Cinema e Pandemia: diario sfilacciato di una nuova immagine
di Mario Blaconà
Ashes, Apichatpong Weerasethakul
“Fino a ora abbiamo detto, da un punto di vista storico, che esistono due tipi di registi nel mondo: quelli che sono stati in guerra e quelli che non ci sono stati. La diversa esperienza porta a una diversa comprensione della natura umana e della società. Forse, tra molti anni, potremmo dire: ci sono due tipi di registi nel mondo, quelli che hanno vissuto la pandemia COVID-19 e quelli che non l’hanno vissuta. (…)
In questi giorni ho realizzato un cortometraggio commissionato dal Salonicco International Film Festival. Era un’opera in isolamento, intitolata Visit, filmata con un telefono cellulare. Dura solo 3 minuti, una storia banale nei giorni della pandemia. Quando ho guardato di nuovo il mondo attraverso la cornice della telecamera, mi sentivo come un bambino che impara ad alzarsi e camminare – difficile, ma allo stesso tempo emozionante.
Mi ha fatto pensare che dovremmo resistere a questa pandemia, continuando a camminare per il bene del tempo che abbiamo vissuto, per affrontare il mondo onestamente e con coraggio. Spero che potremmo tornare presto al cinema, seduti insieme, spalla a spalla.
Questo è il gesto più bello dell’umanità.”
Jia Zhangke
“Un film è un viaggio. Ci spinge verso diversi punti drammatici. Lungo la strada per questi punti ci sono riempitivi che funzionano come mini-destinazioni. Più un cineasta riempie il percorso senza soluzione di continuità e fa dimenticare al pubblico il tempo, più si avvicina all’ “arte” del cinema. Al centro, il cliente, il truccatore, il boomman, il team di illuminazione, il montatore, il musicista e così via, lavorano tutti duramente per portare il pubblico verso queste destinazioni.
A differenza di un film, la destinazione di questo viaggio Covid-19 è vaga. A differenza di un viaggio, non ci stiamo muovendo. Molti di noi rimangono nelle nostre case. Guardiamo fuori dalle nostre finestre verso lo stesso panorama e … continuiamo a guardare.
Sentiamo la vulnerabilità della nostra mente e del nostro corpo. Siamo a conoscenza dei nostri orologi: interni ed esterni. (…)
Dopo aver sconfitto il virus, quando l’industria cinematografica si sarà destata dal suo stupore, questo nuovo gruppo, come gli spettatori, non vorrà intraprendere lo stesso vecchio viaggio cinematografico. Avrà appreso l’arte di guardare: dai vicini, ai tetti, agli schermi dei computer. Si sarà allenato grazie a innumerevoli videochiamate con gli amici, grazie a cene di gruppo catturate con un angolo di ripresa continuo. Avrà bisogno di un cinema più vicino alla vita reale, in tempo reale. Vorranno il cinema dell’Ora, che non possiede riempitivi né destinazioni. (…)
Un Covid-19 Cinema Manifesto (CCM) verrebbe redatto per il cinema con il fine di liberarsi dalla sua struttura e dal suo viaggio.”
Apichatpong Weerasethakul
Una spinta, che potremmo chiamare emergenza di immaginazione, respira in ogni parola impressa su questi estratti presi da due lettere, inviate da Jia Zhangke e Apichatpong Weerasethakul al magazine tedesco Film Krant. Non l’impulso maggioritario di “ritorno alla normalità”, di voglia di amnesia che annega le responsabilità, quanto un’occasione, quella di questa stasi, di ribaltare lo sguardo da parte di chi crea, ma anche, e simultaneamente, da parte di chi guarda.
Non siamo di fronte a un proposito che unisce la visione a un’azione programmatica, a un dictat morale che usa l’arte come canovaccio, quanto piuttosto a uno spronare gioioso rivolto agli spettatori e ai cineasti, per diventare coscienti di costituire un’unica entità, oltre la politica degli autori e oltre le divisioni di genere. Nello specifico proprio le parole di Apichatpong fondano la loro ragione su una rivoluzione che possa liberare, quasi pasolinianamente, il cinema dal cinema, l’arte dallo spettacolo e dalla sua endemica e pervasiva dislocazione in ogni aspetto del presente, con specifico riferimento alla velocità. L’osservazione del reale che confluisce nella sua estensione ontologica, per conservare sincerità oltre il suo addolcimento e il suo consumo, potrebbe in futuro compiersi a prescindere dalla durata delle inquadrature, contro il rifiuto della contemplatività, in cui per altro ci siamo trovati a vivere in questi mesi, e smettendo di ricercare spasmodicamente il ritmo in ogni frame.
