La questione meridionale, e quella neoliberista, a scuola
di Giorgio Mascitelli
Uno degli argomenti invocati dai riformatori neoliberisti della scuola per spiegare la necessità della riforma è che la scuola pubblica in Italia non funziona, in particolare nel Sud. L’ultimo a sostenere questa tesi è stato l’economista Giavazzi sul Corriere della sera lo scorso agosto, ma sarebbe facile citare l’opinione di tanti altri commentatori negli ultimi anni. Le prove citate per questa inefficienza delle scuole meridionali sono fondamentalmente due: gli scarsi risultati ottenuti dagli studenti del Sud nelle prove di verifica internazionali ( prove PISA) e nazionali ( prove INVALSI) e il fatto che agli esami di stato i voti al Sud sono più alti che al Nord. Si tratta di due argomenti pretestuosi che nascondono altre finalità. Nel caso dei voti di maturità basterà ricordare che la scuola italiana nel suo complesso è tra quelle più severe nell’uso dei voti e il fatto che in una regione si sia un po’ più larghi di un’altra non cambia questa situazione di fondo. E’ curioso pertanto che ammiratori di sistemi scolastici come quelli anglosassoni, in cui è molto più semplice raggiungere i voti più alti, rimproverino un presunto lassismo a una parte della scuola italiana che adotta comunque standard di valutazione abbastanza duri.
Esiste invece un’ampia letteratura che spiega come queste presunte prove di valutazione oggettiva di un sistema scolastico non sono adatte allo scopo che si prefiggono, ma anche prendendole per buone in questo contesto per non allontanarci troppo dal nostro argomento, non si può fare a meno di notare un paio di elementi sorprendenti. Infatti se prendiamo le prove PISA esse fanno emergere sia della differenze a favore delle scuole settentrionali rispetto a quelle meridionali, ma anche dei licei rispetto ai professionali e poi ancora delle scuole pubbliche sulle private. Curiosamente di queste differenze l’unica che ottiene l’attenzione dei nostri commentatori è la prima, quando in realtà quella veramente sorprendente, per i criteri internazionali, è la terza. Infatti un principio generale, da intendere non in senso deterministico ma tendenziale, è quello che il successo scolastico si lega a una situazione di maggiore benessere e integrazione sociale degli studenti, quindi in ogni paese del mondo le aree di maggiore disagio sociale hanno tendenzialmente, anche se non è un algoritmo, un tasso di insuccesso scolastico più elevato: nel Sud queste aree sono ben più numerose che nel Nord ed ecco spiegato molto se non tutto. A riprova di ciò direi che basterebbe raccogliere in ogni regione dati sui risultati delle scuole collocate nei centri dei capoluoghi e confrontarli con quelli dei sobborghi o dei quartieri più problematici, che ci sono ovunque, per ritrovare all’interno della stessa regione le differenze Nord/Sud. In pratica molti commentatori stanno cercando di territorializzare delle differenze sociali: sul senso e sulla pericolosità di questa operazione ritornerò più sotto.
Invece gli esami di stato ogni anno restituiscono un’immagine di una scuola abbastanza uniforme, per così dire unitaria da Lampedusa al Brennero, e infatti di solito coloro che considerano poco attendibili gli esami di stato sono coloro che attaccano la scuola del Sud, magari in nome della superiorità delle prove INVALSI come se la compilazione di quiz potesse realisticamente sostituire un esame articolato in più prove sulla base di un piano di studio basato su contenuti programmati. Naturalmente bisogna intendersi cosa vuol dire uniformità: se per uniformità s’intende un’esatta e quasi geometrica coincidenza di contenuti e capacità in tutti gli alunni, questa non solo non esiste tra varie regioni, ma neanche tra le scuole di una stessa città e tra le classi di uno stesso istituto ed è un bene che sia così perché l’unico modo per raggiungere un’uniformità geometrica sarebbe quello di rendere elementari i contenuti, penalizzando creatività, interessi e conoscenze specifiche di studenti e docenti. Una scuola viva è una scuola che trasmette saperi, capacità e consapevolezza critica tramite l’entusiasmo che per forza di cosa ha una natura multiforme. L’importante è che alla fine del ciclo ci sia una prova unitaria che funga da comun denominatore, non necessariamente minimo, ma che impedisca derive di tipo statunitense dove un diploma di scuola secondaria superiore non vuol dire assolutamente nulla quanto ad apprendimenti certificati.
