Lampi, premonizioni, attriti: i versi visionari di Simonetta Giungi
di Piergiorgio Viti
Negli ultimi anni pubblico e critica hanno riportato in auge autori ingiustamente finiti nel dimenticatoio, o addirittura scoperto ex novo scrittori a lungo ignorati, pietre dello scandalo in quanto se stessi, cavalli sciolti, spesso, nel vischioso panorama letterario delle scuderie, dei sodalizi e dei potentati. Penso ai casi più noti, quelli più recenti, di Goliarda Sapienza, di Beppe Salvia, fino all’anarchico Giovanni Antonelli, solo per citarne alcuni. Verrebbe da domandarsi se questi tardivi fenomeni di recupero o di “epifania” non celino, in realtà, miopie editoriali, se davvero non esistano crepe, e quanto grandi, nella relazione tra scrittori e pubblico e fra i loro intermediari. Questioni antiche, certo, mai del tutto risolte, se è vero come è vero che di “casi” letterari ne escono fuori sempre di nuovi, casi a cui se ne potrebbe aggiungere un altro, ancora, se possibile, più luminoso e allo stesso tempo oscuro: luminoso perché il talento raggiunge vette elevatissime, oscuro perché la vita, culminata nel suicidio, di questa autrice, presenta aspetti insondabili, fughe improvvise, smarrimenti degni di una pellicola cinematografica.
Sto parlando di Simonetta Giungi. Nata nel 1945, di famiglia aristocratica, ha un’infanzia apparentemente felice e un’adolescenza tumultuosa tra Venezia e Ancona, culminata con la precoce morte della madre e l’ingombrante presenza di un padre autoritario. Dopo un periodo di internamento in una casa di cura, continua gli studi e si laurea in filologia bizantina. Successivamente ottiene una cattedra, ma, insoddisfatta, fugge a Parigi e Londra, dove collabora con diverse testate, dedicandosi anche alla pittura. Proprio a Londra, nel 1985, a soli quarant’anni, Simonetta Giungi si toglie la vita, undici anni dopo Anne Sexton, undici anni prima di Amelia Rosselli. Poco prima di lanciarsi nel vuoto, la poetessa lascia sulla scrivania un pastello che la ritrae di spalle, al balcone, di fronte a un sole molle, con la testa dipinta per metà. Questo disegno diventerà l’immagine di copertina del suo libro Finestre affascinate ardenti stanze, pubblicato per una minuscola casa editrice, Il gabbiano, la cui cura postuma sarà opera del fratello. La silloge è, a mio avviso, un capolavoro sepolto nell’oblio. Un capolavoro che non sfuggì, in verità, a Mario Luzi, che ne firmò la prefazione, individuando nelle poesie di Giungi un “tragitto espressivo in una eclisse psichica dietro l’appropriazione vivida delle cose”. In questa eclisse psichica il dettato è lacerato, franto da spezzature, lacunoso, con apparenti cadute di stile: è il codice scelto da Giungi per esprimere una vita di turbamenti, per venire a patti con quell’ombra che costantemente pervade il suo “abitare poeticamente la Terra”, anche quando il soggetto dei testi è Glauco, uomo misterioso che, tra motel, treni, volte a crociera, appare come un’epifania al termine della raccolta. Anconetana come Scataglini e legata a doppio filo, quello dell’amore-odio, alla sua città natale, tanto da citarla spesso, come nel titolo dell’unico romanzo pervenutoci, La casa sul colle Guasco, Giungi rappresenta un vero e proprio unicum: nel suo percorso poetico che è anche un attraversamento di coscienza, le parole emergono da un abisso, sono strappate al silenzio, sono “negativi del silenzio”, per dirla con Ritsos; per questo è auspicabile un attento recupero di una voce come la sua, fuori dai canoni, in bilico, visionaria, e, nel conformismo di tanta letteratura, più che mai necessaria.
sì ma c’entro io in tutto questo
ripeteva l’uomo capitato a caso
un giorno nella mia stanza deserta
ed io stessa svegliandomi la notte
mi trovo a dirmi questa stessa cosa
a tutto ciò che è disancorato
alla mia vita deserta
all’ex ipotesi sogno e situazione:
che c’entro io in tutto questo ormai
ma che io c’entri mi viene dimostrato
subitamente da un male che io provo:
mentre lo dico mi si straccia l’anima
ancora e ancora si straccia molte volte
è come un foglio ch’io gettassi via
forse è per questo che si è amati postumi
perché davvero ci si può entrare
a Napoli tu eri il torinese
a Torino eri mediterraneo
– più straniero nella tua città –
e mi piaceva come parodiavi
i motti schifiltosi di Torino
e sorridevi invece a ricordare
il fasto stracciato e melodioso
delle terre del sud
le puttane di Napoli e i falò
presso i quali si scaldano e si mostrano,
i funerali coi cavalli neri
al passo con le sonagliere
lenti nel sole per le vie deserte,
e il trionfo del mare, quelle feste
notturne a fior d’acqua,
un nome di ragazza: Sasà
e tuttavia, triste nei ritorni,
eri straniero tu nelle città
ma non al mare non al cielo e ai tetti
non ai monti né alle pianure
non ai paesaggi divorati in fuga:
di essi e di vampe di edifici
ti avevano affidato una tartaruga
gli amici andando via in vacanza
al Bois de Boulogne coglievi l’erba
per la tartaruga; al lavoro pensavi
a lei rimasta a casa:
non le facesse male
tutto quel sole in terrazza
“lo vedi” dicevi poi a dimostrazione
“solo una tartaruga
E non fai che pensarci!”
parlavano tanto nello scompartimento
del treno che mi portava a te
proprio da te? da te? da te? da te?
che occhi dolci ha questo soldato, pensai
scende a Casarsa, e perché no, anch’io?
e tu dicevi, dopo, “come fare
andremo a Casarsa alla caserma
e il comandante dirà ai soldati in fila:
graduato bruno dagli occhi dolci
un passo avanti”
orli contorni
dettagli estremi appigli
ai quali si aggrappa la mia anima
d’un tratto nulla riconosce
e la sgomenta la notte balenante
e il giorno come l’elsa di una spada
ora, come hai voluto, fa sera:
così il cielo si avvia arditamente
col suo cappello a tricorno
e gli strumenti dell’arte:
la cupola verdastra di San Pellegrino
il duomo diafano
il selciato che decide i passi
e fermamente s’aggrava di grigio
*
Opere citate:
Giungi S., Finestre affascinate ardenti stanze, Il gabbiano, Messina, 1993
Giungi S., La casa sul colle Guasco, Transeuropa, Ancona, 1999