“Nella sofferenza che io trovi l’essenza”. Su Dell’amore animale, dell’amore dell’uomo, dell’amore di un Dio di Lorenzo del Pero
di Francesca Matteoni
C’è chi per comprendere la natura di un sentiero deve perdersi, accettando di non riconoscere un volto, perfino il suo. È un sentiero di straniamento come di grazia, che resta sempre un po’ oltre, mentre ci teniamo al buio senza cedere e senza pelle. Ci sono artisti che giungono così alle loro opere, avendo fame e trovandosi a mordersi le ossa, ciò che ci sostiene. Nonostante una certa mitologia non c’è niente di romantico in tutto questo. Si è soli. Si può non tornare. Occorre fidarsi dei primi istinti corporali: nutrirsi, dormire come si può, respirare, resistere, anche se è il corpo che sembra tradirci. Eppure qualcuno torna, se non nel quotidiano, nell’arte, nella piccola salvezza ostinata della musica e della parola.
Mi sono ricordata di queste cose ascoltando a lungo l’ultimo disco di Lorenzo Del Pero, Dell’amore animale, dell’amore dell’uomo, dell’amore di un Dio (VREC / Audioglobe 2019). È già stato detto varie volte che l’universo autoriale di Lorenzo spazia da Bob Dylan a De André da Chris Cornell a Jeff Buckley e molti altri studiati e sofferti in anni di esperienza – ma il gioco dei rimandi si esaurisce presto e spesso serve solo a non fare i conti con la materia poetica del disco. Come suggerisce il titolo dall’amore animale, non meditato, innocente quanto inconsapevole si va verso l’amore dell’uomo, che non ha nulla di vittorioso, ma è un umile svelarsi delle cicatrici, e infine si cerca il confronto aspro e non pacificato dalla fede con il Dio (un Dio, fra i tanti possibili) della tradizione cristiana, costringendolo nella dimensione viva della sconfitta. Sono le tre fasi del sentiero, tre intermezzi che percorrono e ricuciono il disco in un dialogo fra l’uomo che non sente più niente/solo anche in mezzo alla gente e le figure a cui si rivolge per chiedere perdono e presenza o per donare a se stesso un riscatto raccontandole.
“Romina” e “A Silvia” sono canzoni struggenti, dove emergono ritratti di donne e di amori ostinati come gli errori, ma capaci di recuperare la dignità. Il singolo “Verrà la pioggia” è un urlo lucido contro i signori della terra, dove alle lacrime dei primi versi che puliscono i miei occhi dalla polvere/ed il cuore dalle vostre menzogne, fa eco il pianto del mondo nella pioggia che lava le colpe di tutti, purifica e porta giù il cielo. E forse si porta via anche l’illusione del potere. “Dell’amore animale” ha l’amarezza di una verità personale: Troppo tempo è passato/prendo ciò che rimane/di una mente confusa/aggrappata a un sorriso/ quanta gente delusa/quanti calci nel viso, mentre “Misera cosa” riconduce la passione alla sua vanità, un sudario di astuta bellezza; e “Sposa per denaro”, ben oltre il titolo, canta di chi getta via il sogno per una via facile solo in apparenza. Ma le tre vette dell’album sono, nell’ordine, “Sorella solitudine”, “Ave Maria” e “Preghiera blasfema”. La prima canta meravigliosamente una condizione esistenziale, dove si è liberi o deprivati delle aspettative riposte nell’altro, chiunque esso sia. Costante e senza volto, è la solitudine. Non può ferire con la memoria. “Ave Maria”, è forse la canzone dal maggiore impatto emotivo, quella dove l’amore tanto annunciato, tradito e smarrito si rivela puro e terreno, la presenza gentile della madre, colei pronta a battersi fino alla fine perché Vale più l’uomo vivo/di un Dio quasi morto. Il Cristo è la fragilità di ogni figlio spezzato, sanato nella grazia materna, che sia quella di una madre reale, con un nome e un’età o madre-vita ovunque si manifesti. E così “Preghiera blasfema” è un’accusa, una richiesta e un atto di riconciliazione con il padre, per essere infine visti come si è: deboli invece che forti; impauriti e immersi in un santo delirio al cospetto di una volontà incomprensibile che non ci riconosce. Nella sofferenza che io trovi l’essenza, scrive Lorenzo. Quel nocciolo duro che è la vita e il desiderio di esserci, anche con una tristezza resistente che a volte si piega alla preghiera e alla gioia.
Non è un ascolto indenne, questo. Se ne esce cambiati, come indossando la parte di noi che ci fa più male e che pure è la nostra compagna fedele. Il talento può dare fastidio, può provocare una smorfia d’imbarazzo quando si mostra nudo. Il talento di Lorenzo è la sua voce, che è poi la sua anima. A volte l’anima non ce la fa nel mondo ordinario o in quello che crede sia tale. Si nasconde, aggredisce, urla e cade. Ma si rialza nel canto.
Bellissimo, e vero. Lo sento come un fratello.
Album stupendo di cui andiamo fieri.