Damnatio Memoriae
di Samir Galal Mohamed
Ti riscaldi con le parole dei poveri
nei secoli dei secoli. Nel pieno di
un silenzio pieno risorgi e palpiti e
io brillo: tu dall’incarnato borghese,
io dal sudore speziato.
***
Lascerei il mio corpo per un corpo
nuovo, per una voce nuova: sarei così,
di nuovo, più vicino al linguaggio dell’essere
prossimi all’origine – occhi nuovi; pochi anni
dal principio mi separerebbero. Sarei più sapiente
che filosofo. Avrei gli occhi di una scienza perfetta,
le mani piccole e i piedi piccoli piccoli.
Mio figlio sarei io: che muoio da filosofo, ero già
sapiente.
***
A un maestro
a Franco Buffoni
Io l’ho detto,
pronosticato:
il poeta del ventunesimo secolo
sarà figlio di lavavetri. O di chi
paghiamo per pulire. (Se)
avrà frequentato un buon liceo,
sarà figlio nostro – a metà;
si farà maestro,
sì: sarà satollo.
Queste ciocche mulatte
ci divoreranno.
***
Tra un millennio
o tra qualche
questa sfera si somiglierà
non sembrerà altri che se stessa
non avremo nessun altro luogo
significheranno tutti allo stesso modo
i piani
le regioni
gli arcipelaghi
i paesaggi
i grattacieli
le chiese
le macchie:
vi circolerà il medesimo senso
l’interdizione del senso
il dettato sarà taciuto
ogni voce, di ogni spazio e di ogni tempo
tra qualche millennio
resterà inascoltata.
***
Dalla casa di famiglia
Dalla casa di famiglia in cui siamo tutti morti,
la sola in cui io riesca ancora a riposare,
separata com’è dai fatti del mondo.
Percorro il paese nel tempo di questa poesia:
coglierlo in volo sub specie aeternitatis,
trovare ristoro nelle particole non consacrate.
***
Le regole di ingaggio non sono mai chiare
Le regole di ingaggio non sono mai chiare.
Un tradimento, un abuso, un pestaggio…
Un focolaio di essere umani – rilevati dai radar.
L’incendio di una tendopoli – rivela il nome comune
di un luogo. Se le regole di ingaggio non ci sono mai
chiare, queste, al contrario, risultano arcinote.
Un silenzio, un sequestro, uno sgombero…
L’infinito movimento di un corpo-lince che si smarca,
che è complementare a un movimento finito e “segugio”.
Quando stringo fra le braccia questo torace, tanto minuto
quanto vulnerabile, cerco di non guardarlo negli occhi.
Non voglio che veda il mio male, che vi riconosca
delle prove, che ne intuisca alcuna profondità.
Non perché il mio male sia speciale o abbia qualcosa in più
di un altro. Semplicemente, non voglio che ne veda ancora.
Dovrà fare i conti con vecchie e nuove regole di ingaggio.
Con l’abisso della non decisione per eccellenza.
Con la possibilità di divenire umano, di venire meno
all’umanità, di divenire qualcosa in meno dell’umano.
Occorrerà il rischio di divenire altro: altro per cui
sarà valsa la pena lasciarsi guardare, negli occhi,
da tutto quel male.
***
Presa di coscienza sulla natura
I solchi nella terra sono baratri. Dirupi, tra i blocchi. Camere mortuarie sgretolate dal sole. Un aereo piper sorvola le piaghe dei campi inclinati, inermi, intensamente mortificati.
Una barra falciante recide le dita dalla mano di un vecchio: la procedura è chirurgica, promiscua quanto un’esperienza iniziatica. La mano è monca orgogliosamente.
La sera, la terra sembra un mare, tiepido, docile, rassicurante; cumuli e incavi, le onde. A turno, il mare e la terra si contendono la conta dei morti. In questo, la terra è più accorta: i suoi corpi non riaffiorano. I suoi corpi non si avvistano.
I testi sono tratti da: Samir Galal Mohamed, Damnatio Memoriae (Interlinea 2020)
Grande Samir, un saluto.