L’inizio degli inizi
di Emmanuela Carbé
A ventuno anni avevo teorizzato il Congresso di Vienna, la mia comfort zone e religione, la risposta definitiva alle domande fondamentali su vita/universo/tutto-quanto. La mia teoria era decisamente indipendente dalle fonti storiche che avevo letto per ottenere la maturità o qualche CFU, ma era pur sempre, almeno dal mio punto di vista e dal punto di vista del mio Congresso di Vienna, la mia parola contro la loro. Se non ero d’accordo con qualcuno potevo finalmente dirmi nella testa ma no, questo scemo di guerra evidentemente non sa niente del Congresso di Vienna, e dunque apparivo all’esterno più tranquilla, pacata, disposta al dialogo, o al finto dialogo, con la consapevolezza che il mio interlocutore sapeva veramente poco dell’origine dell’universo e dunque, conseguentemente, di tutto il resto; se qualcosa della mia vita andava male, una catastrofe del mio mondo privato, un avvenimento improvviso e duro, mi dicevo con un certo piglio consolatorio ecco, è tutta colpa del Congresso di Vienna, se il Congresso di Vienna avesse agito diversamente questo fatto di sicuro non sarebbe avvenuto. Anche gli avvenimenti straordinari della mia vita erano tutti riconducibili, uno a uno, ai meravigliosi, irripetibili ed eroici mesi del Congresso di Vienna.
Primo novembre 1814, castello di Schönbrunn: inizia il mondo. Mi convinco che tutto il prima è una menzogna, un’invenzione, una scrittura epica di un passato che non è mai esistito. Faccio fuori in un attimo secoli e secoli di storia e mi prendo in mano poco più di duecento anni. Mi sento già a mio agio: questo, con un po’ di sforzo, posso vagamente concepirlo.
Sono tutti lì, in quel non luogo che oggi chiamiamo convenzionalmente Vienna, con il mondo appena iniziato (per un momento non chiediamoci perché, crediamo infatti che questo sia l’unico inizio possibile), una manciata di uomini di nazioni diverse privi del concetto di nazione, non essendo stato Fichte ancora inventato. Uomini con dei pantaloni attillati bianchi, seduti attorno a un tavolo che ha una tovaglia tipo poker ma blu cobalto. Stanno lì insieme a inventarsi, tra tutte le combinazioni possibili, un mondo.
Parla per primo Klemens von Metternich, che fino a quel momento non sapeva nemmeno di chiamarsi Klemens, e inizia a ringraziare gli intervenuti riuniti tutti insieme per un mondo di pace, si scusa perché in effetti non sa a chi dire grazie per la geniale invenzione di un congresso, forse dovuta a lui stesso, non lo sa, ma nota con compiacimento l’impeccabile organizzazione, la raffinatezza dell’ambiente, il cibo che vede arrivare nella stanza, forse proveniente da un qualche sponsor. Talleyrand lo fissa scuotendo la testa, guarda questo scemo di guerra, pensa. La guerra, va notato e accettato fin da ora, a quell’altezza della discussione non esiste ancora, ma così dicendo Talleyrand crea involontariamente la sua prima metafora, che a sua volta crea per analogia il primo vero scemo di guerra, che per funzionare ed essere effettivamente scemo deve avere una guerra da cui tornare, e dunque, per sineddoche, nasce immediatamente il concetto di guerra e per estensione il concetto di storia. Per antitesi viene allora compreso e affermato quello che Metternich aveva solo confusamente intuito pochi istanti prima: il concetto di pace.
[…]
Ma andiamo con ordine. Non sappiamo in quanti sono perché il concetto di numero non è stato ancora inventato. Tanti o pochi, si mettono tutti a ragionare su una cosa alla volta: iniziano dunque le discussioni sui concetti di cosa e di cosare, e fu sera e fu mattina: primo giorno. Il secondo giorno lo zar di Russia dichiara di non essere soddisfatto, e che non uscirà dalla stanza finché tutto non sarà in ordine. Un signore, fino ad allora in disparte, capisce di poter parlare e si aggiunge alla conversazione. È il principe Karl August von Hardenberg, dalla Prussia (ma dove diavolo si trova la Prussia?, si chiede Karl come oggi potremmo chiedercelo noi: e così nascono i primi concetti di demonio, male, malvagità, tenebre), il quale, avendo capito solo in quel momento di avere delle orecchie per sentire, e non avendo ascoltato nulla di quanto era stato discusso il giorno prima, spiazza tutti con una domanda inconcepibile, anche perché fino a quel momento non era ancora del tutto chiaro il concetto di domanda e si stava solo, molto lentamente, imparando a cosare. Va a braccio: gentili colleghi, poiché dalle nostre bocche stanno uscendo dei suoni ben precisi, e poiché quei suoni hanno un significato, propongo di chiamare questa cosa, qualsiasi cosa sia, lingua, e di chiederci come mai stiamo riuscendo a capirci gli uni con gli altri. Karl gesticola, è visibilmente agitato, emette suoni a caso, eppure così, su due piedi, inventa la torre di Babele e dalla gioia inizia a cantare e ballare (da qui il fortunatissimo concetto, elaborato meglio poi sui nostri libri di storia, del Congresso di Vienna come ‘congresso danzante’).
