La postura

di Paolo Morelli

La formula della cosiddetta decrescita felice sembra passata di moda, se mai lo è stata. Si presenta ogni volta e si arena immediatamente sulla spiaggia delle buone intenzioni, calmierante, da ricchi. Si capisce subito che si basa sugli stessi presupposti che hanno creato la deriva in atto, un ulteriore affinamento del sapere tecnologico ad esempio che presuppone ulteriori sfruttamenti di uomini e cose, messo al servizio di una maggiore ‘facilità’, benessere, comodità o supposta semplificazione della vita. Per ogni sogno che si avvera per il mondo di qua, tipo l’auspicabile mobilità elettrica, si apre un nuovo incubo nel mondo di là, fatto di miniere, terre devastate, altre sofferenze, carestie, malattie, sfruttamento, migrazioni etc. etc. Sofferenze che poi ritornano. È la assai ragionevole ultima spiaggia di un pensiero esausto. Dopo c’è il nulla, finalmente ci si può rilassare, affidandosi all’ineluttabile.
Tuttavia una certa sostenibilità, o sopportabilità sia ambientale che mentale dovrà pur esserci, perfino dando per scontato l’ineluttabile. Una forma di resistenza diciamo cosí, giacché l’ineluttabile prende qui la parvenza di qualcosa sì di nuovo, ma con una forte somiglianza di famiglia col fascismo, e in piú con una caratteristica assai stimolante: ha tendenza globale. E noi ben sappiamo che la riuscita di ogni avvenimento che abbia una forte somiglianza col fascismo abbisogna per svilupparsi di un terreno di miseria, non povertà che può essere dignitosa, può essere perfino un buon affare, ma proprio una miseria senza riscatto. In primo luogo certo quella dei mezzi di sussistenza, esiste però anche la prospettiva concreta di un detrimento dell’intelligenza con una forte somiglianza di famiglia con la miseria piú nera.
E, naturalmente o quasi, qualsiasi catastrofe o emergenza di quelle che sembrano attenderci nel futuro non potrà che peggiorare le cose, ogni volta di un grado o più.
Il dato di fatto da cui partire è che il mutamento in atto è di quelli epocali nel senso pieno della parola, il cui esito può essere esiziale appunto, oppure una occasione per tutto quello che abbiamo fin qui chiamato umanità. Una di quelle fasi eccezionali nella storia dell’uomo in cui la scelta fin troppo radicale potrebbe formularsi come bestializzazione/mutazione, tenendo ben fermo il fatto che oggi ogni conflitto pare si sia interiorizzato.
In un presente che ci appare sempre più insensato, senza tempo né progetto, policentrico e soprattutto, checché se ne dica, senza un vero controllo da parte di alcuno, in un campo di azione in cui il vero non possiede piú alcun privilegio sul falso ed è quindi destinato a soccombere, a sparire dalla faccia della terra ed essere sostituito dalla legge spuria del basso istinto, la critica, è ovvio, non dovrebbe provare ad essere altro che radicale; la direzione, come ultima ratio certo, non può essere altra che verso le basi, all’essenziale, liberandosi in prima istanza da un intralcio che a fatica definiamo umanista, vale a dire una fiducia mal messa sulla capacità umana di controllare i cambiamenti non solo antropologici ma addirittura biologici offerti dalle tecnologie da essa stessa create. Non è mai stato vero, dalla ruota in poi, basti pensare alla perdita delle capacità mnemoniche seguito all’invenzione della scrittura ad esempio, giacché ogni strumento inventato o utilizzato, lo affermano i paleoneurobiologi, non può che finire per alterare la nostra organizzazione cerebrale. “È curioso che l’uomo occidentale non abbia mai considerato una nuova invenzione come una minaccia al suo sistema di vita”, avvertiva il visionario McLuhan già nel 1964, e già ritenendo quanto l’attributo di occidentale sarebbe divenuto superfluo. Eppure lo sentiamo dire ogni giorno che tutto dipende da come le si usa, e vale per le armi come per le tecnologie. In questo nostro caso odierno poi è la potenza invasiva del sistema nervoso centrale cui sono abilitate le nuove strumentazioni, con una velocità di esecuzione e uno schiacciamento temporale mai visto nei millenni ad aver creato le condizioni, alle prese con un atteggiamento della mente che le usa, che crede di usarle, palesemente inadeguato.
