Per non confondere realtà e pregiudizio: una riflessione sulle ripercussioni del populismo culturale
di Matteo Bianchi
A te che soltanto puoi capire:
È come quando gridi “scusa”
E lo ripeti
Da fondo campo
Per i colpi duri fuori di battuta.
F. Buffoni
Un paio di settimane fa, in largo su “Il Fatto Quotidiano”, Patrizia Valduga attaccava senza riserve il mancato riconoscimento degli intellettuali odierni e di conseguenza il decadimento del loro ruolo, quasi che il populismo culturale corrisponda all’inconsistenza di quello politico, quello delle boutade dei Salvini, Renzi e Di Maio di turno, che paiono più dei PR avveduti che degli amministratori pubblici. Dunque abbasso i parolai sgargianti e lunga vita ai dotti? Può darsi, ma è d’obbligo essere precisi nella dissertazione. Scorrendo l’articolo in questione il lettore potrebbe pensare “meglio tardi che mai” da parte di una poetessa avvezza a un situazione editoriale controversa, spesso soggetta a rapporti di forza e favoritismi coatti. Ma poi riaffiora l’annosa polemica circa la stanca dicotomia tra cultura “alta” e cultura “bassa”, o tra i dignitari del canone e il detestabile pop. Polemiche estive che aiutano i giornali ad andare in stampa e gli studenti distesi a tenere gli occhi aperti? Ci si domanda quanto valga insistere su una diatriba ormai calcificata, che non tiene conto di tante felici ibridazioni e degli studi consolidati da anni.
Avvalendosi di affermazioni altrui Valduga comincia la sequela di funesti “traghettatori” verso il mediocre con Umberto Eco: «Posso leggere la Bibbia, Omero o Dylan Dog per giorni e giorni senza annoiarmi». Non basta citare una provocazione di Eco – e nemmeno il lampo uscito dalla bocca di Volponi nel 1986: «Sono vent’anni che Eco bombarda la letteratura italiana» – a liquidare la svolta epocale rispetto alla consapevolezza culturale. Se Eco ha avuto una determinata funzione in qualità di studioso e di accademico, nei panni dello scrittore magari non avrà dimostrato una reale necessità ispiratrice o alla peggio sarà stato confinato al cosiddetto “romanzo di montaggio”, come sostenne con leggerezza Yourcenar, ma di sicuro Il nome della rosa (1980) e Il pendolo di Foucault (1988) sono ricette magistrali per imbastire una trama complessa e significativa. Al di là delle preferenze individuali, Eco aveva capito qualcosa di cruciale: che i confini tra generi sono in continua mutazione.
Non a caso, l’invettiva della Valduga si avvia proprio dalla Milano che l’ha accolta e adottata, nello specifico dai funerali di stato riservati ad Alda Merini e alla casa museo che porta il suo nome. Ai “versi non versi” della poetessa più popolare del secondo Novecento, che in libreria continua a vendere annualmente più di Montale, fanno coro «i Camilleri, i Morricone, i Gaber, i Bongiorno – commenta Valduga – si va in estasi per le caricature sordide di Sordi, per quelle patetiche di Verdone, per quelle imbarazzanti di Franca Valeri… Si pensi pure che siano grandi, magari lo sono anche, nel loro genere, ma ricordiamoci che il loro genere è piccolo». Ecco il nodo: di che cosa si discute? In primis, meglio non mescolare i generi, meglio non sovrapporli. Ma è sensato questo diktat? È presente alla realtà?
Torna alla mente L’odore di Gaber, che cantando in prima persona si rendeva conto quanto fossero lui e il suo status sociale a puzzare, non il resto del mondo: «Odore mio, odore mio… / Vuoi vedere che sono io!». Le righe torrenziali di Valduga fanno riflettere sull’attualità, sulla mancanza di punti di riferimento, sull’opportunità di prendere parola utilizzando la risonanza che si è guadagnata con il tempo nell’immaginario comune. Dall’autrice di Medicamenta (1989) e Requiem (2002) si vorrebbe assai di più di una semplice opinione. Valduga se la prende con una schiera di defunti che non possono difendersi e associa il successo alla gloria, quando quest’ultima ha sempre fatto i conti con l’eternità, mentre al successo, alla fama, spetta la moda, sorella della morte. Il rischio che corre è di precipitare a sua volta nel populismo e in un argomentare per luoghi comuni e frasi fatte, proprio quello che lei vorrebbe denunciare. D’altronde, le parole diventano responsabili nel momento in cui chi le sceglie è consapevole della loro funzione.
