Cattedrale nel cielo
di Dario Valentini
“La Tempesta” Frison sospirò. Guardò fuori dalla finestra della sala prove. Era impossibile distinguere il paesaggio. In inverno la nebbia pareva inghiottire la campagna. L’avrebbe riconsegnata solo qualche mese dopo, previo pagamento di riscatto da parte dei contadini locali. Sudore nella vigna. Ingrassare le bestie. Prosecco sacrificale al bar del paese. Rampino stringeva il bullone di un piatto. Sistemava le aste. Riposizionava il doppio pedale.
“Sul serio voi volete che ci chiamiamo La Tempesta?”
Boscolo e Ballerini si guardarono.
“In fondo sarebbe una bella citazione ai La Quiete” fece Boscolo lanciandogli un’occhiata languida. “Come dici sempre tu, forse il più influente gruppo Hardcore Punk italiano di tutti i tempi.”
“O una paraculata di dimensioni sconvolgenti” ribatté Frison. “E poi io dico il più influente gruppo italiano, di tutti i tempi.”
“Esatto quella cosa lì.”
Frison sapeva che Boscolo preferiva comunque i Raein ai La Quiete. I due gruppi condividevano alcuni membri, l’origine romagnola e la paternità di quella particolare scena “Screamo” europea. A sua volta genia storpia e colta di altri padri: Il primissimo Emo e l’Hardcore di stampo anglofono. Era un Portmanteu sfortunato. Spesso utilizzato erroneamente per identificare generi più commerciali e derivativi. Impostori lebbrosi che avrebbero dovuto girare con una fottuta lettera scarlatta sul petto. Per questo Frison preferiva dire Hardcore Punk e basta. E in ogni caso, per loro, quello era il “vero” Punk. Fanculo ai Ramones e ai Sex Pistols, le più grandi operazioni di marketing degli anni 70. Schifose boyband. E fanculo alla New Wave che si era lasciata fottere dal Pop pur di vendere. Moderato rispetto invece per le varie scene Metal e HC underground degli ultimi Ottanta e i primi Novanta. Rozze, forse, ma erano state un passaggio necessario per approdare a quelle nicchie contemporanee che sapevano ancora portarti dove da solo non saresti arrivato. Che erano ancora disposte a spaccarsi la faccia sulla tua pur di combinare qualcosa di serio. Un brivido lo percorse. Eppure lui ci credeva ancora. La discussione su chi fosse più rilevante tra i due gruppi si perdeva nelle sabbie della loro amicizia. Quante sere attaccati entrambi alla bottiglia di gin e ognuno al proprio parere. Finite le argomentazioni erano passati a elemosinare pareri a terzi riluttanti.
“Frison ma tu non la smetti proprio mai di parlare di queste cose?” aveva biascicato la morosa di Boscolo in un raptus alcolico. “Comunque a me fanno schifo entrambi.”
“Lo vedi che non capisce un cazzo?”
“Come ti permetti” gli aveva dato un coppino Boscolo. “E tu Giulia, non capisci proprio un cazzo.”
Erano seguite scenate isteriche. Lanci di oggetti. Suppliche. Abbracci rappacificatori. Giulia invece era collassata sul divano. La tv accesa sul quarto episodio di Neon Genesis Evangelion. Per l’ennesima volta Frison aveva organizzato una proiezione dell’intera serie. Senza grande successo.
Fortunatamente le loro opinioni convergevano su gruppi Post-Hardcore più moderni tipo Touché Amore, More Than Life e La Dispute. E sui quei juggernaut contaminati da sonorità più metalliche come Gallows, Comeback Kid e Misery Signals.
“Ma poi come vi viene in mente? Noi non c’entriamo neanche tanto con i La Quiete. Siamo troppo Metal per essere Punk.”
“E troppo Punk per essere Metal” sospirò Ballerini storcendo il naso.
“Troppo poco Jazz per essere Jazz” si infilò Rampino.
I ragazzi gli lanciarono un’occhiata. Paralizzati. Se come band fossero andati male, Rampino poteva sempre riciclarsi come un cazzo di oracolo. Si ritrovarono ad annuire lievemente. E il movimento stereotipato riverberò come un’onda finché si preparavano. Ballerini finì la sigaretta e la lanciò fuori. Verso il cielo bianco sporco. Frison accese gli ampli e si mise a smanettare con l’equalizzatore. Boscolo finì una lattina di birra e se la schiacciò sulla fronte. Accartocciandola lentamente come per aiutarsi a pensare.
