Dopo il turismo
[E’ uscito per Nottetempo l’ebook Dopo il turismo di Lucia Tozzi, scaricabile gratuitamente dal sito dell’editore. Ne pubblico a mo’ di anticipazione il paragrafo dal titolo La globalizzazione e il turismo, ringraziando l’editore e l’autrice. ot]
di Lucia Tozzi
La critica no global di inizio millennio, che univa lotte anticapitaliste e ambientaliste, fu archiviata in parte a causa del suo spirito comunitarista che non si adattava molto alle reti ultraflessibili dei movimenti urbani, e in parte perché il pensiero sulle migrazioni, reso nel frattempo sempre piú urgente dall’espansione del fenomeno e delle sue conseguenze tragiche, ha messo in primo piano il diritto alla libertà di movimento delle persone, spostando il focus della lotta dalla difesa dei territori all’abbattimento delle frontiere. La resistenza dei contadini indiani contro la Monsanto è apparsa tutto a un tratto meno cruciale del loro diritto di fuga dal paese martoriato dagli effetti della globalizzazione.
La crisi del 2008 ha spostato poi l’attenzione sulla critica alla finanziarizzazione dell’economia, alla liberalizzazione della circolazione di merci e capitali contrapposta al controllo selettivo del movimento di persone: libertà per i cittadini di paesi ricchi, vessazione nei confronti dei cittadini di paesi poveri. Si è consolidata da allora l’idea che esiste una globalizzazione buona, che facilita lo spostamento di popoli e individui, lo scambio culturale, l’internazionalismo politico, e una cattiva, quella di matrice neoliberista. Un’idea che si è cristallizzata fino a diventare un dogma incontestabile quando hanno cominciato a diffondersi con sempre maggior successo i “populismi” di destra. Da lí in poi ogni critica rivolta alla crescita esponenziale della mobilità viene liquidata nel migliore dei casi come una manifestazione del frusto pensiero della decrescita felice, nel peggiore come sovranismo.
E cosí, grazie all’accumulazione di scarti e tabú, è stato finora quasi impossibile avanzare un dubbio sulla legittimità politica e la sostenibilità sociale e ambientale di questa nostra isteria cinetica senza passare per reazionari e fustigatori di piaceri altrui. In una recente intervista Noam Chomsky spiega che “non c’è niente di sbagliato nella globalizzazione in sé. È bello, per esempio, fare un viaggio in Spagna”7. Identificando tout court la globalizzazione con un positivo processo di democratizzazione dell’accesso al turismo, un piacere legittimo e incontestabile, Chomsky passa poi a scaricare, come da manuale, ogni responsabilità delle storture del mondo sull’altra globalizzazione, quella cattiva, plasmata dalle forze economiche del capitalismo estrattivo.
Il problema è che questa dicotomia è del tutto astratta: il turismo è la piú feroce delle industrie neoliberiste, equivale secondo le stime dell’Organizzazione Mondiale del Turismo (unwto) al 10% del pil globale e occupa il 10% dei lavoratori mondiali. E non solo: nel calcolo dei volumi d’affari del turismo globale non rientrano solo gli spostamenti legati al tempo libero, ma tutti gli spostamenti. Viaggi di lavoro, di studio, di svago, per ragioni di salute, pellegrinaggi, visite ai parenti, persino migrazioni. Tutto conta, ogni arrivo nazionale e internazionale, ogni notte in albergo o in b&b, ogni ingresso al museo va inteso materialisticamente come turismo.
Turistificazione e globalizzazione non sono due processi paralleli, sono quasi interamente sovrapponibili: ideologia e industria del movimento. Il manager che fa avanti e indietro da Wuhan e il ventenne che gira per festival techno, da questo punto di vista, hanno la stessa funzione. Le città possono competere per cose apparentemente diverse come diventare sede di un’agenzia governativa o aggiudicarsi un grande evento, ma gli obiettivi appartengono alla stessa costellazione: generare mobilità, attrarre persone e fondi pubblici e privati.
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Sono contento di rileggere Lucia Tozzi, che ho conosciuto in occasione della comune avventura di “alfabeta2”. E mi sono scaricato il tuo ebook Lucia. Non è che le poche righe lette qui siano sufficienti a intavolare una dicussione sulle tue tesi, ma almeno fungono da stimolo forte. E allora qualche prima osservazione viene voglia di farla. Il primo punto, magari secondario rispetto all’impianto della tua analisi, riguarda il movimento altermondialista 1999-2001, grosso modo. Mi sembra una semplificazione questa opposizione che fai tra la difesa dei territori, che sarebbe altermondialista, e la questione dell’abbatimento delle frontiere, che sarebbe una sorta di rivendicazione successiva, e in qualche modo contradditoria con la precedente. Più in generale trovo che la critica dell’industria del turismo, sacrosanta da vari punti di vista e particolarmente urgente, non dovrebbe essere messa nello stesso sacco delle migrazioni e tantomeno in quello dei flussi di rifugiati riconosciuti o meno, che sono costretti a spostarsi dai loro paesi d’origine contro la loro volontà. Il numero che hanno raggiunto è enorme, secondo le stime delle agenzie dell’ONU (si parla dell’1% della popolazione mondiale).
Insomma, non credo che sia una strategia vincente questa di ridurre tutto a turismo. I viaggi di studio e conoscenza, le fughe dalla propria terra natale verso l’altrove, sono esistite ben prima del turismo di massa e dell’industria turistica. Allo stesso modo mi sembra forzata la sovrapposizione di globalizzazione e “turistificazione”, ma cerchero’ la tua definizione di globalizzazione leggendomi per intero il tuo saggio, e queste riserve magari si riveleranno infondate.
In Francia, di recente, è uscito uno studio molto articolato sul sistema sempre più integrato tra industria turistica, patrimonializzazione, e industria culturale. Gli autori sono due sociologi: Luc Boltanski e Arnaud Esquerre, e il titolo è: “Enrichissement. Une critique de la marchandise” (Gallimard, 2017). Conosci questo lavoro? Mostrano, tra l’altro, che la valorizzazione del paesaggio e delle tradizioni locali si sposa benissimo con una rinnovata forma di industria turistica.
Un caro saluto