Scuola di ballo
di Paolo Codazzi
Mostratemi qualcuno sano di mente e lo curerò per voi…
Carl Gustav Jung
Non avrei mai immaginato che all’estrema periferia della città, dove fino a pochi anni fa la piana s’imputridiva in maleodoranti acquitrini infestati da varie specie di insetti, involontari portantini di organismi patogeni, e dove l’uomo si guardava bene dall’avventurarsi, salvo alcuni pescatori di anguille e cacciatori di volatici endemici a quell’ecosistema (definizione di recente attribuzione, prima il luogo veniva genericamente denominato pantanaio), e dove ora si addensano numerosi alveari umani in un reticolato cicatrizzato di erba ingiallita, non avrei mai immaginato, appunto, che in quel luogo ci fosse una bella villa seicentesca: residenza per secoli di un casato nobiliare discendente da un ramo inferiore dei Medici, al centro di un esteso e suggestivo parco qualificato dalla presenza di esemplari secolari di monumentali alberi sui lati di stagni punteggiati di ninfee, dove il fervore dei naturalisti ha raccomandato la restituzione della palude che un tempo infettava tutta la piana, allora guardata con ostilità anche per le malattie di cui era incubatrice, oggi con il rimpianto di un ambiente ormai del tutto estinto escluso quei tre laghetti sulle cui sponde cartelli didattici indicano le specie di flora e fauna che ancora sopravvivono in quell’estensione piuttosto ampia di alberi, campi infiorati, laghetti sui quali è pure possibile noleggiare una barchetta per romantiche crociere.
In uno dei grandi prati che interrompono la vegetazione e l’area riproducente il nostalgico acquitrino e dove il sole cominciava a distendersi giocando sui riflessi dell’erba ancora umida della brina notturna, vi erano due tende di quelle da campeggiatori, separate da un tavolo su cui era appoggiato un potente amplificatore per la diffusione della musica: simile a quelli che a volte si notano sulle spalle di giovani schiamazzanti negli stretti e rimbombanti borghi cittadini e che infastidiscono le stanche pietre superstiti alla furia degli uomini. Un emiciclo di sedie, non tutte occupate dai pochi spettatori, si raccoglievano attorno ad un improvvisato palcoscenico formato dalle tende e dal tavolo e, sedute in ordine sparso, alcune coppie abbigliate in modo stravagante con abiti di un recente passato: immobili, variopinte porcellane di Capodimonte, attendendo il via del maestro, presumibilmente di ballo, che appoggiato al tavolino, prima suggeriva alcune indicazioni sulle figure da eseguire (e ciò esemplificando con ampie e rotatorie evoluzioni delle braccia), poi detonava l’impianto e la musica irrorava il luogo facendo scattare le coppie in volteggi armonici di ballo classico in un delirio di colori simile ad un caleidoscopio animato sullo sfondo del verde risvegliato dal sole.
Quasi subito il maestro interrompeva la musica e urlando, ma sorridendo, suggeriva movimenti mimandoli con il suo aggraziato corpo, correggendo quelli che difettavano della necessaria perfezione secondo canoni codificati di ogni particolare ballo classico. Era più il tempo dell’attesa che non quello in cui lo spettatore poteva dilettare lo sguardo e l’udito con la grazia e l’armonia della musica e del ballo, ma nonostante questo gli spettatori assistevano immobili ed attenti rapiti dallo spettacolo cui erano partecipi, senza nascondere nei malcelati brevi commenti, improvvise esclamazioni, un desiderio latente del quale non avevano mai avvertito la necessità.
Mi soffermai a osservare una grande acacia di fianco ad un cipresso calvo e lessi attentamente le schede didascaliche che diligentemente dettagliavano la morfologia della pianta, l’epoca di origine e le zone della terra nelle quali attecchiva spontaneamente. Poco oltre questo gruppo di alberi secolari, quasi quattro secoli fin dalla costruzione della villa che il marchese volle in quel luogo come tributo alla passione per la caccia ai volatili, ma che pretese circondata da un’oasi verde emulando le grandi dimore che nel periodo venivano costruite per le varie e intrecciate nobiltà europee, notai alcuni uccelli acquatici giocherellanti tra loro con grandi e improvvisi balzi nell’acqua stagnante del laghetto vivacizzata dagli spruzzi dei loro svolazzi: ignari di una grande biscia che in agguato attorcigliata ad un sasso nei pressi della riva opposta del laghetto attendeva che una preda fosse alla portata della sua aggressività. Era il segnale, seppure in una progettata cattività, di una irreversibile primordialità di lotta per la sopravvivenza come del resto siamo usi vedere nei molti documentari sulle savane africane che la televisione trasmette in continuazione, quasi ad emendare le colpe dell’uomo di fronte al grande merito dell’umanità nell’aver abbandonato simili meccanismi di sopravvivenza: o comunque di averli depurati della cruda evidenza.