“Ok, ok” sbottò. “Forse con i sostantivi non ci azzecchiamo molto, ma con gli aggettivi andiamo fortissimo!”
“Siamo totalmente Math” sorrise Rampino battendo un 5/4 sulla spalla di Ballerini. Tempi dispari.
“Totalmente Prog” aggiunse Ballerini muovendo le dita su una tastiera immaginaria. Riff epilettici suonati da instancabili ragni al litio.
“Totalmente Post” specificò Frison con veemenza mimando il gesto di dilatate melodie che si perdevano nello spazio. Strinse le mani come un direttore d’orchestra che si esibiva davanti a un pubblico di sagome nere e bizzarre.
“E anche un po’ cantautorato oscuro” sibilò Boscolo assottigliando gli occhi.
“Che non è un aggettivo.”
“Ma tornando a noi, ci stai?”
“Beh onestamente mi pare un po’ generico.”
“Direi minimale semmai” intervenne Ballerini. “Potremmo fare qualsiasi genere con quel nome.”
“E di fatto facciamo roba un po’ avantgarde” si succhiò le labbra Frison. “Però siamo in democrazia” continuò pungendo Boscolo con lo sguardo. “E ogni voto conta come un altro.”
“Abbiamo deciso allora” sorrise soddisfatto Boscolo. “La Tempesta sia.”
“Ma come?” esclamò incredulo Frison.
“Eh si! Io e Ballerini siamo d’accordo. Rampino non vota. Qualsiasi cosa voti tu, sei in minoranza.”
“Ma come sarebbe a dire Rampino non vota! Cos’è interdetto?” Frison lo fissò mentre questi si grattava la faccia sui triangoli fonoassorbenti alle pareti.
“Boscolo questo è barare! E poi tu Ballerini, quoque tu! Come fai a dargli corda?”
“A me piace” concluse Ballerini strofinandosi i calli sotto i polpastrelli.
“Siete disonesti cazzo.”
“Ma ti fa così schifo?” Boscolo era piccato. Aveva alzato di un semitono la voce. Come faceva sempre quando qualcuno lo contraddiceva.
“Non ho detto questo, è il modo che mi da sui nervi.”
“Anche a me piace La Tempesta” esclamò Rampino dal fondo della saletta. Finalmente al passo con il discorso degli altri. Senza spostare di un millimetro gli occhi acquosi dal bordo cromato del rullante. Il riflesso sembrava averlo tenuto ostaggio per qualche minuto.
“Vedi” fece Boscolo alzando i palmi al cielo.
Che avesse pianificato tutto fin dall’inizio?
“Se non puoi batterli” sospirò Frison. “Sarà meglio che iniziamo a seminare sto vento.”
Frison strinse la cinghia del Precision. Se lo portò più vicino al petto per raggiungere meglio i tasti. Queste tracce nuove lo facevano sudare. Richiedevano un posizionamento così preciso. In questo modo però, il basso gli copriva totalmente il logo dei The Ghost Inside sulla maglia. A quel concerto si era lanciato sulla gente a cavallo di un coccodrillo gonfiabile. La marea umana l’aveva tenuto su per trenta secondi buoni prima di lasciarlo sprofondare. Era parecchio ubriaco e manco aveva sentito la botta. Per inciso, il suo non era stato neanche il gonfiabile più strano a navigare sul pubblico quella sera.
“Così ti sta anche meglio” fece Ballerini scoccandogli un bacio. “Spezza il look all-black.”
Frison sbuffò e lanciò uno sguardo alla Telecaster del chitarrista tenuta quasi ascellare. Macchia solare nell’oscurità. Tanto a lui stava bene qualsiasi cosa.
“A me invece sembri mona” lo stuzzicò indicandogli lo strumento.
Ballerini rispose con un paio di sweep pulitissimi. “Prova a farli con la chitarra bassa.”
“Dovresti farti crescere i baffi” li interruppe Rampino. Frison non ci badò. Boscolo lo
stava guardando fisso.
“Vuoi qualcosa?”