Molto ma molto piú insomma di un semplice cambiamento di prospettiva come ce ne sono stati miliardi da quando c’è aria, quasi un terremoto, un ribaltamento per le nostre modalità cognitive.
Una volta liberati da tale presunzione lesiva del nostro buon nome di esseri pensanti non potremo più dubitare di quale sia la fonte del mancato privilegio di un vero qualunque nei riguardi del falso, la causa almeno principale per cui nessun vero si distingue ormai dal falso: un modo di ragionare che non funziona più, al cospetto dei mutamenti in atto.
Stiamo entrando infatti, non proprio a passo danza, nella pazzia all’epoca della sua riproducibilità tecnica. Se il vero ha sempre avuto difficoltà a farsi credere, la menzogna e la pazzia, o ancor peggio forse la mera stupidità si sa quanto siano incontrollabili e moltiplicabili con facilità. Oggi approfittano di possibilità immense. Non si vede perché non dovrebbero riprodursi a dismisura come gli altri nostri messaggi, ma con maggiore efficacia penetrativa. Non si vede perché assieme ai forum e agli appelli per la pace la base di diffusione pressoché illimitata non debba favorire pure il proselitismo dei tagliagole o la brutalità da salotto dei frustrati di cui è pieno il mondo. O che la condivisione social non possa essere viatico per emulazione dell’idiozia stragista, giacché la violenza come gioco narcisistico non soltanto è pericolosa ma inarrestabile. O che, infine, lo stato turpe di “solidarietà negativa” (Hannah Arendt) non possa essere amplificato dalla comunicazione digitale. Non è solo il rovescio della medaglia, è la medaglia tutta che è falsa. Ecco che il vero sta diventando delinquenziale, o almeno quello che è stato selezionato per vero dalla società che ci ospita. Ecco che siamo in grado di apprezzare solo il finto, l’edulcorato, l’artificioso, il complicato e ci danno fastidio non solo le cose autentiche e le più semplici ma anche quelle ricche di complessità. Non abbiamo altra chance che prenderne coscienza.
Eccoci quindi all’ultima ratio che si trasforma in buona occasione: mai come ora può apparire chiaro come la totale esperienza del mondo dipenda dall’orientamento della mente. Ad esempio, l’ambiente mentale e umano mutato dall’invasività delle tecnologie, le condizioni percettive e cognitive del tutto nuove, rendono improvvisamente inattuale e inadatta la concezione finora dominante, quella che tende a contrapporre il tempo autentico, il tempo interiore della coscienza al tempo esteriore del mondo. E se il tempo interiore ha consentito la costituzione del concetto di coscienza individuale come luogo di emancipazione, ha anche determinato la riduzione dell’esperienza al momento della coscienza, rimuovendo gli elementi dell’inconscio come il nostro ‘essere nel mondo’ corporeo.
Dalla smaterializzazione delle esperienze e dell’esistente, con susseguente estetizzazione (l’allontanamento delle cose ritenute sgradevoli è corroborato in prima istanza dall’instaurazione del linguaggio corretto: non-vedente per cieco, ‘interrogatorio intensificato’ al posto di tortura…; viatico poi per un ulteriore passo dell’addio al buon senso: che so, il cambio del finale alla Carmen di Bizet per femminicidio com’è successo tempo fa al Maggio Musicale Fiorentino, o magari preparando il terreno con notizie che non si può sapere quanto siano false, tipo quella del blocco alla Sorbona de Le Supplici di Eschilo per razzismo), all’esilio del dalle attività della conoscenza, all’esilio dalla vita in definitiva. Altro esempio, facciamo i conti con un progressivo restringimento della nostra prospettiva dovuto a molte ragioni, e una è certamente l’ansia forzosa da presentificazione come un effetto collaterale dell’irriducibilità del nostro tempo psichico con quello informatico che tende, anzi pretende, la simultaneità di azione e reazione.
Ora che all’intelligenza per millenni considerata la più evoluta, quella ‘sequenziale’, si sostituisce quella ‘simultanea’ caratterizzata dalla capacità di trattare allo stesso tempo più informazioni senza però essere in grado di stabilire una successione o gerarchia o ordine, ecco come si impoverisce il pensiero.

