in attesa di qualcosa che si manifesti ancor più risolutamente o che invece svanisca del tutto. Guardo la gente intorno ferma anch’essa a guardare dal punto più alto, nessuno dice una parola. Il suono distinto e intermittente del “fog horn” della città — il corno che annuncia la nebbia fitta sulla baia — interrompe il silenzio. Ma questa non è nebbia, non è neanche fumo; è un’entità gassosa a me sconosciuta, dopo forse il dio internet me lo saprà spiegare. Ributtarsi in uno schermo per ora può aspettare, è uno di quei momenti in cui devi esserci fino in fondo. Eppure mi chiedo come proseguire la giornata, una giornata che invocherebbe al nulla, a premere il tasto pausa. Se “si è spento il sole”, allora per un giorno spengo tutto anch’io. Infatti non ho voglia di fare niente, anche se ho lezioni da preparare, del lavoro da finire entro domani.
Mi incammino su per le salite, percorro altre strade del mio quartiere, il rumore del poco traffico è smorzato come fosse sott’acqua; i lampioni sono tutti accesi, i fari delle macchine scintillano al passaggio, lasciando brevi scie luminose davanti a sé. Faccio tante foto, ma nessuna riesce a catturare il cielo, che non sta sopra le cose ma dentro.
La bellezza che s’infiltra adagio nel mio scoramento mi sembra sbagliata.
Le 13:30, torno a casa. Di nuovo tutto buio. Di nuovo, mi faccio forza per decidere cosa fare del giorno. Intanto accendo la luce, poi il computer. Quanti video e quante foto più stupefacenti delle mie, quanti occhi puntati su tutti i quartieri della città: Haight, Castro, SOMA e il downtown, il Golden Gate, e Ocean Beach. L’esperienza collettiva rende tutto più reale. Molti scatti mostrano tracce di cenere sulle automobili che io non ho notato. Apro la finestra, e adesso la vedo anch’io questa polvere grigia sottilissima sulle piante e sulla ringhiera.
A questo punto mi viene l’ansia. Consulto nervosamente tutti i siti memorizzati su internet e nella mia testa che mappano gli incendi boschivi e monitorano la qualità dell’aria. Uno si chiama addirittura “purple air — aria viola — ossia il colore che indica il livello più alto di inquinamento, l’indice di qualità dell’aria (AQI) tra 400 e 500. In pochi secondi, la mappa della costa occidentale, dalla California all’Oregon al Washington, si popola di una miriade di macchie purpuree, cremisi, rosse, che si animano proprio come fiamme al passaggio del cursore sullo schermo. Clicco su ogni fiammella; se vado giù con lo zoom riesco anche a distinguere le aree forestali simboleggiate da file di alberelli verdi che sembrano alberi di natale, e me le vedo davanti le distese di conifere, le sequoie, i parchi nazionali, la flora selvaggia, tutto di quanto più prezioso ci sia in questo pease. Ettari su ettari di boschi e foreste andati in fumo. Sento una fitta allo stomaco leggendo i nomi dei luoghi a me noti, le contee e i parchi nazionali che ho visitato: Mendocino, Yosemite, la Sierra National Forest — territori di sequoie maestose e fiumi verde smeraldo. Mi dirigo col mouse verso le cittadine dell’Oregon, a nord di Ashland: Salem, Eugene, fino alla periferia di Portland, e poi fin su allo Stato del Washington. Le fiammelle pulsano dappertutto.
Sento la stessa frenesia che si è impossessata di me agli inizi della pandemia: il monitoraggio ossessivo di mappe, numeri e dati, stavolta non relativi al Covid ma alla qualità dell’aria: moderate, unhealthy, very unhealthy, hazardous. Ricarico le pagine internet ogni mezz’ora con la speranza, come è stato per le cifre dei contagi, che i numeri si abbassino. Invece no, i valori si stanno alzando a vista d’occhio.
Anche quelli del mio stress.
Ci mancava anche questa; eppure lo sapevamo che quest’inferno sarebbe arrivato, lo sappiamo che il pianeta è una sfera rovente, lo sappiamo che l’ordigno è stato già innescato.
Quando mi sembrava di aver acquistato una routine di convivenza col virus — le mascherine, la distanza, il telelavoro — interrotta occasionalmente da sprazzi di vita sociale all’aperto, o da gite in quella natura che adesso sta bruciando; quando mi illudevo di abbandonarmi al mito italiano del ricominciare tutto a settembre, ecco un’ulteriore prova del fuoco (è il caso di dire) da superare; un altro fenomeno — naturale? — che ci toglie la libertà di respirare. “ll soffio del vento, che un tempo portava il polline al fiore, ora porta spavento, spavento e dolore” dice Brunori Sas in una sua canzone.[2]
Le 15:00, il cielo si tiene intatto, cristallizzato nel suo arancione. Dovrei lavorare, domani insegno tutto il giorno. Chiudo le tende per far finta che sia tutto normale, silenzio il telefono e le conversazioni e le battute sull’apocalisse e Blade Runner e che sembra di stare in un film. Trovo la mia stoica concentrazione quando so quanto tempo destinarle, quando so che dopo tornerò a farmi ipnotizzare dalle sfumature di colore, a caricare e ricaricare le mappe sui mie schermi, a tormentarmi sui numeri e su quello che accadrà. A chiedermi se questo stato d’eccezione durerà per sempre.