“A pensarci bene non c’è quasi nessuno che è più figo con i baffi, eppure mi sa che proprio tu scoperesti di più così” sentenziò lui pulendo la griglia del microfono sul bordo della livrea nera. Una t-shirt degli Architects con le maniche amputate. Gilè tattico per il combattimento ravvicinato. Rampino annuì con forza. Lo sguardo fisso sulla parte bassa della sua faccia. Comunque qualcuno doveva dirglielo che certe volte faceva paura.
“Cosa cazzo starà guardando?” mormorò Frison.
“Il futuro” rispose Ballerini con un sorrisetto.
“Futuro peraltro molto lontano perché il muso di Frison è senza un pelo” concluse Boscolo sghignazzando. Ballerini si accarezzò la barbetta bionda.
Sì sì, lo sappiamo che sei bello, stronzetto compiaciuto.
Frison finì di accordare. Drop C. Fece suonare un paio di note. Così gravi che avevano densità propria. Così forti che le pelli del drum kit ronzarono. I corpi vertebrali di tutti si separarono di qualche millimetro. Correzione ernie attraverso le vibrazioni. Deflusso migliorato della linfa.
“Abbassa” vociò Ballerini.
“Sei la solita prima donna.”
“Il basso è perfetto quando non ti rendi conto che c’è!”
“Avete finito?” ringhiò Boscolo. Fece un cenno al batterista provando a prenderli di sorpresa.
Anita era senza dubbio una bambina molto bella, aveva preso le parti migliori dei loro genitori. I capelli rossi della madre e gli occhi verdi del padre. Lui invece, non sembrava. Eppure lei si incantava a fissarlo e poteva stare ore a tormentarlo. La gioia in quel viso paffuto quando li mettevano finalmente vicini. Tra i momenti passati con la famiglia al completo i suoi preferiti erano stati i lunghi spostamenti a bordo della jeep militare del babbo. Ascoltando e canticchiando qualsiasi canzone dessero alla radio. Vi prego vi prego alziamo ancora un po’. Non è prudente, il papà deve sentire il rumore della strada. Allora incollava il culo al sedile e si aggrappava per sentire le onde emesse dell’impianto. Quando arrivavano chiedeva di poter rimanere da solo in macchina per un po’ ad ascoltare la musica in garage. Solo dieci minuti. Si metteva al posto del guidatore, chiudeva tutte le porte, accarezzava la pelle del volante, si allacciava la cintura, ruotava la manopola del volume al massimo e…
“2-3-4” Rampino attaccò. Batteria di missili a puntamento laser. Una contraerea. Frison e Ballerini scivolarono nella traccia ad occhi chiusi. Comodi come piloti che entravano nel familiare cockpit. Le luci delle pedaliere e delle testate lampeggiavano come quelle di computer di bordo: All Systems Online. Frison rivolse un sorriso acido a Ballerini. Spiegarono le ali e schizzarono fuori dalla traiettoria dei razzi con una manovra acrobatica. Dopo il massacrante addestramento a gravità aumentata cui Boscolo li aveva sottoposti sapevano la partitura a memoria. Nota. Corda. Tasto e dito con cui schiacciarlo erano numeri ingurgitati da enormi calcolatori. Levette tirate su e interruttori premuti senza un secondo di ritardo. I manici degli strumenti erano cloche. Inclinate all’angolo perfetto. Sfrecciarono. Dentro al tornado. Il basso era grosso, incubava la traccia come un immenso utero rotore. Al battere del quarto fecero una giravolta all’unisono. Manovrando con precisione gli shuttle. Si girarono verso Rampino e Boscolo. Frison sparò un occhiolino al frontman. L’inseguimento esplose. Velivoli ostili iniziarono a rincorrersi. Chitarrista e bassista facevano headbanging furiosamente, sincronizzati con la cassa. Nel momento in cui avevano due quarti di pausa in un riff lanciarono gli strumenti all’indietro facendoli roteare sul corpo. Virate a mach3 che torcevano le fusoliere fino a renderle incandescenti. Li ripresero saldamente e riattaccarono a suonare perfetti sulla nota successiva. Lo strattone delle cinghie di sicurezza li frustò di rimbalzo. Fu Boscolo ad essere colto alla sorpresa. Frison gli lesse nella testa un dubbio: Si erano trovati senza di lui per fare pratica? Sembrava innervosito dall’iniziativa. Oh com’era bello vedere una crepa in quel suo sorrisetto del cazzo. Le aeronavi erano folgori. Anomalie geometriche nel cielo notturno. Frison e Ballerini erano in vantaggio ma Boscolo e Rampino gli stavano incollati alla coda. La doppia cassa mitragliava senza sosta. Altro che Refused. Quelli erano fanti della prima guerra mondiale con le baionette. Falciati da un’arma che non avrebbero potuto neanche immaginare. Colpi precisissimi nel mirino. Per schivarli si misero a saltare su e giù durante i breakdown. Prima in sincrono, poi alternati. Le facce violentate dai repentini cambi di angolazione. I capelli lunghi e lisci di Frison schizzavano dappertutto. Raggi di luna nera, come li aveva chiamati Anita, la prima volta che l’aveva visto suonare dal vivo. Per un momento era tornata a guardarlo con lo stesso stupore di quando era bambina. “Comunque una figa che ti adora a scatola chiusa ce l’hai Frison, peccato abbia quattordici anni e sia tua sorella.” Aveva commentato in quell’occasione Boscolo, scendendo sudato dal palco e lanciandole un’occhiata famelica.
