Immaginare la fine. Nota su Trilogia della catastrofe
di Francesca Matteoni
Come il libro di cui mi accingo a scrivere anche il titolo di questa recensione non è da interpretare alla lettera, ma da tenere a mente come una possibile linea guida. La Trilogia della catastrofe, libro inusuale voluto e pubblicato da effequ (i cui editori hanno una parte attiva nel testo, di cui firmano la premessa quale incipit programmatico), e scandito attorno alla catastrofe etimologicamente intesa quale rovesciamento di uno status quo, e suddiviso in tre movimenti: principio, durante, fine. Per parlare di catastrofe o immaginare la fine quindi editori e scrittori decidono in assoluta controtendenza di non affrontare direttamente il presente, le sue cause immediate e i probabili sviluppi, concentrandosi sulle varie crisi che interessano la nostra epoca (politica, economica, culturale e infine, punta dell’iceberg che molti si ostinano a non vedere, climatico-ambientale), ma allargando la prospettiva al nostro rapporto con la Storia o la sua invenzione, con la memoria e con la morte stessa. Così Emmanuela Carbé nel primo saggio, “L’inizio degli inizi” ci porta indietro in un singolare congresso di Vienna in cui si decide non solo, come si è sempre creduto, dell’assetto delle nazioni, ma ci si spinge nel tempo con l’istituzione di un “comitato per l’immaginazione e la rappresentazione del mondo”, determinandone quindi le opere dei filosofi e dei poeti trascorsi, le invenzioni, la preistoria quasi azzardando l’origine del tutto. Ovvero l’autrice ipotizza il 1814 come punto sorgivo della Storia occidentale, poiché se catastrofe è ribaltamento, allora può anche essere un crocevia in cui resta aperto l’interrogativo sulla realtà quale mescolanza di conoscenza, immaginazione e manipolazione, in cui nessun fatto è mai veramente se stesso. Carbé utilizza Calvino e la sua indiscutibile sentenza: “le fiabe sono vere”, per condurci dentro la rocambolesca conferenza viennese. Quanto sembra suggerire l’autrice è che la storia è una questione di credo, infine: si crede a chi la racconta meglio o a chi ha le capacità per raccontarla, finché con un gioco letterario qualcuno viene a scompigliare le carte, tiene i nomi e cambia il senso. In quale mondo abbiamo dunque deciso di vivere? A chi affideremo le nostre narrazioni? E, questione spinosa per ogni storico o letterato, chi parla per l’oppresso e fino a che punto è genuino? Carbé conclude con degli appunti che certifichino ancora il suo “essere umano”, “in vista del passato, o del presente, o del futuro”, ed è lì che si apre una via di fuga o d’entrata nel garbuglio delle storie. Una lista di cose amate – azioni, artisti, visioni, capaci di tenerci nel mondo oltre ogni tempo fittizio e fallace.
Lista che ci prepara per la seconda catastrofe, stavolta nella sua dimensione disastrosa, nel reportage narrativo di Jacopo La Forgia, “Costruire il risveglio” che si muove nella contemporaneità per documentare la strage, e il suo occultamento, di circa cinquecentomila comunisti in Indonesia nel 1965. Si tratta di un viaggio non in un passato da inventare, ma nella memoria negata, che si riaccende a incrinare gli effetti propagandistici di un certo potere. Gli incontri sono tutti tasselli di un trauma, perché tale è il risveglio, contro le bugie dentro cui i più giovani sono cresciuti, per paura, per difficoltà e vergogna nel confrontarsi. In tutta la narrazione, oltre al racconto di vittime e carnefici, aleggia infatti l’ambiguità su cosa sia giusto, cosa sia da salvaguardare, cosa da denunciare, se la morte dei cari sia il segno di colpe familiari contro la collettività o sia invece il grido contro l’ingiustizia. Tutte cose che sappiamo, certo, che crediamo di aver imparato, eppure La Forgia ben sottolinea che a volte bisogna andare là, ovunque sia questa lontananza, per avvicinarsi al semplice dubbio sulla giustizia e al nostro ruolo in lei. Ogni allontanamento alla ricerca di un vero scomodo può mutarsi in una riappropriazione delle proprie fratture e in un annullamento dei confini che rende l’altro umano familiare. “Uno dei motivi per cui ho fatto questo viaggio è perché parte della mia famiglia è stata uccisa durante la Shoah”, scrive verso la conclusione l’autore. “Ora mi sento a Jakarta, ma anche a Dachau”. Mi sembra che questo sia l’approccio più onesto alla realtà: trovare il punto in cui ci riguarda. In cui gli anticorpi contro il male che gli umani infliggono ad altri umani coincidono con la resa alla sua esistenza ineludibile.
Anticorpi, resa. Sono le due parole che traghettano nello scritto finale “Gestire la morte”, saggio divulgativo di Francesco D’Isa dove la catastrofe che si fa dramma e lutto. Come gli altri l’autore adotta la prima persona e lo fa mostrando l’inadeguatezza corale nel fronteggiare il guaio in cui ci siamo cacciati: il surriscaldamento globale, il destino tragico a cui abbiamo condannato molte specie viventi, noi inclusi. “Per evitare di accanirmi sulla pagliuzza nel tuo occhio dunque, lascia che ti dica com’è fastidiosa la trave nel mio”. Passando per le abitudini personali, la fondamentale questione del dolore animale non riducibile solo alle scelte alimentari, la rivoluzione tecnologica e le sue conseguenze e la cultura del consumo, D’Isa ci conduce verso il problema dietro e oltre l’incubo ambientale: il nostro rapporto con la morte e la sua mancata gestione. “Mangiare molta carne, valutare le situazioni quasi solo a breve termine, non mettere in dubbio i propri desideri, cercare soddisfazioni immediate, accumulare un potere eccessivo, non sono che degli esempi alla cui radice c’è un unico, stentoreo comandamento, declinato in mille comportamenti spesso contraddittori: evita – la – morte”.
Si tratta ancora di prossimità: per comprendere come curare il nostro unico pianeta, non serve a molto aprire un dialogo sui massimi sistemi, disegnando scenari perfino apocalittici, ma di una portata insostenibile per le vicende del singolo e delle comunità. Servirebbe invece concepire il nostro coinvolgimento in tutto questo: dopo la narrazione o lo smantellamento del passato più congeniale, dopo la fatica della memoria, occorre che si dica di nuovo io davanti all’essere mortale e che questo io sappia che è sua la morte che guarda, anche attraverso l’occhio di un altro essere. D’Isa non nomina la nostra natura fallimentare come autoassoluzione in attesa di un improbabile “manipolo di coraggiosi” che metta tutto a posto: al contrario ci chiama al cambiamento della nostra indole più antica, ma non innata. Perché questo avvenga bisogna recuperare la parola per dirci che stiamo sentendo male. Non l’albero, non il pollo d’allevamento, non un popolo remoto nella giungla, non la costa quasi sommersa di un qualche paese fantastico. Noi. Tutti.
e quando non potremo manco più dire “la punta dell’iceberg”?