Lungo questo confine dell’umano non umano, della cosa e dell’immagine della cosa, Carlo Righetti su Officine Filosofiche sembra fornire una risposta alla domanda riguardo al rapporto tra umanità e immagine, nella crisi pandemica di quello spettacolo teorizzato da Debord cinquantatre anni fa.
“Il virus che porta lo spettacolo all’estremo, lo mette in conflitto con se stesso. Lo spettatore cerca dallo spettacolo le stesse risposte rassicuranti che ottiene normalmente dalla sua messa in scena , ma non le ritrova. (…) La società spettacolare ha raggiunto ogni luogo accessibile e inaccessibile. Si è fatta interna al nostro sguardo così come alle nostre parole e ai nostri pensieri. Non solo quindi non si può più essere realmente una minaccia per nessun regime al punto da esserne esclusi, ma il regime si è installato in noi, abita le nostre tasche, condivide le nostre mutande, riprende in streaming ogni nostro movimento perché lo condiziona secondo il messaggio trasmesso. Chi se ne crede fuori non recita che la parte dell’escluso senza poterlo veramente essere. Ma se questa è la condizione dello spettacolo, una condizione in cui ogni alterità è sempre allo stesso tempo il medesimo e l’occhio vigile del suo guardiano, è solo l’avvento di un’alterità effettivamente imprevedibile e imprevista che avrebbe allora il potere di spezzare questo incantesimo spettacolare: di incrinare il gioco degli specchi, il miraggio delle merci insieme al loro riflesso desiderante, il codice unico di funzionamento dello spettacolo generale.”
Una dislocazione nata da un’immagine-merce che brucia, la cenere come traccia di un fuoco fatuo, più autentica delle fioche scintille da cui proviene. L’auspicio di una liberazione da un immaginario stantio e sempre uguale e se stesso, perché figlio della società reazionaria del “no alternative” tatcheriano, trova davanti a sé un vuoto come conseguenza del virus che, utopisticamente o forse no, vorrebbe sorpassare finalmente l’illusione di vivere dentro un contenente, in questo caso un’immagine cinematografica, seriale, video, che vuole distruggersi per poi rinascere: morti i vecchi miti, cessare di produrre come se ancora ci fossero.
Una rinascita sfilacciata, quella di questi mesi, che ci ha portato a entrare più in contatto con l’immagine-movimento e l’immagine-tempo, ma per la prima volta nella storia dell’Occidente contemporaneo la nostra vita diventava costantemente più lenta della sua estensione. Il paragone obbligatorio quindi ci porterebbe a pensare che il cinema, abolita definitivamente l’alleanza con lo spettacolo, possa una volta per tutte compiersi come un paradosso (παρά- δόξα: al di là dell’opinione), altro dalla narrazione, ma vicino ai corpi, e allo stesso tempo mosso da quella sottile differenza che prende atto del non poter arrivare veramente a un’origine, ma che nella sua ricerca compie tutto se stesso.
Un nuovo corso che si compie tornando alla premessa di Jia Zhangke, osservando e riproducendo sgombri dal proprio passato, come eterni bambini che imparano di nuovo a camminare, unendo e non dividendo artisti da pubblico, rendendo la creazione di un’immagine (e del suo κίνημα) un’esigenza di ognuno, riprendendo i boschi in cui poi si abbandonano i film, come nelle pellicole sottoesposte del filmmaker neozelandese SJ. Ramir (In This Valley of Respite, My Last Breath…, Departure, Man Alone), mancanti di soggetto e rinate come evento, rifutandosi di indicizzare il proprio sguardo sulla narrazione come contenuto.
Abolire l’arborescenza per una visione più rizomatica dell’audiovisivo, speranza per un nuovo manifesto di intenti, realtà che rimarrà forse sogno, ma le cui basi sono state, nella catastrofe, tracciate dal sacrificio.