Il sistema del tatto
di Alejandra Costamagna
Avrebbe dovuto farlo tanti anni fa, pensa Agustín. Quando aveva trovato sua madre stesa sul letto, con la bava alla bocca, lo sguardo perso e il boccettino vuoto sul comodino. Quando Aroldo era andato a consegnare il lievito a certi clienti fuori Campana. Quando non c’era nessuno in casa e aveva dovuto chiamare un’ambulanza e aiutare a caricarla e vedere come la portavano via e raccogliere un paio di arance da terra per inerzia, solo per fare qualcosa che lo distraesse, e andare a chiudersi in camera a battere a macchina solo per battere a macchina, come se i tasti fossero pallottole che potevano perforargli il petto. Prendere il manuale dell’emigrante o qualunque altro documento dal baule di sua madre e battere a macchina. Colpire qualcosa con le dita, lasciare una traccia, lettere come proiettili. Copiare frammenti del manuale di dattilografia o parole isolate, in mancanza di meglio. Viaggiatori, rabbia, bravo, cavare. E l’arrivo di Aroldo e cos’è successo a Nelida, che cos’hai fatto a tua madre, e il ricovero in ospedale e il divieto di farle visita e le giornate da solo con suo padre, la casa non ventilata, le persiane chiuse, la radio che parlava per nessuno, la cucina un deserto, la cannuccia del mate come unico contatto fra loro, due fantasmi senza nessuno a cui manifestarsi, spettri del presente senza un passato di cui inorgoglirsi o un futuro da venire ad annunciare, e finalmente andare a farle visita in qualità di apparizioni e accorgersi che la mente della donna si è riempita di pelucchi di polvere che la stanno consumando; è polvere viva e affamata che le tritura la mente, la chiude in sé stessa, tanto che il mondo di fuori alla fine è molto meno pericoloso, Tinito, di questi pensieri ormai senza freni di tua madre. Il medico aveva consigliato di lasciarla andare in Italia, a trovare i suoi genitori. Questo poteva guarirla, aveva aggiunto con un’espressione dubitativa. Aroldo non voleva, caso mai le sue origini la inghiottissero e non si potesse più recuperarla. Ma aveva finito per cedere. Avevano venduto dei mobili, avevano chiesto dei soldi in prestito ai parenti, si erano indebitati con tutti fino a mettere insieme una somma sufficiente per il biglietto aereo. Agustín si era accorto che prima della partenza sua madre ritrovava l’entusiasmo: si era cucita dei vestiti nuovi, aveva fatto riparare gli occhiali, era perfino meno strabica. E poi aveva mandato cartoline dall’Italia, fotografie con i suoi, con sua sorella, con il cognato, con i nipoti vivi (non un accenno al nipote morto davanti a lei, tanti anni prima). Avrebbe dovuto risponderle, pensa Agustín, obbligarla a rimanere là. In qualità di unico figlio io ti obbligo, ti ordino, ti supplico di non tornare in questa terra che non è la tua. Lasciarla libera, questo avrebbe dovuto fare. Un’immagine in bianco e nero che non gli si cancella dalla mente: sua madre con una chitarra in mano, raggiante come se dovessero incoronarla il giorno dopo. Dietro la foto, un messaggio nella sua calligrafia rotonda, perfetta: «Questa è la tua mamma con i capelli corti e la chitarra. Ho già sentito tanti dischi di Elvis Presley». Sorrideva troppo, pensa Agustín, esagerava una felicità nuova. Come se non esistesse il rancore. Come se di colpo avesse deciso di rinascere e di non rinfacciare più nulla; di diventare la persona che avrebbe sempre dovuto essere; di non venire in America, di non sposarsi, di non avere lui, Agustín. Quell’immagine gli si era conficcata come un paletto nel cuore. E non gli si cancella dalla mente l’impressione di quando l’aveva vista tornare. Era diversa: adesso era una donna che aveva visto suo padre. Ma era stata una specie di parentesi nella sua mente già malridotta. Pochi mesi dopo aveva ricominciato a perdersi e ad affondare sempre più in un mondo al quale solo lei aveva accesso. Sua madre non era più sua madre e nessuno poteva riportarla indietro. Qualcuno se l’era presa, Agustín lo aveva capito allora. E pensò di aver avuto qualche responsabilità. Forse quel giorno suo padre non si era sbagliato. Che cosa aveva fatto? Che cosa diavolo aveva fatto a Nelida fin da quando era nato? Forse se quella mattina non l’avesse consegnata ai medici, ma al capitano di una nave che la portasse lontano da Campana via fiume, per sempre. Forse se avesse organizzato una fuga di nascosto. Ma come poteva fare, se non sapeva guidare nemmeno una moto? Avrebbe potuto portarla via con la bici di Gariglio, un figlio che fugge pedalando con sua madre sulla canna. O forse non era stato lui a farla uscire di testa, ma suo padre e sua madre tanti anni prima. Mandandola a forza in queste terre quando aveva poco più di vent’anni, obbligandola praticamente a sposare Aroldo, suo cugino di secondo grado, l’unico scapolo della famiglia. Un uomo giovane, non molto bello, dicevano, ma giovane e disposto a sposare quella ragazza del suo stesso sangue. Volevano salvarla e l’avevano condannata, invece. Adesso Agustín avrebbe bisogno di parlarne con qualcuno, ma con chi? Avrebbe bisogno che qualcuno gli spiegasse l’origine della disgrazia.
NdR: questo passo è tratto, per gentile concessione dell’editore, dal romanzo della scrittrice cilena, di origini argentine, e prima ancora piemontesi, Alejandra Costamagna, “Il sistema del tatto” (“El sistema del tacto”, Anagrama, 2018), pubblicato ora da Edicola Ediciones, nella traduzione di Maria Nicola.