“Soleil grigri” (1/4): da “Quarto vuoto”
di Gilles Weinzaepflen
traduzione di Alessandra Cava
[Soleil grigri è un libro di Gilles Weinzaepflen, uscito per Lanskine nel 2018. I testi qui pubblicati, tradotti da Alessandra Cava, provengono dalla prima sezione del libro, Quarto vuoto. Ritroverete su NI estratti dalle altre sezioni: Cardine Kinski, La primavera torna indietro e Salut, voilà].
È seduto sulle piastrelle, rannicchiato tra il tavolo basso e l’armadio, le spalle al muro, a torso nudo. Porta dei pantaloni chiari. Il suo orologio da polso indica le 10:30. Probabilmente è mattina. Sulla sua spalla sinistra, un tatuaggio. Forse un uccello in volo, le ali spiegate e la testa che sparisce verso la scapola. Due pacchetti di Gitanes sono appoggiati sul piano. Il primo è vuoto, il cartone è deformato. Di sicuro è stato schiacciato nella tasca dei pantaloni. Un accendino trasparente è posato sul secondo. Un telefono rosso a disco domina al centro del tavolo. Datazione possibile: fine degli anni ‘70, inizio ‘80. L’apparecchio è attaccato alla presa dietro di lui, il cavo rosso passa sopra la sua spalla. Il torso ruota in direzione del tavolo, il viso girato verso il posacenere. L’attività di fumare lo occupa interamente. Concentrato, picchietta la sigaretta con l’indice sinistro. Forse un timore: la brace potrebbe cadere accanto al posacenere, non se ne accorgerebbe subito, darebbe un tiro alla cicca spenta, qualche cosa prenderebbe fuoco, un odore di bruciato: sarebbe il segnale.
*
35, 37 anni. La fronte alta, i capelli corti ma non troppo, le orecchie scoperte. Un principio di calvizie crea un golfo di pelle che risale leggermente verso la sommità del cranio, dal lato della riga poco marcata. Il corpo asciutto, muscoloso ma non troppo. Niente pancia. Una cicatrice vicino all’occhio sinistro. È lì che è scivolato il proiettile? È vero, quel suicidio mancato? Il fatto è che ha anche perduto il gusto. Al nostro primo incontro, in una pizzeria, ha chiesto il peperoncino al cameriere, e ha fatto del cerchio di pasta una sfera di fuoco che mi ha bruciato le labbra. Mi ha detto che faceva il professore. Aveva bisogno di qualcuno per accompagnarlo. Aveva sempre viaggiato e non aveva voluto cambiare le sue abitudini, dopo. Ha parlato di un incidente in moto. Non ho insistito. Mi ha detto che mi avrebbe pagato il volo, e che avremmo condiviso le altre spese. La partenza era fissata a giugno, dopo i miei esami. Il mio ruolo consisteva nel preparare l’itinerario, condurre l’auto, prestargli la mia spalla e i miei occhi, guidarlo per le strade. Non avevo mai viaggiato, lo conoscevo appena.
*
Strappo le foglie di qat osservando i nostri vicini, sorpreso dall’elasticità delle guance yemenite, la cui sfera può raggiungere la taglia di una palla da golf, a volte più grande ancora. La masticazione rende i muscoli delle nostre mascelle quasi dolenti. Il succo contenuto nelle foglie si mescola al nostro sangue, il suo effetto stimolante e narcotico agisce. Trasformato in una fontana di sudore nella notte fresca della capitale, mi ripete con una voce tra la delusione e lo sgomento che non sente niente. So che questa esperienza conta molto per lui: ha vagheggiato da tempo il viaggio nella linfa tanto quanto l’altro. Io, il corpo arrotolato in un vano d’estasi, circolo in una rete di immagini: Rimbaud, la regina di Saba, gli anonimi incrociati il giorno per strada, quei bambini che studiano il Corano seduti a terra in una corte disseminata di pezzi di ricambio d’auto, mentre i loro compagni giocano al cerchio con le ruote di bicicletta senza raggi, sotto un sole di piombo.
