Bei Dao e i poeti menglong
di Lorenzo Pompeo
Alla loro apparizione, con la pubblicazione nel 1978-1980 della rivista indipendente Jintian (in it. “Oggi”), un gruppo di poeti contemporanei cinesi venne ribattezzato dalle autorità letterarie cinesi con un nome che intendeva essere denigratorio: menglong. Il termine, che di solito viene tradotto come “oscuro”, e che altro non era se non una accusa di “incomprensibilità”, veicola in realtà più sensi contigui, tra i quali prevale quello di una “semioscurità in cui si vela una luce”. Il termine menglong è, paradossalmente, rimasto, sia in Cina che fuori, il nome più comune per indicarli. Per analogia, i poeti più giovani apparsi verso la seconda metà degli anni Ottanta sono stati chiamati “post-menglong”[1].
Scrive Gu Chen, uno dei maggiori poeti di questo gruppo: «La poesia contemporanea cinese si differenzia dalla poesia straniera contemporanea, come pure da qualunque altra poesia della storia cinese. Anzitutto in Cina c’è stata la Rivoluzione culturale: è stata un’epoca davvero vuota, isolata da tutto come un vaso di ferro; ciascuno ne ha sofferto la pressione, senza poter ricevere alcun aiuto dalla cultura, dalla storia o dal mondo esterno. In questa situazione la gente voleva ancora esistere, e tra costoro un piccolo numero non ha potuto che dissetarsi con le proprie lacrime, con la propria voce o con i propri sogni; la poesia è diventata praticamente l’unica forma della loro esistenza. In questa solitudine alcuni sono morti, altri sono impazziti, altri ancora scrivono tuttora, sono conosciuti, sono diventati i poeti contemporanei. (..)
Ancora oggi non siamo in grado di stabilire se la Rivoluzione culturale sia stata una punizione del Cielo o solo una verifica involontaria, ma possiamo chiaramente vedere che la poesia nasce della vita in sé, nasce dagli anni intollerabili della vita»[2].
Per Yang Lian, che fu tra i redattori di «Jintian», la nuova poesia cinese nasce da una rottura con tutta la “lingua e la logica” della poesia cinese, che la fine fallimentare della Rivoluzione culturale ha portato a completa saturazione, esaurendone ogni possibile verità. Non si tratta però, egli sostiene, di una poesia “politica” , o di una “critica sociale”, benché la politica indichi una certa coloritura del “contesto esistenziale” nel quale essa è sorta. Le caratteristiche più profonde sono invece per lui “un severo senso dell’esistenza” (e soprattutto di una modalità d’esistenza “non socializzata”) e la capacità di trattare una difficoltà radicale: nulla, egli dice, garantisce che il “saputo” sia realmente “esistito”. «Fin dall’origine della poesia cinese contemporanea v’è l’abbandono di tutto il lessico, nonché della logica, delle menzogne politiche in Cina. La politica è solo un certo colore del contesto esistenziale nel quale si genera questa poesia. Perciò i problemi socio-politici non sono mai diventati il tema della poesia cinese contemporanea (..). La modalità fondamentale con cui la poesia cinese esprime l’esistenza è individualizzata, non socializzata, è concreta, non astratta. Infatti la tonalità poetica fondamentale è permeata dalla sofferenza, dal dolore, dalla disperazione, dalla fluttuazione, dalla morte e dalla predestinazione»[3].
La Rivoluzione culturale resta ancora, agli occhi dei cinesi, un enigma soggettivo, ma è chiaro che ciò che essa interrompe definitivamente è il credito intellettuale di tutta la “cultura rivoluzionaria”. Dal punto di vista che qui ci interessa, ovvero per quel che riguarda le questioni poste da questi poeti, ciò che la Rivoluzione culturale porta irrimediabilmente a esaurimento è un determinato nodo fra “fedeltà artistica” e “fedeltà politica”.