I due facevano two-step. Vorticavano. Si esibivano in avvitamenti spericolati. Lanciavano calci in aria e inarcavano la schiena in un modo che avrebbe spezzato le ossa di un essere umano normale. Il g-negativo lo sentivano adesso. Il dolore li avrebbe aspettati solo l’indomani. Saltavano sforbiciando con le gambe in aria e chiudendole sbattendo sul pavimento. Tonneau che perforavano la linea dell’orizzonte. Looping fuori di testa che avrebbero torto le budella persino ai Converge. A un certo punto Frison lasciò il manico del basso e sferrò un pugnò all’aria con tale violenza che quasi perse l’equilibrio. All’impatto divaricò le gambe. Perni idraulici sottoposti a pressioni furibonde. Lo strumento ondeggiò e verso destra e poi tornò indietro. Lui lo riprese. Riguadagnò il controllo del propulsore impazzito. Boscolo scoppiò a ridere. Così forte che tralasciò una linea del testo. Colpito, cazzone. Quella mossa l’avevano vista fare insieme al bassista dei Counterparts a Milano. Frison grondava sudore, guardò Boscolo raccogliere la sfida, alzare l’asticella. Colpito ma non affondato. Salì sulla gran cassa e si erse in tutta la sua sinistra altezza. Le braccia aperte come sintetiche, membranose ali nere. Saltò al centro della saletta atterrando come un fottuto gargoyle d’acciaio alieno. Tiranno levogiro. Morte dall’alto. Si allineò ai due, al centro del triangolo. Toccò appena Frison e Ballerini con i gomiti tenuti alti. Un gesto di violenta complicità marziale. Il microfono impugnato come una lama che vibrava ad altissima frequenza. Il ferro sibilava. Feedback affilati. Boscolo iniziò a muoversi avanti e indietro e a menare frustate con il cavo. Si sincronizzò ai salti dei due. Le teste si muovevano su e giù come quelle di un cerbero meccanico. Erano mech in formazione. Esoscheletri di oscuro metallo organico. Pericolosi rivali, ora alleati. Isometria balistica. Squadrone d’assalto. E al centro di tutto un motore nucleare in grado di generare energia perpetua. Kernel di uranio rovente. I ragazzi saltarono, saltarono e saltarono ancora. Decollarono. Presero quota. Schizzarono dentro al buio ostinato dello spazio. Viaggiarono attraverso lo sconfinato per tutta la durata della canzone. Si addentrarono negli spazi limacciosi tra le stelle, sfuggendo ai campi gravitazionali dei corpi celesti. Dita ostinate di raccapriccianti golia invisibili. Ogni membro dell’equipaggio alla sua postazione: Ai sistemi di propulsione. Rampino, felino anemone da un’altra dimensione. Ballerini. Strigo androide. Armamenti. Boscolo. Corvo divoratore di mondi. Sbraitava gli ordini dalla plancia di comando. E infine lui, unico umano, geneticamente aumentato per resistere al viaggio. Pretoriano necessario per tenerli a bada. Al timone. Erano uni e quadrupli, monadi contrapposte a diadi. Tetragono perfetto di sculture grottesche. Infine, mentre la traccia finiva, iniziarono le procedure di atterraggio. Si lanciarono verso il basso bucando l’atmosfera. Precipitarono come una lancia orbitale. Nera e lucida torre di ossidiana. Urlante grattacielo bellico. Penetrarono la crosta terrestre. Il terreno si crepò e ululò agonizzante. L’onda d’urto incenerì la vita organica per chilometri. Il pianeta fu terraformato dall’impatto della Maelstrom mark 2. Una balena di longaroni. Centinaia di pinne bianche. Oblò come occhi. La carena iridescente come la pelle di un pesce titano guizzato fuori dall’oceano alla fine dello spazio.
