La verità dei primati
di Mariasole Ariot
A volte mi affaccio nei boschi della nuca, vorrei fosse un passaggio, un passato che passa, aprire le finestre e affacciarsi alle viscere, le viscere del mondo, di quest’epoca malsana – le mie, sempre troppo esposte: quando si scorgono le mie lacerazioni e si entra per lacerarle un po’ di più.
I sonni e i sogni sono ricominciati, pullulano di grandi ambienti marini, grandi musei d’acqua, una buca nel soffitto di un vecchio marinaio da cui soffia, in una Venezia mancata, il vento del Sahara.
Piccoli accadimenti che aprono una feritoia tra grata e grata, mi accovacciano la notte.
Quanto vorrei sentire i gufi, le maglie aperte di un mese di primavera, la verità dei primati, sconfiggere le guerre con l’unione dei corpi, avere una domenica che parli, i parlanti non sacrificati, le fughe senza ora, decidere per la decisione e mangiare luci nelle strade. L’incendio si è diffuso a combattimento, i volatili hanno cominciato a volare nell’alba, entra una mosca, nidifica nelle tane della casa, e non ho casa se non quella che mi è stata data in una nascita mancata.
Il carburante alle mie protuberanze non soddisfa l’attesa: ma cosa attendere quando tutto è teso, un’emicrania alle porte, gli uomini corrotti, le porte socchiuse che si spalancano la notte. Ci sono temporali nelle piante, sbucciano senza sbocciare, non ci sono fiori di vetro, nasce plastica al posto delle cautele.
La mia giovinezza non m’invecchia le tempie, è sempre là, ferma nell’immobilità di un’età non macchiata, quando le catacombe erano sotterrate e ora sono emerse, si sviluppano in verticale.
E quanto vorrei che le scimmie parlassero, un urlo per destare le offese a chi crede di avere la lingua degli antenati e porta solo in sé un’ironia bieca, il sarcasmo delle pagine della bocca. Quanto vorrei ci fossero tuoni anziché il bulbo delle nuche.
Ho un cuore battuto a ferro, si ferma solo per cominciare a camminare.
Dietro la nuca del deserto: i padri cadono, le figlie con la testa rossa si stringono un cappio al collo. L’inappartenenza è il silenzio con cui mi hai nata: vedo il cranio, il tuo rumore rotto nella stanza degli attrezzi – e mentre taci l’alba e taci a sera e taci il giorno, io resto nei resti del tempo. Scendo gli scalini, m’innaffio, mi squarcio la gola
Solo Mariasole sa sconquassarmi le viscere e il cuore con le sue parole…
E’ questo aggrovigliamento di forma e contenuto, avrebbero detto i vecchi critici letterari, che mi affascina nei tuoi scritti, Maria Sole, nessuna frase è banale, ovvero solita, quotidiana, ma sempre inaspettata. Ricordo che Umberto Eco nei suoi primi scritti critici di Opera Aperta e seguenti teneva in gran conto questa caratteristica. “Sconfiggere le guerre con l’unione dei corpi”, che meraviglia, grazie a te.
Grazie, Barbara, e grazie Sparz, per queste parole, di cuore. Soprattutto grazie per avermi letta e “sentita”.