Il posto di Felìcita

di Melania Ceccarelli

Camminava spedita, i muscoli delle gambe brune e forti in rilievo sotto i corti pantaloncini elasticizzati. Alta, lunghi capelli neri e ricci; il seno fasciato in una maglietta rosa scollata, ingigantito da una gravidanza al quinto mese che portava come se non ci fosse. Camminava dritta, a testa alta, sulla terra rossa polverosa di quella strada alla periferia di Rio Branco, Brasile, una delle città più lontane del mondo.
Aveva vent’anni. Il suo nome, Felìcita.

Non erano ancora le sette quando uscì da casa per andare al Posto de saùde. Da lontano vide la lunga fila di donne in attesa della dottoressa.
Arrivò e si mise in coda senza salutare nessuna. In giro si diceva che fosse superba ma non era vero. Solo, non si faceva avvicinare per orgoglio e timidezza.
L’orgoglio era per la sua fede al dito. Lei era riuscita ad avere un matrimonio in chiesa e il ricevimento, non si era fatta mettere incinta da un ragazzino ubriaco durante una festa. Si era trovata un uomo che l’amava e l’aveva voluta sposare e , dopo, ci aveva fatto due figli.
In pancia aveva il terzo. Non l’aveva voluto ma non erano, quelle, cose di cui parlava con Josè.
Erano quasi le otto, il caldo si faceva sentire e fra pochi minuti la dottoressa avrebbe aperto la porta e loro avrebbero potuto aspettare sedute nella sala d’attesa, invece che in piedi sotto il sole.
La notte precedente Josè aveva invitato i suoi amici più stretti e qualche ragazza nella loro baracca, così lei aveva dovuto preparare churrasco con arroz, fejão e farofa per tutti e servire birra. Due casse ne avevano bevute.
Poi suo marito aveva tirato fuori un po’ di coca.
Era quello il suo mestiere e il motivo per cui aveva molti amici.
Ne avevano presa un po’ tutti e anche lei, ma poca, per via del bambino. Quando Josè tirava lei doveva fare altrettanto. Lui non amava la solitudine, diceva che iniziava a pensare alle cose brutte, alla morte e che invece quando aveva gli amici intorno e un po’ di coca, era il re del mondo.
Felicita aveva dormito solo due ore, ma era abituata.
Quando era uscita di casa aveva lasciato Josè che russava a pancia in su..
Anche i bambini dormivano, quando era uscita: Alma di tre e João di due anni, sdraiati a pancia sotto, con i riccioli appiccicati. Li aveva baciati soffiando loro un po’ d’aria fresca in faccia. Nonostante il caldo loro dormivano perché, come sempre quando c’era una festa, aveva messo un po’ di papavero nel latte che ancora bevevano la sera per evitare che si svegliassero col casino, facendo incazzare Josè che faceva partire manrovesci a caso.
Mentre aspettava il suo turno guardava i poster di bianche donne incinta sorridenti alle pareti e pensava – sognava – di alzarsi e andare via, risalire l’argine e poi continuare a camminare fino oltre il Teatrão e tornare in foresta, dove aveva vissuto da piccola, di inoltrarsi nel profondo, trovare un posto nascosto dove tornare bambina con le scimmie a proteggerla e nutrirla. Dove nessuno mai avrebbe potuto trovarla, mai.
“La prossima” disse una voce. Felìcita entrò.
La dottoressa era molto magra, aveva gli occhiali e gli occhi azzurri come quelli della Madonna. Capelli biondi e lisci e la pelle chiara. Aveva sandali di cuoio, senza tacco, come quelli delle suore. Nella sua vita Felìcita non aveva mai incontrato nessuno più elegante.
Si vergognò immediatamente delle sue cosce forti, dei suoi piedi callosi, dei suoi capelli imbizzarriti. Del suo sesso, spalancato davanti a quello sguardo trasparente. Gli occhi si riempirono di lacrime trattenute.
«Sei fortunata – disse la dottoressa, mentre, dopo la visita, ne annotava i risultati sul Libretto della gravida. – Va tutto bene e sei ancora molto giovane. E’ il terzo questo, vero ?».
«E’ l’ultimo».
«Che ne dice tuo marito?».
«Non lo sa ancora»
«Pensi che sarà d’accordo?»
«Non lo so. Non voglio altri bambini».
«Forse è meglio se glielo fai sapere».
Felìcita si alzò, si rivestì, prese il Libretto, strinse la mano alla dottoressa, da pari a pari, e uscì.
Mentre camminava verso casa si accarezzava distratta la pancia e pensava che mettere al mondo esseri umani non poteva essere l’ unica cosa che sapeva fare.