La musica crepitò di nuovo chiassosa, con note di un celebre tango che il maestro ballò da solo per mostrare agli allievi movimenti e ritmi adeguati alla grazia della musica: sembrava che volasse tanto le gambe si levavano da terra e vi ritornavano con la leggerezza sicura di un volatile: non certo quelli che avevo notato nel laghetto che al deflagrare delle prime note schiamazzarono dall’acqua in uno volo sguaiato e chiassoso che peraltro li salvò dalla biscia in agguato.
Una giovane e graziosa ragazza si alzò dalla sedia e raggiunse il maestro al centro dell’improvvisata pista da ballo e, unendosi a lui nel tango con la medesima leggerezza, insieme completarono tutta l’aria musicale tra gli applausi degli altri e del sottoscritto che in quell’applauso concentrava la delusione, mai risolta, di non saper ballare, pur avendolo sempre desiderato. Infatti non ero mai riuscito a trovare l’accordo con la danza e le codificate movenze di ogni particolare ballo classico, il ballo era sempre stato un meschino espediente per appoggiare il corpo a quello di una donna preoccupandomi soltanto delle sensazioni suscitate dal contatto e disinteressandomi dell’armonia gestuale e di come questa dovesse conciliarsi alle musica. Non avevo mai imparato a ballare, nel senso tecnico del termine, così come non sapevo cantare, così come non sapevo fischiare: un vuoto esistenziale, un buco nero nella personalità che ancorché non grave, e che per molti altri non avrebbe davvero costituito preoccupazione, mi opprimeva da sempre con un senso di incompiutezza, di inabilità alla vita: forse alla stessa maniera con cui l’uomo manca il volo possibile a tante altre specie animali.
Quasi che avesse improvvisamente colto le mie riflessioni, un uomo si alzò dalla sedia iniziando a cantare con una voce bellissima e un’intonazione coerente con la musica, incoraggiato dal maestro che sorridendogli e incentivando la velocità delle evoluzioni quasi l’obbligò a continuare nel melodioso canto che zittì il sorpreso brusio degli spettatori. Un’altra giovane e graziosa ragazza si alzò e guardando oltre la mia testa, verso gli alberi più alti, cominciò a fischiare facendo da controcanto al felice canto dell’uomo: La musica, il canto, il fischio in controcanto, si fusero in raffinata melodia che difficilmente si può avere l’opportunità di udire e che consentiva al maestro visibilmente soddisfatto e all’allieva sorridente di felicità, di scivolare, svolazzare sull’erba umida appena mossa da una leggera brezza nel frattempo fusasi all’insieme.
Tutto questo continuò per circa un’ora tra l’evidente soddisfazione di tutti, rendendomi gioioso per l’opportunità del luogo che non conoscevo, per la sorpresa della musica e del ballo che in vita mia non avevo mai visto eseguire in maniera tanto perfetta e, soprattutto, senza cagionarmi rimpianti di alcun genere per non saper ballare, cantare e fischiare; vivevo una felicità oggettiva che s’inseriva nel mio umore ed era come se anch’io in quel momento sapessi cantare, ballare e fischiare… Infatti, mentre un autobus infranse l’armonia del luogo con la rumorosa manovra d’accosto al marciapiede fuori del parco, e lo intravidi da una smagliatura tra le piante, corsi a passo di danza sul prato seguito da un’altra giovane e attraente ragazza che si alzò correndo verso di me e abbracciandomi nella guida di un tango che figurai in modo straordinario non avendo mai sospettato di poterci riuscire; istintivamente cominciai a cantare il motivo della canzone con un’intonazione sorprendente, ma la sorpresa maggiore fu socchiudere le labbra in un armonioso fischio che si unì al controcanto dell’altra ragazza: tutti applaudirono il maestro, le ragazze, il cantante e il sottoscritto per la grande rappresentazione di musicalità e armonia che offrivamo al pubblico nel frattempo gonfiatosi di altri spettatori. E anche numerosi bambini gioiosi applaudirono nella soddisfazione delle madri, tentando di imitare le figure di quel memorabile ballo sull’erba di un prato ancora bagnato per la brina della notte.
Alla fine del motivo il maestro si staccò dalla ragazza baciandola affettuosamente sulle guance, cosa che anch’io feci staccandomi dalla compagna di ballo, e richiamò tutto il gruppo indicando l’orologio al polso verso un qualche ritardo.
Si raggrupparono raccogliendo le proprie cose e salutando i presenti, con gesti plateali delle braccia, si diressero verso l’uscita del parco dove un capannello di anziani leggeva e commentava ad alta voce le apocalittiche notizie dei quotidiani. L’autobus era per loro, vi salirono ordinatamente sempre nel brusio di una grande felicità, e il rumoroso automezzo ripartì sfiammando una nuvola di fumo e offrendosi per un attimo in tutta la sua interezza tra il diradarsi degli alberi lungo il perimetro del parco: Centro Riabilitazione Psichiatrica e Medicina della Mente, era scritto in caratteri cubitali sulla fiancata al di sotto dei finestrini dai quali salutavano i membri della Scuola di Ballo.
NdR: l’immagine: Flores Balbuena, senza titolo, Collezione Museo del Barro, Assunción