Discorso ad una folla assente
di Bruno Clocchiatti
“Durante i nostri anni insieme ho speso intere ore in compagnia di tua sorella, che ti somiglia molto ed è sostanzialmente muta. Al mutismo patologico, o addirittura all’autismo, tua sorella ha preferito il silenzio come se si trattasse di una pratica per così dire monastica – questa la mia valutazione –, e perfino una delle più severe in quanto a rigore ed intensità; tu ritieni che tale rifiuto a comunicare sia per forza correlato ad un trauma pregresso, un’impressione che del resto non mi sono mai sentito di condividere, e non per un’affinità di vedute con tua sorella, del cui mutismo in fondo ignoro le ragioni più intime, ma piuttosto per il piacere di contraddire la tua tesi, essendo le tue tesi generalmente basate su dati in sostanza incongrui, mi dico, aspetto che per un mio cosiddetto eccesso tassonomico ho sempre trovato odioso, spingendomi fino al punto in cui confutare ogni tua convinzione ha rappresentato, e rappresenta tuttora, il mio quasi esclusivo sostentamento, insieme a certe mele gialle che la donna di servizio ha introdotto furtivamente in cucina, mele pressoché rapprese che tuttavia conferiscono un pallido aroma ad un ambiente altrimenti inodore, se non asettico, benché i giornali e i documenti sparsi siano prossimi a macerare, rivelando così le stesse macchie ocra delle mele e della presente carta da lettera, consunta oltre ogni misura accettabile. Le mele, che tuttavia devo mangiare, mi hanno sempre disgustato. A tal proposito, non riesco a scindere l’immagine di tua sorella dal sapore delle suddette mele, pur riconoscendo a tua sorella il fascino del silenzio e di un aspetto ordinato e dignitoso, abiti sempre accollati ed un leggero sentore di lievito nell’alito, quasi un residuo di malattia nel respiro che trovo addirittura attraente, e in sostanza l’avversione che nutro nei confronti delle mele non ha pregiudicato il cosiddetto rapporto di necessità che mi lega alle mele stesse, simile all’opprimente pungolo che mi ha avvicinato a tua sorella e al suo mutismo che del resto, come tu sostieni, è assolutamente selettivo. Ogni volta che tua sorella mi ha rivolto la parola – in non più di una decina d’occasioni – ho avuto dal primo istante l’impressione di trovarmi di fronte a te e di discutere con te (o, per meglio dire, con una parte mancante di te), sebbene il tono di tua sorella fosse decisamente più piano e controllato, mai un picco nei sibili delle sue consonanti strascicate, e le parole di tua sorella in effetti sono ogni volta coincise con una rivelazione, magari non di natura pratica e forse nemmeno correlata al nostro rapporto, Ornella, eppure tali supposte rivelazioni mi hanno sempre scosso e, in un certo senso, hanno viziato la nostra vicenda per così dire dall’interno: in fondo, chi meglio di un familiare può toglierti la terra sotto i piedi rendendoti patetico o, meglio ancora, tanto vulnerabile da denudarti? In seguito agli incontri con tua sorella, assai frequenti ma nella maggior parte dei casi del tutto infruttuosi, ho sempre ottenuto non tanto un dato concreto sulla tua più intima natura, ti ripeto, quanto piuttosto una sensazione di smarrimento, simile a quella di un topo infilato a forza in un dedalo, sebbene – nelle rare occasioni nelle quali tua sorella abbia aperto bocca – ogni suo percorso mi sia sembrato all’istante lineare e del tutto scevro dalle tue consuete deviazioni, dalle tue perifrasi insensate, al punto che più volte ho desiderato la compagnia intellettuale di tua sorella piuttosto che la compagnia e la contiguità del tuo corpo, lo ammetto senza ritegno, considerato come anche gli espedienti più sordidi tramati dal tuo corpo mi avessero alla fine esacerbato e sfinito oltre ogni misura; la comunicazione esasperata del tuo corpo, come ora mi risulta lampante, era in sostanza molto simile al mutismo di tua