il Due come prossimo titolo

di Mia Lecomte

La frontiera spaesata. Un viaggio alle porte dei Balcani di Giuseppe A. Samonà

In uno dei pochi accenni autobiografici di questo libro meravigliosamente “estro-verso” – sempre oltre l’autore, altrove, all’ascolto della comune umanità nel tempo – Giuseppe Samonà-bambino chiede al padre: “Come mai gli uomini si spostano?”. Ormai adulto, forte dei molti spostamenti geografici e linguistici con cui ha costruito il proprio percorso di studioso e scrittore, prova ora a rispondersi/ci avvicinando la lente di ingrandimento a un’area geografica esemplare, coagulo di transiti e destini, paradosso di frontiere. Trieste, la Slovenia, Zagabria… l’Istria dove “ci sono moltissime cittadine, villaggi pieni, meno pieni, vuoti… Ci sono moltissime isole, grandi e piccole”, come recita giocosa la prima delle cartine manufatte disseminate tra le pagine del volume, che apre agli “itinerari di questo libro”. Forse sono proprio queste mappe, e le piccole fotografie commentate con cui si alternano – opera della “compagna di viaggi” dell’autore, Sophie Jankélévitch – a dirci di che cosa si stia davvero parlando. Lievi, poetiche, fanno da controcanto al testo, come le didascalie di un film muto, o la descrizione dei miracoli negli affreschi di un santo popolare. Perché questo è anche il diario del viaggio preannunciato dal sottotitolo, o meglio ancora una «ipotesi di percorso, nello spazio e nel tempo, e di riflessione, contemplazione», come puntualizza l’autore nella postfazione; ma il significato del viaggiare in questione, di questo percorrere ragionato e contemplativo, è tutt’altro che scontato.
Nei libri di viaggio, l’autore è spesso troppo presente, ingombrante. Qui, attraverso i continui riferimenti e rimandi storici, letterari, la presenza è lasciata agli altri. L’autore osserva e si osserva camminare, esiste solo nei paesaggi delicatamente saturi di colore, nelle architetture, nel fuggevole ricordo di alcuni luoghi – altri viaggi, la sua Sicilia – coerente al proposito dichiarato di “scomparire” dietro ai suggerimenti, nel riverberare altrui. Passo a passo – il ritmo della marcia, un’incalzante lentezza, è il principale strumento di osservazione e continuiamo a “sentirlo” anche dopo aver interrotto la lettura – Samonà ci fa entrare nel suo raggio d’osservazione, in questo frammento ingrandito di mondo: un brulichio intelligente e documentatissimo di Storia e storie, luoghi, date, eventi, opere, personaggi, scrittori, poeti, musicisti, artisti…; politico, realmente politico, e lirico, in un abbraccio diacronico senza gerarchie. Il viaggio promesso sta dunque in questo appassionante corteo, ritmato e promiscuo, di uomini e gesta; che è poi lo stesso procedimento adottato dall’autore nel suo precedente Quelle cose scomparse, parole, dove a brulicare, a copulare fertili erano le voci esponenziali del proprio glossario personale. Ma più si entra nei dettagli delle vite, delle vicende, delle molte opere citate – più la lente s’avvicina per ingrandire – e più l’immagine perde di realtà. Come quelle piantine, quelle fotografie, che dovrebbero essere lì per testimoniare un percorso, e invece ci raccontano di un sogno, un’illusione.
A mano a mano che ci lasciamo portare per questi luoghi, si fa sempre più evidente l’idea che questo viaggio e il suo viaggiatore-assente – la zolla esemplare di mondo e lo sguardo al di là della lente – si alimentino dello stesso s-paesamento, un «décalage che mette a loro agio tutti i décalés». Dove l’unica realtà sta nelle parole: quelle che Samonà usa sapientemente come una formula magica per dare consistenza alla verità fugace delle cose umane; e quelle della lingua che ha inglobato le frontiere in un nome composito e si è fatta carico delle lacerazioni.
È un precipitato di imperi, regni, stati – austro-ungarico, ottomano, jugoslavo, italiano…– questo frammento pre-balcanico, un condensato di frontiere che si sono intersecate nei secoli, in un sovrapporsi cacofonico di intenzioni. Limbo per esistenze sospese di “misti”, “rimasti”, sempre “in bilico”, come tale è emblematico della caducità di ogni umano potere, della volatilità delle barriere erette per difenderlo e glorificarlo, che si confondono e si arrendono. Perché, ci ricorda l’autore «Proprio nel momento in cui affermiamo una proprietà, ne vanifichiamo la ragion d’essere, rivelando che le eredità sono il trionfo dei miscugli, e la terra che si pretende amare è un tempo, più che uno spazio…». E nel tempo, si sa, tutto è destinato a finire, ogni limite, mura che, dalla sua prospettiva, esprimono solo «il segreto bisogno dell’altro, dell’incontro», consegnano Ettore alla lancia mortale di Achille per poi farsi rovine.
Nell’esemplare variazione di tempo che si dispiega nelle pagine di questo libro, cadenzata dai passi del viaggiatore Samonà, arpenteur dell’impermanenza, non sono solo le frontiere geografiche o linguistico-culturali a spaesarsi, ma anche quelle “tra follia e normalità, o persino tra maschile e femminile, tra uomini e animali e magari, perché no, fra sentimenti, fra desideri”, che restano appese al vuoto come bandiere lacerate.
Eppure – c’è sempre un eppure, a perpetuare… – nell’ultimo capitolo del libro, qualcosa sembra ancora resistere, luccicare sotto tutto il resto: l’indo-cambogiano-americano Jay, riemerso dal passato di fronte alla stazione di Zagabria, con la sua giovinezza inaspettata e perenne dischiude una prospettiva di speranza, riaccende le utopie. Rinnova la voce che, con dolcezza, sempre domandando, si/ci congeda. Come mai gli uomini si spostano?