Si tolsero il casco e piantarono i piedi nel terriccio che sembrava polvere di vetro. Lacrime impietose gli gocciolavano dai denti, il sudore spurgava grumi di catrame e sangue. L’aria puzzava di fuoco nero, giavellotti di luce variabile perforavano il cielo buio. Erano pronti ad uscire dalla saletta.
Quando Ballerini e Rampino furono andati via Frison prese in disparte Boscolo. La sala era in penombra. Gli amplificatori spenti si stavano raffreddando. Si infilarono i cappotti scuri. In lontananza il suono di una sirena.
“Non credere che non l’abbia notato.”
“Non so di cosa parli.”
“La Tempesta, non è una citazione dei La Quiete. È un omaggio a una certa etichetta discografica che guarda caso ospita proprio il tuo gruppo italiano preferito.”
“Mi offende che tu pensi questo” Boscolo fece un sorrisetto. “È il mio gruppo preferito e basta.”
“E allora che cazzo mi racconti?”
“Ti sbagli ancora, non ho mai dubitato che ne fossi a conoscenza. Credi che ti abbia voluto con me per il tuo bel faccino o per le tue mosse con il basso?” si era fatto serio. “Ti ho voluto come me perché sei una fottuta enciclopedia, te ne intendi davvero di questa roba. E in maniera trasversale. Se ti parlo di un disco sono sicuro che l’hai già ascoltato. Se è valido. Se c’è già qualcosa di simile. So che sarai la nostra avanguardia, non permetterai che cadiamo nel banale o in qualche altra trappola tentata da altri. Inoltre sei la memoria storica della scena di questa regione, conosci tutti, tutte le fottute band da Mestre o da Belluno con una sola traccia su Youtube. Sei una specie di custode del fuoco. Un guardiano della fede. Una sentinella”
Frison sbuffò. Boscolo gli scivolò vicino e lo abbracciò. Stretto. E La Tempesta sarà una cattedrale. Troppo stretto. Fino a mangiare Dio. Sentiva che sorrideva dall’altro lato dell’abbraccio.
“Ma non credere neanche per un secondo che non possa sostituirti con qualcun altro. Se solo provi a mettermi i bastoni fra le ruote. Ti macinerò. E prenderò al tuo posto qualcuno che suona un Jazz Bass color legno magari. E con i capelli lunghi più o meno come i tuoi.”
Frison si staccò. Fece un passo indietro ma sentiva che qualcosa faceva resistenza. Come se fosse immerso fino al ginocchio in un liquido amniotico denso e vischioso.
Boscolo era ancora li. Ghignava. “In quel caso, sono sicuro che con quel magazzino stipato nel cervello potresti reinventarti come giornalista. Per Rolling Stones magari. Ma poi qualcuno lo legge ancora? Anzi esiste ancora?” Fece un sorriso strano. Selvaggio e triste. Un prisma opaco. Gli accarezzò la guancia. La mano aguzza, bianca in maniera innaturale come quella di un feroce angelo artificiale. Frison rabbrividì. Aveva le viscere in una morsa. E voleva mandarlo affanculo. E aveva anche paura. Guardò quell’orfano alieno. Disperato jäeger ipnagogico. Tormentato dalla caccia. Dalla fame. E lui le conosceva bene entrambe. Il pomeriggio aveva lasciato spazio alla sera. Momento in cui le cicatrici smettono di distinguersi chiaramente e diventano parte delle linee dei volti. Come lacrime nella pioggia. Spiralò più in profondità in quel sogno che era anche il suo. Infine, immerso completamente nell’oscurità solida riuscì a guardare il suo riflesso oltre il filo dell’acqua nera. Aveva gli occhi cattivi. Impauriti.
“Solo io sono autonomo, fratello” sussurrò Razhiel a Metatron.
Metatron a Razhiel sussurrò “Fratello Autonomo. Sono io. Solo”.