sorella, essendo il tuo un corpo del quale non ho mai capito nulla, eppure le parole di tua sorella illuminavano tua sorella – e al contempo anche il pensiero di tua sorella – laddove tutto in te concorreva all’oscurità: ti capivo perfettamente, un’asserzione inconfutabile, ma alla comprensione corrispondeva poi quasi sempre un salto nel tuo buio, con rari chiarori che avevo artatamente disseminato nei nostri giorni assieme, quasi sempre dei chiarori che dipendevano da me o dalle illuminazioni che tua sorella mi elargiva a fatica, come sparuti e stentati indizi, quando avvertivo l’irrefrenabile impulso a sminuirti o a renderti ignobile, e posso affermare altresì, con minima approssimazione, che spesso le illuminazioni di tua sorella ti hanno letteralmente salvata dalle mie aggressioni per così dire costruttive, come ora mi pare addirittura ovvio, mettendo piuttosto all’angolo ogni mia legittima rimostranza. Avevo un’insaziabile fame di distruzione, come tu stessa hai asserito più volte, eppure la cosiddetta cupio dissolvi non ha mai inficiato, lo ravviso adesso, la qualità dei nostri giorni insieme, ciascun giorno è stato al contrario foriero di un nuovo grado di abulia, in principio camuffata dall’indolenza dei tuoi modi, ciò è chiaro, e in seguito assurta a quel genere di confidenza impudica e morbosa che rasenta l’affronto, tanto è vero che spesso ho rinunciato ad aggredirti verbalmente proprio perché mi sentivo troppo offeso o troppo ingiuriato, e quando infine sei ricorsa ostinatamente all’arma del tuo corpo, come l’ho presto definita, il legame è precipitato nel pozzo oscuro della recriminazione, ogni tua parola era del resto un insulto ed un veleno estirpato a forza dalle budella e dalle viscere, scagliato con la stessa impudenza con la quale una scimmia insozza i propri aggressori, ogni tuo discorso era in sostanza e senza scampo uno scarto dell’intelletto, eppure ad ogni scontro apparente (e questo aspetto ci riguarda entrambi) non corrispondeva mai una vera e propria animosità, un vero e proprio assalto: simile alle parole di tua sorella, anche la più detestabile delle insolenze veniva proferita col quel tono pacato che conoscevamo a menadito, forse perché entrambi eravamo stati educati – ma l’educazione ormai non mi riguarda più da tempo – come degli ingannatori e come dei bugiardi, tu in realtà sempre più abile di me nel raggirare la ragione, un’arte di confondere il pensiero e lo spirito che in principio ti ho addirittura invidiato e che adesso, al contrario, mi ripugna senza scampo. Ma ora ogni intimità è giunta ad un imprevisto capolinea; le mele che raggrinziscono e rimpiccioliscono stanno letteralmente evaporando come il pungolo razionale – così lo definisco – all’interno del nostro rapporto, un’evaporazione ed una dissoluzione rallentate ogni volta dalle parole di tua sorella: conoscere in te l’errore, l’errore per antonomasia, ha spesso inibito la mia rabbia, ha impedito che dilagasse proprio nel momento in cui le parole di tua sorella stavano rigirando il coltello nella carne, tanto nella mia quanto nella tua, in una maniera che infine ho trovato assolutamente subdola. Il dolore inflitto e la conoscenza del cosiddetto oggetto doloroso, un oggetto che ormai riconosco come un bubbone rimosso troppo tardi, si sono spesso ingarbugliati nei miei sensi fino a formare un rovello inestricabile ed atroce: metterò a tacere tua sorella, come ora mi dico, o sfrutterò volgarmente le sue rivelazioni per annientare te? E’ un quesito che non ha trovato ancora risposta, considerato come in realtà io non abbia mai annientato te né zittito tua sorella, rendendomi in sostanza sommamente ridicolo, benché tale indecisione fosse di certo frutto dell’indulgenza e del pudore, entrambi molto accesi in me, considerato inoltre come avessi saputo perdonarti giorno per giorno senza acredine, un affronto quotidiano al quale avevo risposto quasi sempre con la bonomia o col compromesso, un atteggiamento che a posteriori mi sento di giudicare fatale, arrivando al punto d’arrossire di fronte alle tue sciocche recriminazioni e alle tue insinuazioni più ignobili, pur possedendo i mezzi per stanarti e per portare alla luce le tue bassezze; l’oggetto doloroso, come ora ti definisco (o definisco tua sorella?), mi ha accompagnato nella maniera più subdola attraverso stagioni di letterale gelo, gelo che del resto si riflette nell’aspetto di questa casa e delle sue pareti scrostate, un bassorilievo d’intonaco che smotta lasciando spregevoli fregi sui muri, e poi ci sono le mele pressoché guaste e l’aroma delle mele che si confonde con quello della carta e dei documenti, ogni involto un malloppo di pagine sostanzialmente vuote, non dissimili da questa missiva che comincia a puzzare e a corrompere il mio respiro, che a tratti accelera come se stessi correndo verso una meta, eppure nessun traguardo – in particolare adesso – risulta sicuro e concreto, fatta eccezione per la scelta di tacere per sempre, un voto di silenzio che sto senz’altro perseguendo con i più solidi risultati. Per la prima volta dal nostro addio, mi sento finalmente in grado di rimuginare in maniera proficua sulle parole di tua sorella, sulle cosiddette rivelazioni di tua sorella che in fondo ti somigliava fin troppo, e che in fondo – con modi del tutto differenti dai tuoi – condivideva con te un’esasperazione ed un fanatismo per me null’altro che stomachevoli, come quel refolo di lievito nell’alito (lo stesso che prima ho amato e che ora mi appesta) il quale persiste tanto nel mio pensiero quanto nell’aria rafferma della mia stanza, prossima ad uno sfacelo che del resto avevo preventivato da tempo; venendo al dunque, tua sorella si era spinta ad insinuare che tu non mi avessi mai amato, che tu mi avessi addirittura tradito – un sospetto che non cambia affatto la mia prospettiva – ad ogni occasione favorevole e ad ogni tua crisi di nervi, perfettamente nascosta da un ambiguo e stucchevole contegno, e che tu ti fossi pentita di non avermi assoggettato dal primo istante come avevi fatto con altri, che avevi depredato o castrato o addirittura snaturato, rendendoli infine ciò che non erano mai stati prima, come tua sorella aveva sostenuto, per il semplice capriccio di stravolgere la cosiddetta realtà, la stessa realtà che ultimamente mi appare come un fragile simulacro, lo stesso genere di vuoto riflesso stampato sulla mia carta stropicciata e sporca, avrò scritto una decina di frasi scomposte e già la realtà mi tormenta, sebbene celata dietro a questa cosiddetta negazione della realtà che ti ha sempre accompagnata, al punto che nel tuo caso non parlerei di una mentitrice patologica quanto piuttosto di una menzogna patologica, l’oggetto che sostituisce il soggetto per ribadire infine l’essenza del nostro rapporto: una sequela di nudi fatti e di eventi inutili, tutti imbellettati e rivestiti di nauseante opulenza, finché l’estetica ha preso il sopravvento sulla ragione, appesantendo pensieri già gravi ed involuti con il fardello di una presunta leggerezza per così dire ludica, il peggior nemico del mio spirito senza dubbio analitico (posso dubitare della mia capacità di giocare?, annoto in fretta sul bordo della scrivania). Non desidero né mai più anelerò a qualcosa di leggero, fatta eccezione per certi indumenti estivi che ancora indosso sotto la giacca, un paio di maglie infeltrite che irritano la pelle e molestano il pensiero, eppure avverto un’afa insopportabile che contrasta con il gelo della casa, respiro con la bocca e con le nocche mi batto le tempie, ecco dunque che ciò che posseggo di leggero – seppur ruvido ed irritante – mi risulta improvvisamente necessario, mi ripeto che devo indossare la leggerezza, per un attimo mi tolgo la giacca e passeggio per lo studio, attorno alla scrivania, finché il pensiero non si schiarisce e allora riprendo il mio posto, con la testa reclinata all’indietro per rifuggire la nostra lettera, avvertendo stavolta una sensazione di gelo che finalmente si adatta all’ambiente; ho l’improvvisa sensazione di riconoscere, sotto l’intonaco smottato, un dipinto di Baselitz (un’illusione?), coi contorni neri e numerose figure attorcigliate, che ora più che a donne somigliano a dei biscotti bruciati, tanti biscotti bruciati stagliati sul muro come la radiografia di una malattia psichica, alla quale tuttavia non mi sento di soggiacere: la malattia incombe su noi tutti, ciò è evidente, ma finora l’ho respinta facilmente per via del mio fermo equilibrio, ogni aspetto ponderato con cura, tant’è vero che la lettera contiene a fatica una decina di frasi mirate e perfette, il mio piccolo quadro De Stijl in contrasto coi biscotti bruciati di Baselitz, un’intera parete imbandita di frollini scuri, gli stessi che tua sorella ha sempre servito con il tè, essendo in fondo tua sorella una foriera di bocconi amari, come l’ho più volte definita, sebbene tali bocconi mi siano stati null’altro che necessari per giungere al punto nel quale staziono ora, una scrivania infine lontana dalla folla degli ultimi anni, se non – in buona sostanza – lontana da te, cara Ornella, con una splendida visuale su un’opera mai tentata da Baselitz, un dipinto che nasce letteralmente dove le pareti stanno morendo di freddo e di solitudine, mi ripeto senza la minima pausa. E poi ci sono le mele gialle, la natura morta delle mele gialle coperte di efelidi ed immangiabili, che si uniscono alla mia piccola galleria di opere nascoste, un situazionismo involontario che ho scoperto solo ora, col capo reclinato e vuoto, in una casa che all’apparenza sembra ormai non contenere nulla, benché tutta la mia esperienza consista in sostanza in una sequela di aspetti nascosti e di dettagli insignificanti, ciò che vi è di più inutile ed al contempo ciò che più mi serve, ciò che in ultima analisi più mi si adatta: ars est celare artem, me lo ripeto più volte come se mi stessi osservando in uno specchio, nella posa dell’anfitrione che sfoggia la propria collezione privata, apparsa d’incanto su un muro scrostato e in un cesto di mele in fondo guaste, eppure ogni cosa risulta al proprio posto come nelle migliori occasioni, quantunque nella più inconsapevole delle maniere. Per una curiosa forma di transfert, improvvisamente mi sento di annoverare tra le opere a me più care anche il tuo livore, i tuoi tradimenti che fanno il paio con questi miei quadri involontari, e le tue bugie, in realtà delle bugie per così dire uniche, che a posteriori risultano essere state il miglior sotterfugio per trattenermi accanto a te, sebbene per breve tempo, e per fare di me, in un certo senso, un’opera straordinaria, simile a qualche bestia esotica impagliata che d’improvviso, come può accadere, dia l’impressione di aprire un occhio, di spalancare la bocca, e invece poi non fa nulla e non dice nulla, o perlomeno ciò che dice o che pare presagire passa inosservato o è scambiato per un’allucinazione, e tale mi appare ora questa lettera ed il ricordo che la lettera stessa alimenta: un’allucinazione protratta fino allo spasimo, finché creperò di fame o l’ossigeno nella stanza si consumerà, una delle due cose, e solo allora ti avrò in pugno, al culmine della cosiddetta sofferenza, con la testa reclinata all’indietro e il mio nome in calce alla missiva, missiva che del resto mi dà l’impressione d’essere già lettera morta, eppure mi fa sentire bene e ammazza il mio tempo come nulla in precedenza – nemmeno tu – è stato in grado di fare. Cosa si può chiedere di più, in fondo, ad un pezzo di carta macchiata e ad una stilografica rubata in edicola, con una donna nuda impressa sul fianco, quando tale donna non è nemmeno più del tutto visibile?”