Ho conosciuto Felìcita il 2 febbraio, martedì.
Avevo aperto l’ambulatorio puntuale, trovando la solita fila di donne – ciabatte, unghie colorate e pance – ad aspettare.
Lei era alta, la pelle color del cioccolato al latte. Erano tutte belle e giovani, mezze nude, le pance esibite con quella naturalezza.
A vent’anni era alla sua terza gravidanza.
A vent’anni io mi ero appena liberata della verginità e passavo il tempo sui libri, coccolata dai miei.
La gravidanza andava bene, non aveva nausee neppure al mattino. Le chiesi se era contenta che tutto andasse bene.
«Sì» disse a mezza voce, poco convinta.

Il giorno dopo, prima delle otto, Felìcita era già con i bambini all’ambulatorio.
La fila delle donne era lunga come quella della mattina precedente. Forse la dottoressa non avrebbe avuto tempo per loro ma lei sedette comunque in sala d’aspetto mentre i bambini rimasero fuori, a giocare sul marciapiede.
Erano le due quando la dottoressa uscì dall’ambulatorio.
Aveva i capelli raccolti sulla testa da una pinza verde e la maglietta bianca lunga fino alle ginocchia. Gli occhi bassi, la valigetta nera nella mano destra, le spalle curve.
Felìcita capì che anche lei portava addosso un peso, qualcosa che non aveva lasciato nel posto da dov’era venuta.
Si avvicinò. «Ciao, tu chi sei?» chiese ad Alma, seduta sul pavimento ai piedi di Felìcita. La bambina aveva la pelle color nocciola e capelli lunghi con soffici ricci spettinati. Rimase timida, in silenzio. La dottoressa la baciò sui capelli, a João non sfuggì il movimento e arrivò di corsa per sedere sulle ginocchia della madre.
«Che fai qua anche oggi ?» chiese lasciandosi andare su una sedia.
«Ho portato i bambini, per farli controllare».
«Stamattina ho avuto un sacco da fare. Li visito domani. Portali presto: verso le sei e mezzo», disse la dottoressa, poi baciò di nuovo i bambini sui capelli, si alzò lenta, sollevò la borsa da terra e uscì.

Il mercoledì uscii dall’ambulatorio sfinita. Avevo visitato dieci donne e sei bambini, ricucito una mano a un falegname e diagnosticato un caso di scabbia
Non la vidi subito ma lei era lì, seduta, con i suoi bambini.
Lei non lo sapeva ma io li conoscevo bene: li avevo osservati spesso mentre giocavano sul marciapiede davanti alla loro baracca.
Voleva che li visitassi ma ebbi solo la forza di prometterle che lo avrei fatto l’indomani, poi salii sul furgone e andai a casa dove, come mi accadeva spesso, mi buttai sotto la doccia senza pranzare.
Mi asciugai e mi stesi sul letto. Luigi rincasava raramente per pranzo, si fermava al centro commerciale con alcuni colleghi. Si stava integrando bene. Per me, invece, era impossibile ricominciare nel pomeriggio senza dormire almeno un’ora. Di integrarmi non avevo il tempo.