 

Sarebbe un insulto ai saggi definirlo un saggio. Comunque sia, tratta (prova a trattare) della necessità, per me urgente anzi imprescindibile di un addestramento, per riacquistare lo spirito critico che ognuno crede fortemente di avere e invece perde a fronte dei mutamenti percettivi e cognitivi, per lo più senza accorgersene.
Sto cercando di spiegarlo in poche (64) parole, ma è più sghembo di così.
Poi però ci sono i disegni originali di Carlo Bordone, allora le parole diventano settantanove.

P.M.

 

NdR: il testo di Paolo Morelli fa farte della raccolta “La postura del guerriero”, pubblicato recentemente da Sossella, che ha gentilmente concesso il permesso di riportarlo qui

 

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5 Commenti

  1. ‘Ecco che siamo in grado di apprezzare solo il finto, l’edulcorato, l’artificioso, il complicato e ci danno fastidio non solo le cose autentiche e le più semplici ma anche quelle ricche di complessità.’

  2. Sono rimasto esterrefatto dall’incipit di questo estratto, che non esito a ritenere una palese falsificazione del concetto di Decrescita Felice — riporto per intero il brano cui mi riferisco:

    «La formula della cosiddetta decrescita felice sembra passata di moda, se mai lo è stata. Si presenta ogni volta e si arena immediatamente sulla spiaggia delle buone intenzioni, calmierante, da ricchi. Si capisce subito che si basa sugli stessi presupposti che hanno creato la deriva in atto, un ulteriore affinamento del sapere tecnologico ad esempio che presuppone ulteriori sfruttamenti di uomini e cose, messo al servizio di una maggiore ‘facilità’, benessere, comodità o supposta semplificazione della vita. Per ogni sogno che si avvera per il mondo di qua, tipo l’auspicabile mobilità elettrica, si apre un nuovo incubo nel mondo di là, fatto di miniere, terre devastate, altre sofferenze, carestie, malattie, sfruttamento, migrazioni etc. etc. Sofferenze che poi ritornano. È la assai ragionevole ultima spiaggia di un pensiero esausto. Dopo c’è il nulla, finalmente ci si può rilassare, affidandosi all’ineluttabile.»

    Mi chiedo se l’autore abbia mai letto i filosofi, i sociologi e gli economisti di riferimento per la Decrescita Felice e i libri dei fondatori, per poter giungere all’aberrante conclusione che questo pensiero sia alla stessa stregua di un capitalismo feroce che sfrutta persone e cose — tra l’altro la decrescita è nata dal presupposto che le risorse planetarie stanno finendo a causa del loro sfruttamento indiscriminato, dunque propone un modello economico opposto alla crescita, sia quella infinita che quella cosiddetta “sostenibile”. Nei libri sulla decrescita si parla di una tecnologia che si deve impiegare sì per migliorare le condizioni di vita e lavorative, riducendo sprechi di risorse, ma è condannato chiaramente e fermamente l’impiego di essa per eliminare posti di lavoro, è foraggiato (anche questo è scritto chiaramente) l’uso delle tecnologie per creare più posti di lavoro (o forse l’autore ritiene che sia valida l’uguaglianza tecnologia=disoccupazione?).

    La ricchezza propugnata dalla decrescita felice si basa su un’altra scala di valori, dove la ricerca della felicità (individuale e collettiva) è al primo posto, rifiutando il denaro come parametro per definirla — tant’è che i suoi maggiori detrattori, che sono spesso politici ed economisti che difendono a spada tratta il neoliberismo, l’accusano di volerci tutti più poveri e con le pezze ai pantaloni, banalizzando e disprezzando invece un modello economico che si basa sul dono, la solidarietà e la sobrietà. Quest’ultima è una qualità opposta ai bisogni indotti dal consumismo, il quale manipola le persone per indurle ad acquistare beni di cui non ha nessuna necessità.