Le 17:30, no dai che non durerà per sempre. Adesso l’arancio è leggermente sbiadito agli orli, come un acquerello. Un sentore di movimento. Riprendo le conversazioni al telefono, i messaggini e i Whatsapp con gli amici qui che sanno e con quelli lontani che vorrebbero sapere e vedere coi loro occhi questo scenario da film. Con un amico commentiamo l’aspetto esilarante di quest’astrazione nel cielo, la vertigine di essere vicini al pericolo; mi sento quasi in colpa: è il privilegio di non essere in prossimità diretta con le fiamme a parlare, è l’adrenalina pura che mi gira nel sangue, che mi mette in circolo un’energia strana, come se in questo cielo mi ci volessi tuffare, afferrarlo tra le mani per poterlo interrogare. Sono al tempo stesso su di giri e giù di morale. Poi capisco che, nei mesi della pandemia, con le sue minacce e le sue incertezze, questa mia non è un’esaltazione spensierata, ma quella di chi se l’è scansata ancora una volta; quella di essere vivi in un altro giorno che ti ha presentato la sfida della sopravvivenza, e ti ha costretto nuovamente a tenere a bada le tue ansie, a rivalutare il tuo posto e il tuo ruolo sulla terra, a vedere oltre te stesso.
Le 19:30, l’intensità dell’arancione si è placata nel giallo. La bellezza che prima affiorava in quest’anomalia adesso è sparita, sostituita da una luce giallognola stupida e banale, ma che stranamente oppone resistenza all’arrivo della sera, della fine di un giorno difficile da dimenticare.
Riprendo a leggere le notizie, zoomare sulle mappe; a malapena mi ricordo di cenare. I fronti dei diversi fuochi avanzano dappertutto, si teme per le cittadine a nord di Los Angeles, per la periferia sud di Portland, per il mezzo milione di evacuati, per la pioggia che non cadrà, per questa stagione delle fiamme che potrebbe durare fino a dicembre.
Intanto si fa notte, e dovrei andare a dormire; ma l’adrenalina è ancora in circolo e mi tiene sveglia. Non sappiamo che colore sarà il cielo al risveglio domani; quanti incendi saranno stati domati, quanti continueranno a bruciare, quanta fuliggine coprirà le cose, quanta si addenserà nell’aria. L’AQI sul telefono dice 173, unhealthy. I geni delle previsioni annunciano che nei prossimi giorni, per un periodo non specificato, i valori raggiungeranno i 400.
Forse il cielo amaranto-arancione di oggi allora davvero era sublime; un’ultima sferzata di paurosa bellezza prima dei giorni stinti e polverosi che ci aspettano.
Frammenti di canzoni continuano a balenarmi nella testa, mi vengono in mente solo quelle che alludono alla fine: “e poco a poco ci dissolveremo…, al tramonto di tutto potremo capire”[3]; quelle che non so se passerò in radio, ma che adesso si conciliano col mio umore:
E il vento d’estate che viene dal mare
Intonerà un canto fra mille rovine
Fra le macerie delle città
Fra case e palazzi, che lento il tempo sgretolerà
Fra macchine e strade risorgerà il mondo nuovo
Ma noi non ci saremo, noi non ci saremo[4]
Le canzoni che avevano già previsto e immaginato il futuro, sì proprio come Blade Runner e altre distopie, ma senza effetti speciali e filtri cromatici; quelle che hanno cercato di dirci anzitempo, con dolcezza o poetica crudeltà, che su questa terra non ci siamo solamente noi, che non da tutte le fini si potrà ricominciare
.
[1] “Si è spento il sole” (nella versione di Vinicio Capossela); “Cupe vampe” (C.S.I.); “L’aridità dell’aria” (Cristina Donà); “Cieli neri” (Bluvertigo); “Il cielo è sempre più blu” (Rino Gaetano).
[2] Brunori Sas, “Al di là dell’amore”.
[3] Cosmo, “Le cose più rare”.
[4] Francesco Guccini, “Noi non ci saremo”.
NdR: la prima e la quarta fotografia sono di Federico Perazzi, le due centrali dell’autrice, Sara Marinelli