A volte Josè portava sua moglie fuori a bere una birra.
Erano di più le volte che andava da solo ma ogni tanto aveva bisogno anche di lei, che si faceva trovare pronta in un attimo.
Quella sera erano usciti insieme, Josè era bello e spendeva un sacco di soldi. Aveva offerto un giro di birra e due o tre ragazze avevano iniziato subito a ballare proprio davanti a lui.
Il bar era pieno quella sera, c’era anche gente altolocata, del governo e alcuni medici bianchi che, seduti ai tavoli, bevevano birra senza ballare e guardavano le ragazze che si davano da fare come pazze sulla pista.
Josè non era uno qualunque e Felìcita aveva il suo posto di donna sposata: seduta accanto a suo marito non ballava e controllava i tentativi di approccio delle ragazze tenendo a bada le fitte di gelosia: avrebbe preferito annegarsi nel fiume piuttosto che mostrarsi gelosa.
Tra i medici bianchi Felìcita riconobbe quello che a volte passava a prendere la dottoressa, quando finiva tardi al Posto. Per un attimo il cuore le batté forte nel petto: se c’era il marito forse c’era anche la dottoressa. A lei sarebbe piaciuto incontrarla lì, per mostrarle che non era solo una stupida ragazzina ma la moglie di un uomo potente. Aspettò tutta la sera ma lei non si vide.

Agli inizi di marzo Felìcita venne di nuovo a farsi visitare.
Non era facile che le donne raccontassero di sé durante una visita. Quando accadeva, la prima volta era con discrezione e parsimonia, poi con sempre più convinzione e fiducia. Di solito erano storie che mi lasciavano sgomenta e incredula. Muta.
Anche Felìcita aveva qualcosa da raccontare quel giorno. Una storia come le altre: inconsapevolezza, povertà, ignoranza e violenza. A differenza delle altre però lei parlava anche di dignità e orgoglio, li confondeva certo, ma era già straordinario che ne conoscesse l’esistenza.
Quando finì il suo racconto, – niente lacrime da asciugare -, volli ricambiare, mi sembrò naturale. Raccontai dei miei tre aborti spontanei: in sala operatoria Luigi, il padre. Mio marito.
Felìcita mi guardava silenziosa, le gambe incrociate, la maglietta sempre più aderente. Mi guardava con una intenzione nuova, come di protezione, aveva perfettamente capito quello di cui avevo bisogno.
Da quel giorno passò regolarmente a trovarmi.
Col passare delle settimane era sempre meno silenziosa.
Mi raccontò che se avesse potuto tornare indietro non si sarebbe più sposata così giovane. C’erano tante cose nel mondo.

