Questa di Marinella è la storia vera
di
Isabella Borghese
Ho ripreso a dormire bene, dopo l’isolamento. In estate, a Roma, poco prima dell’arrivo delle cicale. E questo dormire di notte, accompagnato da quel frinire di giorno, è fonte di serenità, la mia più grande gioia, adesso. Otto ore di sonno.
Al mare è diverso. Al mare dormo di meno.
Lì riconosco di avere quell’eccitazione propria dei bambini. Così, alla sera, quando mi corico, penso alla spiaggia, al mare e provo lo stesso divertimento di quando ero bambina e mio padre, dopo cena, senza riuscire, cercava di convincermi, “Se non vai a dormire vengono i carabinieri e domani non potremo andare al mare”; e pure, sento lo stesso fremito che mi invade quando immagino di spogliarmi davanti a un uomo con cui desidero fare l’amore.
La fretta di andare al mare, per me, non è poi molto differente dalla fretta che ho quando voglio fare l’amore. L’impazienza dei bambini.
È così che alle 7,00 sono già sveglia.
Quando tutti dormono, ma io no. Io alle 7,15 indosso il costume e mi avvio, prima di avvicinarmi al mare, verso l’edicola. Passeggio e osservo i balconi, il cielo, in alcuni tratti intravedo le onde, o la calma piatta che mi allieta così tanto. Mi fermo a prendere il caffè a La Gatta, qualche volta. Il lido dove mio padre e mia madre si sono conosciuti quarantaquattro anni fa, mentre una ragazza cercava di conoscere il mio futuro padre, e lui invece, con un mazzo di fiori, chiedeva di uscire a quella giovane di vent’anni che pochi anni dopo sarebbe diventata mia madre. Mi sembra di vederli: lei con il suo sguardo lusingato, lui con il suo più malizioso.
Da quando mio padre è in clinica, da quando so che nel nostro mare, a Santa Marinella mia (così la chiamavo quando ero piccola e la indicavo sulla cartina geografia) non andremo più insieme, da allora e dopo la morte di un caro amico, ho maturato questa convinzione: esiste una geografia sentimentale dei luoghi che a essi ci lega in modo incondizionato ed è mappata dalle persone che amiamo. Quando qualcuno non è più con noi, nei mille modi con cui possiamo individuare e definire un’assenza, quando questa assenza viene a pesarci nei posti che insieme abbiamo vissuto, occorre forgiarsi di pazienza e forza e così, lentamente, reinventare la nostra mappa geografica; occorre mantenere i nostri itinerari, ma affidarci a un nuovo sguardo su di essi, senza sciupare i sentimenti più gloriosi e magnifici che in passato ci hanno accompagnati. Non è forse così che nascono i bei ricordi? Perciò l’estate non è mai potuta diventare la mia stagione del cuore. Perché non di una stagione ai miei occhi si tratta, ma di un sentimento: la nostalgia, il mio preferito.
Amavo l’imbrunire da ragazzina. A Santa Marinella era il momento in cui mi accovacciavo e mi incantavo a vedere le belle di notte aprirsi. Potevo restare ore intere in quella scena. Le trovavo così belle nei loro petali rosa, come le bouganville, ma di esse più profumati, o gialli, i miei prediletti. Le toccavo segretamente, ché mia madre ripeteva a cantilena, Non toccarle sono velenose, e non staccare i semini, non è tempo. E io le toccavo ogni volta e sempre staccavo i semini e poi li nascondevo dentro le tasche dei miei pantaloni, o sotto un sasso vicino la porta – il mio nascondiglio.
Ma l’imbrunire era anche il momento in cui mio padre ci raggiungeva da Roma, nel fine settimana, e di lì a poco il mio diventava un tormentone, “Papà, portami dalla signora che fa mangiare i gatti!”. Lo ripetevo fino allo sfinimento. Ero talmente affascinata da questa vecchina che viveva da sola in una grande villa, che pareva mezza abbandonata tanto cadeva a pezzi, e a qualsiasi ora ti recavi nei pressi, lei era lì affacciata alla finestra parlava da sola, o coi gatti e gli lanciava da mangiare. Dicevano che era una matta, e io le volevo bene, e la salutavo da lontano. Ed ero punto felice.
Sono passati oltre trent’anni da quella felicità, da quando mio padre mi ha insegnato a fare le capriole sott’acqua e lì dentro nel mare un po’ affogavo, un po’ restavo a galla, nel modo in cui oggi, a volte, mi pare di vivere.
Pochi giorni fa, lontano da Santa Marinella, ero in vacanza a Gaeta, dove si può stare in spiaggia anche a ora di pranzo tanto è piacevole il vento; un po’ pare esserci per farti riposare, un po’ per consegnarti i tuoi ricordi. Questi. “Poi torno a Santa Marinella nostra”, ho raccontato a mio padre in una videocall, “Ma prima passo a trovarti”.
Non ho mai raccontato a papà che due anni fa a Santa Marinella si è suicidato il figlio del gestore di un lido, un posto che per noi era come una casa, un padre che io, quando sono lì, passo sempre a salutare, anche se poi vado dove mi porta il momento. Ovunque, a nuotare.
Sembra una colpa, un’offesa a volte a noi figli questo continuare a vivere, a cercare la vita, mentre vediamo i nostri padri immobili, fermi, deboli e indifesi. E pure, mentre sembriamo diventare noi i loro genitori e siamo qui e cerchiamo di proteggerli persino scegliendo cosa sia giusto raccontargli e quello da cui crediamo sia meglio salvaguardarli. Ma ecco, mi sovviene un pensiero, Tutto è vita, tutto serve alla vita, ha scritto Manuel Vilas e queste parole risuonano nella mia mente, quasi come un insegnamento. O forse un promemoria.
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