Naturalmente il fine del discorso liberista sulla scuola meridionale non è quello di produrre maggiore uniformità, ma sembra avere tre obiettivi ben precisi. Il primo obiettivo è ideologico, ma proprio per questo assolutamente centrale, e mira a imporre la competitività come unica forma di relazione tra i soggetti nella scuola, competitività tra individui, tra scuole e tra aree territoriali. La società liberista tende a imporre una sorta di didattica permanente del liberismo e dell’individualismo e una scuola che fa della competizione il suo valore cardine è assolutamente necessaria. In secondo luogo questo discorso è funzionale alla regionalizzazione della scuola, obiettivo assolutamente necessario per subordinare la scuola al mercato, nel doppio senso di creare un mercato dell’istruzione in luogo della scuola pubblica e in quello di creare una scuola dipendente dalle richieste del mercato del lavoro, cieca alle esigenze di lungo periodo, ma flessibile a rispondere alle piccole necessità congiunturali, dirottando le risorse nelle regioni economicamente più forti. Per raggiungere questa finalità è fondamentale diffondere subliminalmente l’idea che si va male a scuola non perché ci siano problematiche sociali ma perché docenti e studenti sono fannulloni ( particolarmente i primi secondo questa rappresentazione ideologica) : da questo punto di vista l’economista consulente del ministero, il ricercatore delle fondazione Agnelli e il militante leghista medio dicono tutti la stessa cosa con linguaggi differenti. Infine il terzo obiettivo è attaccare l’esame di stato unitario accreditando l’idea, come visto sostanzialmente falsa, che l’esame in certe regioni sia poco rigoroso a differenza delle prove INVALSI. Al contrario per costruire una scuola di mercato è necessario accentuare e creare, laddove non ci sono, differenze e una situazione il più possibile disomogenea: l’esame di stato è uno degli ostacoli più importanti al conseguimento di questo risultato, proprio per la sua articolazione e complessità.Non è secondario notare che in un contesto del genere un buon profitto e altre virtù scolastiche tradizionali, nelle quali non eccellerebbero le scuole meridionali secondo i riformatori neoliberisti, non conteranno più perché sarà importante solo il brand della scuola costruito tramite le prove INVALSI, le classifiche di qualità redatte da enti privati come eduscopio della fondazione Agnelli e i rapporti di autovalutazione, già oggi disponibili sui siti delle scuole, che indicando il ‘livello’ della scuola indirizzano le scelte dell’utenza.
La storia del nostro paese, sempre in sospeso tra un’idiozia campanilistica, di cui si può ridere tramite le rappresentazioni kitsch che ne ha offerto il cinema popolare nazionale, e potenziali rischi di derive balcaniche, non appena la situazione politica ed economica peggiori, dovrebbe sconsigliare questi incauti riformatori a usare argomenti del genere, quand’anche non fossero menzogneri, ma essi sono peraltro funzionali a una riforma della scuola basata sulla liquidazione di ogni sapere critico nell’ambito della costruzione di quella che il sociologo canadese Alain Deneault ha chiamato la mediocrazia. Con questo termine egli intende quel processo che tende a emarginare i soggetti molto competenti a vantaggio di quelli mediamente competenti e più facilmente manovrabili.
