Parlando di poetiche – cioè, al momento, di quasi nulla
di Daniele Ventre
L’oscillazione pendolare fra sperimentalismo di rottura e ritorno all’intimismo e alle forme ricompattate, fra impegno e gioco, era già in atto nei novissimi e nel gruppo ’63. Oggi, fra scritture non assertive (o se si vuole di ricerca) e nuovi vecchi lirici (o se si vuole, tradizione), e poeti giocosi (o se si vuole, il caos), assistiamo a un permanere scisso dei novissimi e del gruppo ’63, con qualche inserzione di neo-dada (asemantici & affini), meno il potere accademico (salvo qualche caso) e meno i quadri del partito di massa (storicamente defunto). Dal punto di vista della ricezione, i meglio messi sul piano della canonicità potenziale sono quelli vicini a centri editoriali e mediali. Qualcuno dei neo-novissimi, dei primipili non assertivi e dei neo-neo-lirici, ovviamente, spicca per coerenza e competenza. Ma in ultima analisi, tutta la gamma dello xilofono poetico (l’immagine trita della tastiera stilistica suona troppo hi-tech), va dall’incomprensibilità del conestabile di Much Ado for Nothing (mai titolo citato fu più congruo) “uomo troppo profondo per lasciarsi capire”, ai baci Perugina (influencer inclusa/o). Una frangia parzialmente nuova si riconosce nella frattura epistemica di un Emilio Villa o per altri versi (è il caso di dirlo) nel gruppo ’93 (rimasto spesso inascoltato, e nato nel contrasto violento), nella poesia a vario titolo militante e nella poesia della scienza (volutamente riecheggio la locuzione “filosofia della scienza”); ma siccome tutta questa frangia, vuoi per i contenuti, vuoi per le forme, vuoi per la performance, ha connotati di novità (chi è periferico, è più libero), appunto per questo in sede pseudo-canonica rimane sostanzialmente inascoltata, al di là degli omaggi esteriori, e di convenienza momentanea. Poi ci sono i selvaggi, ma è un fenomeno più antico di quanto si creda (basta guardare i graffiti di Pompei, o leggere la satira I, 9 di Orazio, o la prima satira di Persio o la satira I,1 di Giovenale, sempre che non ne vogliamo vedere l’antesignano nei frammenti del Margite pseudo-omerico). Certo, c’è anche l’Outsider, il monstrum, che ogni tanto compare dal buio, ad abbrancare qualche compagno del re o qualche fittavolo; talora lo affronta un presunto eroe critico, ma ne esce divorato a sua volta, ed è subito riedizione spicciola del dramma di Beowulf e il drago, che muoiono entrambi, uno di figuraccia da sottovalutazione, l’altro di understatement o di conventio ad excludendum, anche perché i monstra, si sa, hanno un brutto carattere. Il tutto, in senso lato, è un coacervo neo-baconiano di idola specus, idola tribus, idola fori e idola theatri. Io aggiungerei anche, di idola speculi, fra narcisismo e cristalli spezzati -e nel caso di un noto esponente para-leghista e di un noto critico obituario intento a stilare referti di morte e a dire che la poesia annoia (tanto per fare due esempi vieti), di notte dei cristalli, per vitrea fracta et somniorum interpretamenta. Ma sono già stato abbastanza cattivo, o forse non abbastanza. Diciamo in modo più chiaro che: primo, un minimo di aria fresca in prospettiva storica tutto-abbracciante, fuori dalle officine della specializzazione di nicchia letteraria, farebbe focalizzare meglio ciò che tutti già sanno, che il nuovo è inesistente, anche sul piano della forma, nonostante lo ψελλíζειν e le esternazioni di un poeta admodum vinosus in trasferta partenopea dal basso lazio costiero qualche tempo fa; secondo, per conseguenza, il bagno di umiltà e di coscienza renderebbe tutti (in specie gli isterici, gli arrabbiati, le ineducande e gli ineducandi) un po’ meno supponenti, un po’ meno odiosi, un po’ meno fatui. Per il resto, la distinzione è fra pseudo-canone della visibilità (accademica, mediale, internautica: pauci interest) e para-canone, sia visibile sia sommerso. Nessuno se n’abbia a male, ma è oggettivamente così.