«Oggi non c’è antologia poetica curata da poeti e da cattedratici, che non contenga Mogol e De André accanto a Dante e Petrarca», rivendica. E subito ritorna alla mente Trent’anni di Novecento. Libri italiani di poesia e dintorni (1971-2000), edito da Book nel 2005, un volume emblematico di Alberto Bertoni che dimostra la complementarietà tra i due generi, accordi e discordanze tra ciò che si alza con la voce e ciò che necessita di note, comprendendo gli lp di Conte, De André, De Gregori, Fossati, Gaber, Guccini, Vecchioni e altri. Tuttavia Bertoni non è il solo a valutare le due realtà al pari di vasi comunicanti, così hanno fatto Gabriella Fenocchio, Marco Sonzogni, Stefano Carrai e Rolando Damiani. Inoltre autori poliedrici come Lello Voce testimoniano un bisogno connaturato di alternare fasi puramente fonetiche ad altre più melodiche.
Forse dalla sfuriata di Patrizia Valduga ha preso spunto Vittorio Sgarbi, che lo scorso 19 agosto ha firmato un lungo articolo su “Panorama” dal titolo Quando una canzone parla più di una poesia, in occasione della mostra al Castello di Santa Severa, curata da Giuseppe Garrera e Igor Patruno. Se i due curatori credono fermamente nelle risorse dei poeti e nel loro lascito valoriale, il critico d’arte enuncia che «la canzone sostituirà la poesia, sostanzialmente inaridita, costante espressione di un linguaggio consunto e indecifrabile». Il criterio è simile a quello della poetessa veneta, ossia fa gareggiare due generi frutto di esigenze sociali e periodi diversi. Il metro utilizzato sembrerebbe non tanto il disconoscimento della funzione della poesia e della sua potenza annunciatrice, quanto il gusto nel ripeterla e la fascinazione nel paragonarla al contesto di appartenenza. Al netto del timore per gli intellettualismi e le asprezze delle neo-avanguardie (ma esistono anche la musica atonale, la musica concreta, il free jazz, ecc.), perché mai testi quali Congedo del viaggiatore cerimonioso di Caproni, Paura prima e Paura seconda di Sereni o La rosa bianca di Bertolucci non sarebbero degni di essere memorizzati parimenti a quelli dei precursori Saba, Ungaretti, Quasimodo e Montale? Sicuramente né gli uni né gli altri componevano per cercare popolarità, ma per agire la propria poiesis.
Tra i vizi assurdi – per fare il verso a Pavese – dei populisti nostrani, oltre equiparare persone a personaggi e nascondersi dietro l’aggressività delle apparenze, persiste il considerarsi a ogni costo individui a sé stanti e non cellule di un organismo sociale figlio di un’epoca, del quale spesso lembi e variabili si scorgono a fatica. A questo proposito un monito di Cucchi centra il punto: «L’importante è non assecondare la confusione, e soprattutto non dirigere il pubblico verso le facilitazioni di linguaggi di elaborazione elementare, o di natura essenzialmente spettacolare».
«Canzone, cercala se puoi…» intonava Dalla nel 1996 con l’inchiostro di Samuele Bersani e omaggiando proprio Caproni, poiché la canzone nasceva per raggiungere più orecchie possibili tramite la radio, musicata per essere compresa dal bacino più ampio possibile e raccogliere applausi. La poesia del Novecento no, mai. L’evoluzione della poesia nei secoli, che dalla lettura partecipata a gran voce è passata al silenzio delle biblioteche, implica inevitabilmente un’uscita dai propri panni per poi tornare in sé con più consapevolezza, grazie a quella acquisita dall’altro/a, dal suo rovello interiore e dal suo patimento. In sostanza, qualunque verso che si possa definire tale sottintende una sana salita dantesca e Sgarbi dovrebbe sapere che interagire con un’opera deve costare un minimo di fatica. Il resto è (brutta) televisione.
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Al netto di alcune osservazioni effettivamente calzanti – le patenti di “grandezza”, ad esempio, hanno bisogno di una fase di decantazione che consenta il giusto confronto fra l’autore x e l’artista y e gli altri grandi esempi del suo campo – l’autrice dell’articolo sottovaluta sostanzialmente che, complice l’istruzione di massa e l’innalzamento del numero di laureati rispetto che so io all’inizio del Novecento, ci sono in giro molti più lettori e, fra questi, più lettori in grado di discernere il buono dal cattivo.
il concetto “di massa” abbia ricadute sociopolitiche. “Di massa” è il contrario di cultura “d’élite”, dunque una cultura di pubblico dominio: opere e libri non più confinate – e controllate – da gruppi aristocratici ben istruiti, ma disponibili per il grande pubblico, pronte a diventare veicolo di democrazia. E fra il grande pubblico, giocoforza per un mero calcolo delle probabilità, dovrà pur esserci qualche spettatore/lettore/fruitore dotato di buon gusto, capace di separare il grano dal loglio, la bellezza di un classico dalla paccottiglia banalizzante di qualche odierno.