La dottoressa abitava nel secondo distretto, quartiere Séis de Agosto, in una casa di legno grande e solida.
Felìcita arrivava sempre dopo il tramonto e, in piedi, mezza nascosta dalla staccionata di legno, ascoltava per qualche minuto la musica triste che usciva dalla casa.
Anche quel pomeriggio stava in piedi dietro il cancello di assi di legno ad osservare il cortile.
Due camici, magliette bianche e mutandine di cotone colorato erano stese ad asciugare ad un filo teso tra la palma e la mangueira. Felìcita pensò che sarebbe stato bello fare il bucato per la dottoressa.
Dallo spiraglio tra un asse e l’altra la vide uscire da casa, attraversare il giardino con un vestito rosa con disegnato un cuore rosso, la guardava sorridendo. Per Felicita fu tanta la sorpresa che non riuscì a dire una parola.
La dottoressa aprì il cancello e si fece da parte per farla entrare.
«Vieni, ti offro qualcosa» disse.
Entrare in casa non poteva: lei Felìcita, non poteva entrare nella casa della dottoressa. Accettò un succo di maracujà sulla veranda.
«Abitavo là in fondo da bambina» disse indicando la curva della strada dove si intravedevano canneti e rovi. Il bicchiere con quello che rimaneva del succo appoggiato sul tavolo. La dottoressa le stava seduta davanti e il suo bicchiere era pieno.
«Non ci sono mai stata», disse Margherita. «Non sono mai stata da nessuna parte: vivo in ambulatorio», bevve il suo maracujà e appoggiò di nuovo il bicchiere sul tavolo di legno scuro, liscio e profumato.
«Se vuoi ti porto a fare un giro, bisogna camminare un po’ ma non è lontano come sembra. Ci sono gli animali: scommetto che ti piacerebbe giocare con le scimmie ».
«Mai vista una scimmia in vita mia ».
«Le scimmie sono mie amiche. Mia nonna ne aveva due in casa».
Margherita svuotò il suo bicchiere e si alzò dalla sedia.
«Andiamo allora».
Margherita si era spesso affacciata dalla finestra senza vetri della cucina per osservare tutto quel verde e giorno per giorno aveva imparato a conoscere quel mondo che comunque non le era mai diventato davvero familiare.
Il “dopo la curva” sembrava vicino ed era invece, in qualche modo, molto lontano. Quando svoltarono, che la sua baracca non era più in vista, a Margherita sembrò di avere varcato una frontiera.
La strada di terra rossa diventava solo uno stretto passaggio nell’erba alta quasi quanto lei. Di Felìcita vedeva la schiena e i pantaloncini rossi; il suo corpo si muoveva con metodicità ed energia, aveva passi lunghissimi e lei faceva fatica a starle dietro.
Il sole arancione era qualcosa di cupo, basso e denso, sembrava fatto di materia consistente, vedeva alberi con chiome enormi come paesi.
Iniziavano a formarsi le ombre. Non pensava di avere camminato così tanto.
Il sudore le bagnava la schiena e tra i seni.
Quando furono sotto la grande gameleira dalle radici aeree, Felìcita si fermò.
«La mia casa era qua sotto. Un pavimento rialzato e quattro bastoni per reggere il tetto di foglie di banano, ma è stato il posto dove più sono stata felice. Ti piace? Sono sicura che la tua casa di bambina era molto diversa».
«Non immagini quanto. Le scimmie dove sono?»
«Sugli alberi, escono dopo il tramonto», disse Felìcita e si diresse verso l’acqua, senza controllare che Margherita la seguisse.
Margherita rimase ancora qualche istante al fresco e all’ombra, sotto la chioma di quel grande albero, bellissimo.
Si voltò per individuare la direzione da cui erano venute: forse tramite la scia di erba calpestata avrebbe capito quanta strada avevano fatto. Non vide niente, l’erba aveva già cancellato le loro tracce.
Raggiunse Felìcita sull’argine del fiume e la trovò seduta sotto una manguera mentre cercava di aprire un mango a mani nude.
«Ti piacciono i manghi?»
«Come fai ad aprirlo senza attrezzi?»
«Vuoi scommettere che ce la faccio?» disse Felìcita alzandosi da terra e iniziando ad esplorare il terreno circostante. Margherita capì che cosa cercava e sapeva che trovare una pietra lì non sarebbe stato facile.
Passarono cinque minuti buoni ad esplorare l’argine del fiume e il terreno sotto le gameleiras e le mangueras e, alla fine, la pietra fu trovata: un masso molto grande e piatto, proprio sotto uno degli ultimi alberi, quasi nascosto dalla vegetazione.
Felìcita scaraventò il mango contro uno degli spigoli, il frutto si aprì in due come avesse ricevuto un colpo di sciabola. Margherita guardava a pochi assi di distanza.
«Vieni, mangiamo», la invitò sedendosi. Poi con due dita pulì il frutto dal brulicare di piccoli semi neri e ne dette metà a Margherita.
La dottoressa pensò che non era facile mangiare senza sporcarsi. Iniziò a piccoli morsi ma poi sentì che non le bastavano e passò a mordere più a fondo, arrivando con i denti a grattare la buccia. Il succo e la polpa più morbida le colavano dal mento, aveva le guance sporche fino a metà e le mani fino ai polsi.
«Così si fa!», disse Felìcita con la faccia tutta arancione.
Margherita sorrise senza sapere che fare delle mani sporche di polpa di mango.
In quel momento il buio cadde, improvviso come ogni giorno.
Pochi secondi e fruscii tra le foglie annunciarono le scimmie.
Erano come bambini, brutti bambini pelosi che si muovevano lentamente e fluidamente, scendevano dagli alberi e andavano verso il fiume. Forse erano una decina. Osservavano Margherita e Felìcita con diffidenza per qualche secondo e poi voltavano loro le spalle e si fermavano sulla riva del fiume per bere. L’oscurità era quasi totale, solo lo splendore della luna tropicale illuminava quel luogo.
Felìcita e Margherita stettero a guardare le ombre, seguendo ipnotizzate quella specie di balletto di esseri rimasti bloccati a uno stadio primitivo e profondamente umano allo stesso tempo.
Margherita non sapeva più dov’era. L’oscurità non aiutava a capire quanto tempo era passato da quando era lì, potevano essere le prime ore della sera o notte inoltrata.
Non si faceva domande. Assisteva passivamente a qualcosa di oscuramente vero.
Dopo qualche minuto mentre il gruppo iniziava la risalita degli alberi, una scimmia, piccola, si avvicinò a Felìcita, l’annusò e poi, senza esitazioni, le si arrampicò tra le braccia. Felìcita iniziò ad accarezzarla mentre quella usava la sua grossa mano nera nello stesso modo sui suoi capelli.
«E’ la scimmia di mia nonna».
«Possibile? Mi sembra giovane»
«E’ la più vecchia, invece.»
La scimmia aveva poggiato la testa sulla spalla di Felìcita. Sembrava quasi dormire.
«Sai Margherita, per vivere qua non serve niente, basta volere bene alle scimmie».
La luce diffusa consentiva appena di distinguere la donna e la scimmia strette nell’abbraccio. Margherita si allontanò di qualche metro, provando a sparire nel buio per non disturbare.
Aveva fatto pochi passi quando vide il sentiero di erba calpestata. Alzando lo sguardo non fu difficile, a una distanza di neanche cento metri, scorgere la luce fioca del lampione sulla strada, proprio sulla curva, dove nell’oscurità si intuiva il boschetto di canne.
Si voltò
«Felìcita, – disse – torniamo indietro. Io voglio tornare a casa».
Da un punto molto lontano nel buio le arrivò la risposta di Felìcita.
«Vai, io arrivo fra poco».