*
L’acqua gli arriva al petto. È già lontano. Il livello del mare scende lentamente. Mi ha chiesto di lasciarlo andare da solo. È la prima volta che mi parla con questo tono perentorio. Adesso, l’acqua è a metà coscia. Si direbbe che il fondo sabbioso esiti tra superficie e profondità, oscilli tra due stati contraddittori, come questo sole che si rifiuta di tramontare ed eternizza la sua scomparsa, tingendo l’orizzonte del suo oro incandescente. Per tutto il giorno abbiamo costeggiato il Mar Rosso alla ricerca del moka originale, di cui abbiamo bevuto un residuo fetido nel labirinto in rovina della città eponima, oppressa dal calore. Come si orienta? Nessun vento, nessuna onda, nessuna strada per formare una barriera sonora a partire da cui potrebbe costruire una traiettoria ad angolo retto. Una forma arrotondata tra le mani, la testa inclinata verso il misterioso oggetto. Di sicuro una conchiglia. E se fosse venuto qui per farla finita? L’acqua invece del fuoco, con un compagno invece che da solo. Che dire alla sua famiglia? L’ho guardato senza reagire, obbedendo stupidamente alla sua domanda funesta. Unisco le mani in un imbuto: non mi sente. Mi dirigo verso la 4×4: il suono debole e nasale del clacson. L’acqua gli arriva alla nuca. Sa nuotare? D’un tratto, il suo corpo si solleva di nuovo, la sua sagoma leggermente curva avanza di profilo, a ombra cinese, come se camminasse sull’acqua. No, non vuole morire. Soltanto provare il superamento dei suoi limiti, sperimentare i suoi confini. Camminare nel mare.
*
L’alfabeto cangiante dei rumori baratta incessantemente la sua rete di significati misteriosi. A volte mi interroga. Spesso tace e si accontenta di ascoltare. Il vinile che scricchiola sul giradischi del mercante diventa un falò dalle fiamme crepitanti. Mi presta il dono della doppia vista, punteggia ogni più piccolo successo con una lusinga, sempre la stessa: «Sei proprio un mago». Non è difficile leggere una mappa, una guida, una direzione su un cartello. Il mio senso dell’orientamento vale disorientamento. Questo provoca a volte delle felici coincidenze, in questa Arabia che veniva definita, un tempo, felice.
*
Nient’altro che quello che so già di non sapere: una scivolata in moto che rimanderebbe all’immagine di quel proiettile di revolver che, invece di penetrare all’interno del cranio, sarebbe scivolato sopra al mascellare superiore, distruggendo i suoi occhi, inaugurando l’incessante indovinare delle ombre.
*
Nelle Ardenne, à Roche, madame Rimbaud gode di cattiva reputazione tra i contadini del vicinato. Non è stata forse sorpresa in piena notte mentre spostava i paletti che delimitano le sue terre? Suo figlio Arthur ha scelto un altro modo di allargarsi: non spostare i confini, ma attraversarli. Fare indietreggiare i limiti della lingua, preparare il banchetto delle parole per le generazioni future. Finito questo lavoro, è partito. Sapeva con l’esperienza del camminatore che quello che la poesia non può compiere, lo possono le gambe. Il poeta ne ha perduta una lungo la strada. Ha forse sbagliato ostacolo?
*
Inutile dirgli a sinistra, a destra, sempre dritto: tutte le direzioni si equivalgono, sono possibili. Sul suo viso, il godimento che gli procura la vibrazione meccanica che ci fa avanzare. Mette la quarta, viaggiamo a cento chilometri l’ora. Questa sensazione, la aspetta da sempre, la ricerca fin dentro i propri sogni, dove si rivede a volte sul suo motore lanciato a tutta velocità, le mani incollate al manubrio, il torso appiattito contro il serbatoio, consustanziale alla sua potenza. A quanto siamo? Sempre, vuole sapere, non vuole sapere che questo: e adesso, a quanto siamo? Ho voglia di rispondergli: siamo ancora? Filiamo alla velocità della scomparsa su questa lingua di sale lungo il Mar Rosso, dove le figure del mondo si spengono, le loro forme raggiunte dall’indistinto.
***
Disegno di Florence Manlik.
*
Gilles Weinzaepflen vive a Parigi. È musicista, poeta e regista.
Il suo sito web: www.gillesweinzaepflen.com
bravo Gilles e brava Alessandra (che poi per me questo libro nella sua sfacciata destrutturazione è un crescendo, questo è l’antipasto)