Print Friendly, PDF & Email

articoli correlati

Un bon élève

di Simone Redaelli
Ma questa è una menzogna. Nulla nel mondo ha di queste sensazioni. Tutto continua a girare: gli esseri umani procedono indisturbati, gli alberi generano foglie, i muri continuano a reggersi.

“A man fell”, dell’eterna diaspora palestinese

di Mariasole Ariot
Un'esistenza che sanguina da decenni e protesa a un sanguinare infinito, finito solo dal prosciugamento di sé stessa.

Amelia Rosselli, “A Birth” (1962) – Una proposta di traduzione

di Marco Nicosia
Nel complesso, la lettura e la traduzione esigono, come fa l’autrice, «[to] look askance again», di guardare di sbieco, e poi di nuovo scrutare e ancora una volta guardare di traverso

Sopra (e sotto) Il tempo ammutinato

di Marco Balducci
Leggere queste pagine-partiture è in realtà un perdersi nei suoni: suonano nel ritmo delle sillabazioni, nelle pause degli spazi bianchi

L’occhio di Dio

di Silvia Belcastro
Dal mio corpo escono tubi da mungitura perché devo allattare la notte, devo mettere al mondo le sue creature: su un nastro trasportatore sfilano, a distanza regolare, i miei fantasmi contornati di luce.

La risposta

di Valentina Riva
Sotto la luce dell’attesa, non sono più serpenti, sono lombrichi, facili da sotterrare nel fango da dove sono venuti.
mariasole ariot
mariasole ariothttp://www.nazioneindiana.com
Mariasole Ariot ha pubblicato Essendo il dentro un fuori infinito, Elegia, opera vincitrice del Premio Montano 2021 sezione opera inedita (Anterem Edizioni, 2021), Anatomie della luce (Aragno Editore, collana I Domani - 2017), Simmetrie degli Spazi Vuoti (Arcipelago, collana ChapBook – 2013), poesie e prose in antologie italiane e straniere. Nell'ambito delle arti visuali, ha girato il cortometraggio "I'm a Swan" (2017) e "Dove urla il deserto" (2019) e partecipato a esposizioni collettive.  Aree di interesse: letteratura, sociologia, arti visuali, psicologia, filosofia. Per la saggistica prediligo l'originalità di pensiero e l'ideazione. In prosa e in poesia, forme di scrittura sperimentali e di ricerca. Cerco di rispondere a tutti, ma non sempre la risposta può essere garantita.
%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: