Storia con fotografia
di Andrea Inglese
[Questo testo è apparso sul n° 72 febbraio 2020 de “il verri”]
L’episodio è unico, ma vorremmo capire come parlarne. Era semplice e banale, certo, ma enormemente vischioso, e subdolo, e anticipatore, ma non sapendo di che, di quali fatti futuri. Comunque è già iniziato, l’episodio parte a tutta birra, è velocissimo, corre su binari certi, ma, per un sacco di tempo, nonostante la frenesia generale, non succede quasi nulla. Delle mani si stringono, questo è sicuro, ma di chi, di una stessa persona probabilmente. Poi alla fine tutto cambia, le cose scure diventano chiare, i nessi opachi trasparenti, le metafore suggestive similitudini fredde, ragionieresche. Chi ancora desidera, chi ancora aspetta tutto dalla vita, chi esige d’assimilare la mente e il corpo altrui, è in piedi, e vuole sedersi al tavolo per poter parlare con l’altra persona in modo aperto, guardandola in faccia, ma non per la sfida, al contrario, guarda la mia vulnerabilità, guarda lo schietto brillare dei miei occhi, non c’è trappola, vorrebbe dire, ma deve prima sedersi, porsi di fronte all’altra persona, già seduta lei, con le mani in grembo.
In genere, quelli che hanno tempo di sedersi, si mettono le mani in grembo. Vogliono sottolineare il loro vantaggio. O è semplicemente un’abitudine atavica, contadina. Ma lui non ci riesce, nonostante le precauzioni, si muove con grande cautela, eppure in modo atletico, è pronto al balzo, a sferrare un calcio se necessario, si piega come niente sulle ginocchia, la testa scatta di lato a destra e sinistra, controlla con la punta delle dita la consistenza del tavolo, ne accarezza con il palmo il contorno, vorrebbe spostare la sedia, tutto sembra facile, mettersi seduto è davvero un gioco da ragazzi, ma non oggi, non per lui, e quindi simula deliberazioni eccentriche, compie dei giretti per la stanza, saltella, accenna passi di walzer, zoppica, tossisce come colpito all’improvviso da un malore, ma non si siede, non trova più il modo, tutto si è fatto complicato e buio.
Lui cerca di uscirne dignitosamente, ma si tiene con una stretta forsennata il braccio. Nel sogno del giorno prima, il braccio era caduto, e si vedeva lentamente scendere contro una parete, una parete vertiginosamente luccicante e liscia, di una verità atroce, da grattacielo assicurativo, lungo cui il vecchio braccio, un braccio portato con sé per quarant’anni, precipitava a singhiozzo, e qualsiasi cosa ciò volesse dire – quel braccio perso, sconnesso all’estremo – quella cosa veniva detta, ma nel modo onirico, nel modo dell’anomalia. Diceva: ARSURA, e: INGOMBRANZA. Oppure: bambini che hanno paura dei sessi femminili occulti, bambini che si strangolano per sfuggire ai sessi femminili occulti. Era uno di quei fatti acquatici, senza contorni e spigoli, che abitano le profondità, ma non sappiamo di cosa.
Quindi il giorno prima era un semplice divampare d’immagini nel sonno, ma nessuno garantiva da che parte del mondo noi si fosse oggi, da che parte insomma si dovesse guardare all’episodio, e chi poi osasse guardarlo. In genere ci pensano i poliziotti in borghese, ma non sempre. I consiglieri domestici, ma non sempre. In regia, quando ci rimane qualcuno. Ma non sempre. L’episodio, con il tavolo, la donna seduta con le mani in grembo, un ometto appendiabiti posato a terra, il rocchetto e il filo, la piuma ardente, l’alloggiamento del pomello, il convolvolo, il grembiulino di flanella, l’uomo in piedi, interdetto e impaziente, che si ghermisce il braccio, questo episodio semplice era certo già là, comprovato e sussistente come un cespuglio o un abete, una cosa che s’incontra per caso, un ostacolo nel bel mezzo di un camminamento. Ma ignoriamo ancora non tanto cos’è – è davvero così chiaro, piatto – ma come guardarlo, se da testimone raziocinante che possiede una stereoscopica visione rinascimentale, o da indio drogato, e scivolato sotto un sasso, che percepisce l’arrivo del dio serpente dentro un abisso mescalinico. Ma ora le cose vanno meglio, la mano artiglia il braccio, ma il braccio non cede, non cade a terra, e lui è persino capace di ridere. Nel suo desiderio anche l’odio è possibile, ma questo non lo inibisce, e anzi scoppia in una grande risata.
“Dove sono i nostri vecchi giorni?” diceva lui, l’astante, l’attante. “Non siamo mai stati malati, mai, durante i nostri viaggi. A piedi, in mezzo alla neve alta dei Pirenei. A piedi, in mezzo al polverone rosso di Dar es Salaam. Siamo finiti in mezzo alle radiazioni, ai terremoti, alle valanghe di fango, abbiamo scavalcato cadaveri di turisti dopo la grande ondata, abbiamo mangiato insetti fritti. Anche se qualcuno puzzava, noi ci siamo lasciati abbracciare, era gente del luogo, gente con disagi enormi.” Ma lei non rideva. Nessuno capiva se stesse bene o male. Non perdeva sangue, e questo permetteva una serena conversazione. Vogliamo parlare di soldi? Sembrava rispondergli, silenziosamente. Aveva il portamento di una donna carismatica, forse per il gran gusto, per il modo di tagliare un abito, di cucirlo, e indossarlo. Questa donna non stanca, ma dal volto chiuso, se ne stava seduta a contarsi i capelli, o forse si toglieva delle foglioline dai capelli, anzi dei minuscoli pizzini, erano poesie scritte millimetricamente, e poi tagliuzzate, e arrotolate, piegate in tremila parti come un origami, infilate nella sua capigliatura medusea, perché, tinti o naturali, i suoi capelli erano di un nero tremendo, e l’episodio comincia così, con lei che sembra dire: abbiamo finito? Dopo tutti questi anni, abbiamo finito davvero? Finito tutto?
“Io personalmente devo cominciare da te”, continuò lui democratico. “Devo approfittarne. Sovrastare i tuoi pensieri, controllare i tuoi avanzamenti carponi, i tempi di pisciata, indurti a guardare fuori o dentro di te, e tutto senza violenza evidente, zero ecchimosi stavolta, liscia manipolazione, t’imbottisco di farmaci, è la sola felicità a cui possiamo aspirare, noi due soli nel monolocale subaffittato. La caldaia al massimo, che ci faccia strafare dal caldo. Quello che sta finendo, almeno per me, è il tempo.” Il consigliere domestico disse: questa me la segno. Lei era irraggiungibile, seduta dietro il tavolo in quella foto, irraggiungibile per lui, una vecchia foto probabilmente, impossibile sedersi al tavolo di una vecchia foto. Una donna della famiglia, probabilmente. Una donna prossima e mai posseduta. Una sorella, una madre, fotografata anni prima, da un protettore forse. Che magnifico ricordo da sfregiare.
Niente male. L’ultimo capoverso restituisce qualcosa della grandezza di Barthes (“La camera chiara”).