Una mattina di fine di marzo, mentre andavo al Posto, vidi che la casa di Felìcita aveva gli scuri chiusi. Era molto presto e forse dentro casa erano ancora tutti addormentati. La casa, però, sembrava abbandonata, con i giocattoli dei bambini nel cortile e un paio di bermuda stesi ad asciugare. Mi resi conto solo in quel momento che, dopo l’episodio delle scimmie, Felìcita non l’avevo vista più.
Fu mentre visitavo la prima paziente che decisi di ripassare nel pomeriggio a controllare.
Il cancello era chiuso, le persiane di legno continuavano ad essere chiuse.
Pensai che fosse andata a trovare sua madre alla frontiera con la Bolivia. Me ne aveva parlato qualche volta, di come le mancasse. Suo marito non le dava il permesso di andare da sola, né voleva accompagnarla. Pensai che, forse, era riuscita a convincerlo.
Passò ancora una settimana. Una mattina mi presi una pausa, promisi alle donne in sala d’attesa che sarei tornata subito e uscii. La casa di Felìcita aveva finalmente le finestre aperte e Alma e João giocavano sul marciapiede con altri bambini. Mi avvicinai ma loro, timidi e pieni di vergogna, corsero verso una donna anziana seduta su muretto e affondarono la testa nel suo grembiule colorato.
Forse la donna non capiva la mia pronuncia perché non rispose quando le chiesi di Felìcita. Sorrideva e si stringeva nelle spalle.
Tornai molte volte a cercare la mia amica ma c’era sempre solo la donna anziana insieme ai bambini, oppure nessuno.

Foto: Imbarcadero di Puerto Maldonado Perù, Melania Ceccarelli, 2001

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Maria Luisa Venuta
Maria Luisa Venuta
Maria Luisa Venuta Sono dottore di ricerca in Politica Economica (cosiddetto SECS-P02) Dal 1997 svolgo in modo continuativo e sistematico attività di ricerca applicata, formazione e consulenza per enti pubblici e privati sui temi della sostenibilità sociale, ambientale e economica e come coordinatrice di progetti culturali. Collaboro con Fondazione Museo dell'Industria e del Lavoro di Brescia e Fondazione Archivio Luigi Micheletti. Sono autrice di paper, articoli e pubblicazioni sui temi della sostenibilità integrata in lingua italiana e inglese.
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