    Non mi voglio dilungare ulteriormente qui, anche perché non sono certo titolato per discorrere di decrescita in modo approfondito; ma vi suggerisco di ospitare su queste pagine qualche rappresentante del Movimento della Decrescita Felice o anche il fondatore Maurizio Pallante a esporre una sintesi di questo sistema alternativo sia al capitalismo che al comunismo, per avere un’idea più sincera di ciò che predicano. Un conto è avere un’idea differente, un’altra è attribuire ad altri parole e convinzioni mai espresse.

    • Mi rendo bene conto che l’incipit del mio libro non rende bene l’idea di dove va a parare. Dove va a parare (dove prova ad andare) è il fatto che senza un mutamento cognitivo di prospettiva (che necessita, propone il libro, comunque di un addestramento) qualsiasi ipotesi o opera intrapresa non può che prendere parte al programma come è andato impostandosi, e quindi risulta inane se non controproducente ai suoi stessi intenti. E’ come nel double bind di Bateson, ci siamo in pieno, in cui qualsiasi azione, anche a contrasto, finisce per favorire solo la situazione di partenza.
      Non si trattava quindi dell’elaborazione teorica della decrescita felice, ma del dubbio che nella sua realizzazione essa non debba per forza soggiacere alle stesse regole, o logiche, non solo economiche ma cognitive innanzitutto.
      Di più è difficile dire, perché è nel libro.

      • È indubbiamente originale una strategia dialettica che parte da una premessa falsa per dimostrare la validità delle tesi sostenute. Ciò che mi pare sia sfuggito è che alla base della teoria della decrescita vi sia proprio un cambio di “paradigma culturale”, un nuovo modo di approcciarsi ai bisogni umani (che non sono soltanto economici ma anche culturali, sociali e politici); anzi, è fondamentalmente incentrata sul fatto che bisogna riscoprire l’importanza e la priorità delle scienze umanistiche, che devono fare da guida alle azioni umane, tecnologia compresa.

        Che la teoria della decrescita abbia trovato e trovi ancora difficile applicazione è indubbio, ed è dovuto a diversi motivi: il più importante è che il sistema capitalistico, essendo dominante, mette in campo tutti i mezzi necessari per riassorbire tutte le anomalie (come il pensiero della decrescita) che possano (o minaccino anche lontanamente di) sovvertirlo: è un tipico comportamento naturale di un sistema, reagire alle sue microvibrazioni cercando di riportare il suo stato al precedente equilibrio; oppure, se le microvibrazioni sono troppo ampie, o molteplici, a creare un nuovo equilibrio ma sempre nell’ambito di sé stesso. Infatti, è un’illusione quella di mutare un sistema dall’interno, perché questo rimarrà sempre lo stesso sistema.

        L’unica strada è creare un’alternativa che sostituisca, che soppianti dall’esterno il capitalismo — il quale adotterà ogni mezzo necessario, compreso lo stragismo, per non cedere il passo — ponendo sì le basi attraverso un «addestramento cognitivo» ma senza — è questo il mio suggerimento — denigrare o rifiutare a priori tutti coloro che, seppure attraverso strade differenti, tentano di arrivare alla stessa metà.

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giacomo sartori
giacomo sartori
Sono agronomo, specializzato in scienza del suolo, e vivo a Parigi. Ho lavorato in vari paesi nell’ambito della cooperazione internazionale, e mi occupo da molti anni di suoli e paesaggi alpini, a cavallo tra ricerca e cartografie/inventari. Ho pubblicato alcune raccolte di racconti, tra le quali Autismi (Miraggi, 2018) e Altri animali (Exorma, 2019), la raccolta di poesie Mater amena (Arcipelago Itaca, 2019), e i romanzi Tritolo (il Saggiatore, 1999), Anatomia della battaglia (Sironi, 2005), Sacrificio (Pequod, 2008; Italic, 2013), Cielo nero (Gaffi, 2011), Rogo (CartaCanta, 2015), Sono Dio (NN, 2016), Baco (Exorma, 2019) e Fisica delle separazioni (Exorma, 2022). Alcuni miei romanzi e testi brevi sono tradotti in francese, inglese, tedesco e olandese. Di recente è uscito Coltivare la natura (Kellermann, 2023), una raccolta di scritti sui rapporti tra agricoltura e ambiente, con prefazione di Carlo Petrini.
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