Improvvisamente, il quinto giorno dopo l’inizio del Congresso, quando sta regnando uno stato di anarchia assoluto, in cui tutti cosano invenzioni senza aver prima cosato il concetto di distruzione (e allora giù a inventare scimmie, patate, tazze di tè, edifici rinascimentali, elefanti e bomboniere a forma di elefante, cagnolini, linguaggi di ogni tipo), con Klemens perennemente ubriaco e il Duca di Wellington pronto a fumarsi anche le tende, mentre tutto si accumula pericolosamente su tutto nei giardini del castello di Schönbrunn, essi stessi creati senza criterio, con piante di ogni tipo una sopra l’altra, arriva al Congresso di Vienna una lettera (1 foglio manoscritto recto, senza data, senza timbro, senza busta) della moglie di Castlereagh, inizialmente a Vienna ma poi rientrata in UK non appena venne formalizzata, sebbene ancora un po’ confusamente, l’invenzione dell’Inghilterra. La moglie di Castlereagh, a cui si deve una prima sistematizzazione del concetto di mittente-messaggio-destinatario, anticipando di oltre un secolo le funzioni del linguaggio descritte dal linguista Roman Jakobson, e non solo, scrisse infatti un accorato appello al Congresso per una seria riorganizzazione dei lavori. Trascrivo:
Dear maschi cialtroni del Vienna Congress,
vi esorto a una maggiore cautela e a una qualche forma di saggezza nell’invenzione del mondo; suggerisco la creazione di una task force per il passaggio alla fase due del Vienna Congress. Non vorrete portarci alla catastrofe. Lasciate che ve lo dica: siete dei past[icci]oni, appartenete a una classe dirigente inadeguata e non all’altezza del compito di questo tempo. Bisogna lavorare più razionalm[ente], creare un mondo ordinato e intelligente, e per farlo dovete avere con voi le menti migliori. Certo: economist* [sic], project manager, specialist* [sic] dell’emergenza, ma avete bisogno anche di umanist* [sic], architett* [sic], scrittrici e scrittori and so on. Inventatevi figure che possano inventare il mondo meglio di voi. Dividetevi i compiti [i compiti soprascritto a il lavoro]. Usate la poca immaginaz[ione] che avete.
Looking forward to hearing from you,
Best wishes,
The Castlereagh’s Wife, PhD <3
Grazie alla moglie di Castlereagh si passò dunque in tempi molto rapidi alla fase due: fu creato forse troppo velocemente prima il concetto di Studium e poi di Università, inventarono dei professoroni i quali inventarono dei comitati di lavoro che a loro volta raccoglievano sottocomitati di lavoro che a loro volta raccoglievano altri tavoli di lavoro; i professoroni si inventarono poi un comitato fatto a sua volta di tanti sottocomitati che dovevano controllare la qualità della ricerca dei professoroni stessi, sulla scorta della locuzione latina inventata ad hoc in quel momento e attribuita poi a Giovenale (“quis custodiet ipsos custodes?”). Il Congresso per farla breve anticipò incredibilmente, bontà loro, le intuizioni delle agenzie nazionali per la valutazione della ricerca, e stabilì che ogni giorno i membri dei vari comitati dovessero produrre almeno un documento di 40mila battute e non facciamo i furbi con le citazioni fitte fitte e con gli a capo e le note a p. di pag., da pubblicare su una rivista di fascia A, qualsiasi cosa ciò significasse all’altezza del 1814; nacque così il concetto sacrosanto di produttività accademica: nel tempo libero (d’ora in avanti in questa sede non si preciserà più, come nell’esempio in corso, che ovviamente il Congresso dovette prima intuirlo e istituirlo, il tempo libero: d’ora in avanti diamo per scontato che le cose siano andate esattamente così, che ad esempio le finestre del castello di Schönbrunn fossero già state inventate, eccetera) tutti i professoroni si sarebbero dovuti affacciare alle finestre del castello e urlare “qualcuno per favore può citare nel suo documento tre righe del documento che ho scritto ieri? Mi ci sono impegnato, per favore, ne ho bisogno, per favore, io vi cito sempre, per favore, in cambio vi cito nel documento che scrivo domani”. Nacque poi con molto anticipo il concetto di terza missione: i professoroni la sera dovevano fare attività extra per mostrarsi connessi al mondo che stavano loro stessi inventando e aumentare così il punteggio produttività: ballare la lambada, saltare nel cerchio di fuoco, mangiare fuoco e sputarlo, farsi sparare da un cannone dei giardini del castello con in testa un elmetto pieno di cuoricini. Ma questo meccanismo, anche se bizzarro, per ora non ci importa: importa piuttosto tornare a riflettere su come il Congresso di Vienna intese e volle la genesi del mondo.
Testo tratto da: Emmanuela Carbé, Jacopo La Forgia, Francesco D’Isa, Trilogia della catastrofe (effequ, 2020)
bello questo delirio sul congresso di Vienna. Colui che ha creato il mondo potrebbe in effetti aver cominciato da lì e aver poi instillato nella memoria di ognuno dei ricordi precedenti e avere cosparso la Terra di testimonianze fasulle, tipo fake news, dai testi Sumeri ai capolavori di Piero della Francesca.