L’idea di una scuola non unitaria e in perenne competizione a cui questo genere di argomenti fatalmente conduce è particolarmente pericolosa, se si pensa allo scenario che si sta aprendo. La costruzione dell’unione europea è virtualmente bloccata e, anche se area euro e UE sopravviveranno allo choc del covid, ci aspettano decenni in cui l’Italia continuerà a essere coinvolta come nazione in varie vicende internazionali. Intanto la crisi demografica e i flussi migratori ridisegnano una società in cui la tendenziale scomparsa dello stato sociale e un mercato del lavoro sempre più simile al far west, caratterizzato da una scarsa propensione agli investimenti del capitalismo privato italiano, faranno emergere una tendenza alla frammentazione dei rapporti e delle strutture sociali. La scuola è già e lo sarà sempre più il caposaldo essenziale di qualsiasi politica di integrazione, sociale e simbolica, volta a contrastare l’atomizzazione crescente. In questa prospettiva una scuola che riproduce al proprio interno l’atomizzazione sociale e territoriale che vuole combattere, perdipiù facendone un valore guida, sarebbe uno strumento nullo. La pretestuosa polemica antimeridionale non è un prodotto casuale dell’inconscio leghista di qualche bocconiano, ma una linea precisa di attacco alla scuola pubblica volta a realizzare una scuola basata sulla competizione. Quest’ultima non è una idea che nasce oggi, ma in un momento storico ben preciso ossia gli anni novanta del secolo scorso, nei quali vigeva la convinzione che la globalizzazione sarebbe stato un processo pacifico di progressivo arricchimento dei singoli guidato senza discussione dagli Stai Uniti e dai suoi alleati europei. Un progetto di scuola simile, proprio per essere avulso da quello che è il contesto storico e sociale presente, rappresenta un’oggettiva minaccia agli interessi del paese e della collettività, andando a minare uno dei pochi elementi di coesione sociale e culturale della nostra società.
Pezzo molto lucido e molto chiaro Giorgio. Una domanda e un’osservazione. Questa tenuta del sisteme scolastico italiano in termini di verifica delle competenze, in breve la certa severità nella notazione, da cosa dipende? A me sembra di averla notata empiricamente nel confronto tra le mie esperienze d’insegnamento in Francia e in Italia. Anche se mi chiedo se questa differenza esista ancora oggi.
L’osservazione. Nel tuo discorso, alla fine, emerge la necessità delle difesa della scuola pubblica quasi come ultimo bastione di aggregazione e integrazione di una società tendenzialmente esplosa o in ogni caso attraversata da forti ineguaglianze. Mi sembra, e qui guardo anche al caso della scuola pubblica francese, che uno dei problemi della scuola stia anche nel peso di queste tremende attese. In soldoni: si dice alla scuola di fare quello che complessi programmi politici dovrebbero fare, ossia ricucire fratture sociali che hanno ragioni economiche e non solo. La scuola , insomma, dovrebbe essere alla fine non solo organo del ministero dell’Istruzione, ma anche di quello delle Politiche territoriali, di quello del Lavoro e di quello dell’Economia.
Non è proprio questa eccessiva pressione, una delle regioni che dell’oggettiva difficoltà di far funzionare bene un’istituzione scolastica?
Sui voti rispetto alla scuola francese, non saprei risponderti perché non ho un riscontro preciso, a differenza di quelle dei paesi anglosassoni o della Germania, dove mi capita di analizzare pagelle di studenti rientranti dall’anno all’estero, in questo caso le motivazioni sono due, una negativa, sussiste ancora presso gli insegnanti italiani una renitenza a dare voti molto alti legata ad aspettative fuori luogo e a vecchie pratiche ( tradotto se i voti vanno fino a 10, non puoi dare 8 a uno che credi brillante) e una positiva, il fatto che in Italia si studiano ancora le materie seriamente e non ci sono corsi di patriottismo o di autopresentazione ( sono materie vere insegnate in alcune scuole degli Stati Uniti). Sull’altra questione che sollevi, ma che io tratto incidentalmente in questo articolo che è rivolto a un problema specifico come il trattamento assurdo della scuola del sud per far saltare l’esame di stato e la scuola unitaria in Italia, in generale nel discorso mediatico di tutti i paesi occidentali la scuola è diventato l’unico responsabile del successo lavorativo delle persone. Questo serve a nascondere dei fallimenti economici, il fatto che i posti qualificati sono pochi e a non cambiare altre cose ( avrai visto che a ogni crisi economica presto o tardi si arriva al punto che ci vogliono investimenti e riforme nella scuola, anche se il problema principale dell’occidente è che un sacco di soldi restano in banca perché non c’è nessuna possibilità di spenderli), in soldoni siccome in occidente non c’è più mobilità sociale fondamentalmente perché, come ha dimostrato Piketty, siamo una società che vive di rednita finanziaria, si dice che è colpa della scuola che funziona male. Quindi la pressione di cui tu parli esiste, ha esattamente il ruolo che tu dici, ma non è una pressione spontanea, è indotta dagli apparati di sistema per scaricare sulla scuola tensioni che nascono altrove.
[…] L’articolo è tratto dal blog Nazione Indiana, pubblicato qui. […]