Voglio dire: anche fra il grande pubblico ci sarà pure qualcuno in grado di distinguere, perlomeno, un Morricone da un Allevi, un Camilleri da una Ferrante. Nella collettività insomma non ci sono solamente «lettori da cesso» come ammoniva Cèline o quelli che «leggono per sospetto o per invidia» come indicava Flaiano nel suo “Frasario essenziale”: in questa pletora di utenti che fanno la fila ore e ore per un autografo di Vespa o di Elettra Lamborghini e che cercano la ribalta a X Factor, qualche povero cristo che voglia leggere Kafka o Dostoevskij o voglia suonare Vivaldi o Stravinskij per entusiasmo e interesse sinceri ci sarà pure, no?
E’ interessante questa analisi. Io penso che si possa addirittura prendere l’opposizione Valduga-Sgarbi come esemplare di un paradigma interamente interno all’attuale industria culturale. Valduga e Sgarbi ricalcano un copione che è già scritto e definito da tempo, e che non ha nessuna reale portata critica nei confronti delle pratiche culturali in epoca tardo-capitalista. Non ho letto il pezzo di Valduga, quindi mi baso sui passaggi citati da Matteo Bianchi. Innanzitutto Valduga è una poetessa Einaudi, e quindi sfrutta quello che una buona parte di buoni poeti e poetesse in Italia non puo’ sfruttare, ossia distribuzione e visibilità, il tutto ovviamente commisurato a un genere “marginale”. Quindi quel che un poeta puo’ ottenere dall’industria culturale, poco, Valduga l’ha ottenuto. Quanto a Sgarbi, egli si fa sostenitore di una cultura pop, avendo alle spalle una formazione accademica, e avendo esercitato, nel bene e nel male, il mestiere di critico d’arte, ed è grazie a questa “specialità”, questa competenza specifica, che nel bene e sopratutto nel male, ha ottenuto funzioni politiche e spazio mediatico, prima di diventare un semplice brand, per un pubblico indifferenziato. Queste precisazioni servono innanzitutto a comprendere che portata critica possono avere i discorsi dell’una o dell’altro. Sgarbi è un anti-casta? Ah, ah! Valduga è un innovatrice underground? No.
Un filosofo marxista, il tedesco Robert Kurz, ha in alcune sue opere ampiamente mostrato come questa finta opposizione tra “i pessimisti culturali” (o “catastrofisti culturali”) e i post-moderni pop, non riguarda minimamente la critica più tagliente e difficile che si puo’ fare all’odierna industria culturale, ossia la trasformazione di qualsiasi attività creativa in un prodotto di mercato, accessibile cioè alla forma merce nel modo più lineare possibile.
Insomma, di queste opposizioni fittizie, o come le chiamerebbe Giancarlo Majorino, di queste lotte secondarie, ce ne sono state e ce ne saranno ancora, molto simili, molto prevedibili.
Avevo letto l’articolo della Valduga a suo tempo e devo dire che sono d’accordo con Matteo Bianchi, tra l’altro sarei curioso di sapere in che contesto Volponi disse questa frase su Eco, visto che entrambi collaboravano ad Alfabeta con una linea piuttosto critica nei confronti della cultura italiana. Non si tratta qui nei nostri giorni poi di riprodurre la critica degli apocalittici, specie se, come ricordava Andrea per Valduga, sono seduti sul velluto, ma di favorire la circolazione di idee e di testi in un mondo talmente unidimensionale che perde anche di senso la differenza tra cultura alta e bassa.
Le argomentazioni dell’articolo di Matteo Bianchi mi trovano pienamente d’accordo. Ed anche i commenti che ho letto sono in linea con il mio pensiero. Non mi accingo quindi a ripetere con altre parole concetti già esplicitati.
Mi chiedo tuttavia perché alcune testate giornalistiche create – a loro dire – per andare lancia-in-resta contro l’incompetenza, la falsità e le manipolazioni dei ‘pennivendoli’ di vari colori, prestino il fianco a tali argomentazioni, fatte poi nel caso da chi ha avuto la strada tutta in discesa.
La Valduga cosa? La Valduga che rivendica il riconoscimento degli intellettuali (odierni ) su dove? Su quale quotidiano? Sul Fatto Quotidiano? Auspico sia una fakenew! Che se non lo fosse… eh… niente… fa già ridere/piangere così.
Lessi l’ articolo e lo ritenni personalmente, proprio per i suoi non contunuti all’ aria fritta, non degno di nota.
paola lovisolo