Sonia Caporossi – Taccuino dell’urlo (Marco Saya Edizioni 2020)
Prefazione di Maria Grazia Calandrone
La scrittura di Sonia Caporossi è mossa dalla necessità di comprendere filosoficamente il mondo, che si dà silenzioso nei suoi nessi, lasciando a noi il compito di decifrare la mappa di una realtà fatta di persone e cose che si muovono (e vengono mosse) stando in relazione.
Uno dei modi possibili di interpretare la realtà è infatti seguire il filo di una relazione, come nel caso di questo Taccuino, un segugio di parole sensoriali tenute a terra, a fiutare le tracce di un rapporto che disorienta, perché procede per contrasti e contraddizioni, non fornisce la bussola per orientarsi nella solitudine del mondo. Anzi, confonde, mente, lascia ancora più soli, continuamente abbandona.
Lo scarto tra ciò che esiste e quello che invece potrebbe essere, la distanza inguaribile tra desiderio e risultato, ci rende la misura dell’errore. E allora, anche la lingua con la quale la relazione racconta sé stessa deve simulare il disordine della ferita, il dolore che scaglia fuori da sé, mentre l’amore ci terrebbe saldi e sicuri al centro di noi, ci farebbe lettori intelligenti del mondo.
Raccolto dal caos, venuto dal caos, mimetizzato con i crolli improvvisi del cuore e con la confusione e lo scompiglio, il lessico attinge da campi semantici diversi: scienza, critica d’arte, psicoanalisi, cartomanzia, musica e, naturalmente, filosofia.
Caporossi mette in bilico le parole, i suoi versi – spesso frantumati – sono frasi sul punto di spezzarsi e cadere nel verso successivo, più che andare a capo, duplicando i geyser del tutto involontari della memoria, che interrompono la superficie di una dimenticanza desiderata.
L’odore, le parole, le promesse, le rivendicazioni rimaste da fare, vengono infine emesse tutte d’un fiato, in due pagine di flusso di coscienza senza respiro, simili ad appunti presi mentre nel sonno si è premuti dal dolore e non si dorme davvero.
Il protagonista, colui che emette l’urlo, è impegnato nell’opera della dimenticanza, è un operaio della dimenticanza, che si muove tra veglia e stato onirico, perseguitato dai sogni, combattente sul campo di battaglia di lenzuola ormai fredde e infine arbitro di sé stesso, per stare nella bella metafora calcistica conclusiva, che ricorda il quadrato del ring amoroso di Carlo Bordini.
Ma qui si tratta di rettangolo: il rettangolo d’erba dei campi di calcio, il rettangolo del letto. Qui si tratta di un lato più lungo, di un uscire da sé per protendersi verso la menzogna di un altro, che deve essere reciso, potato, amputato, anche con spargimento di sangue, per ritornare interi nel quadrato della propria persona e richiudersi nel fortino dell’io, per il tempo necessario a cicatrizzare, a non volere, a non desiderare, non cercare, non urlare più.
Perché tanto l’amore poi torna.
Maria Grazia Calandrone
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