La recente silloge di Bei Dao, La rosa del tempo. Poesie scelte (1972-2008)[4], ripropone i versi di quello che è forse più celebre tra i poeti menglong, noto anche al di fuori della Cina (attualmente vive a Hong Kong dopo aver vissuto a lungo in Europa e negli Stati Uniti). Addentrandomi nel libro e nella biografia dell’autore, mi sono reso conto che, pur non avendo alcuna nozione sulla lingua cinese, ero in possesso di alcune chiavi per entrare nella sua creazione poetica. Si tratta di un autore che è ha vissuto sulla propria pelle le più nefaste conseguenze delle scelte derivate da una intransigente interpretazione dell’ideologia comunista. Secondo quelli che erano i dettami della cosiddetta “Rivoluzione culturale”. Appena sedicenne, Bei Dao (al secolo Zhao Zhengkai, il suo pseudonimo si traduce come “Isola del nord”), che proviene da una famiglia di quadri del partito, abbandona la scuola e si unisce alle Guardie rosse, rispondendo agli appelli di Mao che chiama i giovani alla lotta per cancellare la vecchia cultura. Nel 1966, appena ventenne, viene mandato in una zona remota a trecento chilometri dalla sua Pechino, per svolgere lavoro manuale, vi rimarrà per quasi tredici anni, lavorando come operaio prima e poi come fabbro in un cantiere edile. In questi anni la censura mise al bando la quasi totalità dei libri che non fossero classici del marxismo e opere di Mao (tuttavia Bei Dao aveva avuto la possibilità di leggere alcuni libri “proibiti” come classici della letteratura dell’inizio del ‘900 che aveva trovato nella soffitta della sua casa).
Paradossalmente proprio questo “grado zero” dal quale l’autore è dovuto partire lo rende in qualche modo decifrabile anche per chi, come me, non ha alcuna familiarità con la tradizione letteraria cinese. Bei Dao tenta di discostarsi dalla poetica del realismo, unico indirizzo consentito e promosso dalle autorità, ma deve farlo in modo molto accorto. Non può nemmeno rifarsi a una tradizione culturale che è stata completamente cancellata. Fin dall’inizio i suoi versi venivano considerati incomprensibili, e quindi anche non molto pericolosi, da parte delle autorità preposte alla vigilanza in campo culturale. I messaggi lanciati nelle sue poesie sono per lo più cifrati (e anche l’uso degli pseudonimi è nato per eludere il controllo delle autorità). A volte si riesce a intuire facilmente il bersaglio della sua poesia, come ad esempio in Risposta, nella quale scrive: «Sono venuto in questo mondo, / portando solo carta, corda e ombra, / per proclamare prima del giudizio, / la voce giudicata: // lascia che ti dica, mondo, / io – non credo! / se mille sono gli sfidanti sotto i tuoi piedi, / considerami allora il millesimo e uno.»[5].
Tuttavia non bisogna fare l’errore di inquadrare quella di Bei Dao come una semplice “poesia di protesta”. Lo stesso autore, in un’intervista citata nella Introduzione della curatrice del volume, Rosa Lombardi, in merito alla sua poesia dichiara: «Ho cominciato a scrivere poesia all’età di vent’anni (..) Ma quando ripenso a quel momento, cercando di individuarne le ragioni, provo sentimenti complessi e resto confuso: come iniziai a scrivere? Da dove venne l’impulso originario? È il cosiddetto destino che ci porta a scrivere, oppure è scrivere che determina il nostro destino? (..) questo mi ricorda i primi tempi da fabbro, quando ero frustrato dai primi oggetti che producevo. Mi accorgo che un poeta e un fabbro sono molto simili: entrambi inseguono un sogno di irrealizzabile perfezione»[6].
Scrive la curatrice della silloge di Bei Dao Speranza fredda Claudia Pozzana: «Quello di Bei Dao è innanzitutto un mondo di pensiero, come rivela la calibrata astrazione dei suoi versi. Ciò che egli condivide con gli altri autori della configurazione cinese contemporanea – di cui “Jintian” costituì l’evento fondativo – è principalmente la visione della poesia come singolare forma di razionalità: spazio d’intellettualità capace di proprie procedure di pensiero indipendenti»[7].
La tradizione poetica cinese è onerosa sulle spalle del poeta quanto “la montagna, che nei manuali di storia sale e scende”, come si legge nella lirica A proposito della tradizione. Nel confrontarsi con essa, la poesia, precaria “candela che sprofonda nel buio”, flebile luce nella notte, “cerca reperti tra gli scisti del sapere ( dalla lirica Stagione movimentata). Il pensiero della poesia non può esimersi dai saperi filologico-letterari, tuttavia cerca alimento nelle loro discontinuità – gli scisti – piuttosto che nella loro integralità, e in definitiva tende a istituire con i saperi un rapporto analogo a quello che stabilisce con la lingua, nella quale cerca di far brillare fessure ed interstizi.
D’altra parte la poesia non può fare a meno dei saperi letterari, problema che come s’è detto è cruciale per l’intera configurazione poetica contemporanea. La soluzione che propone Bei Dao è una riappropriazione diretta dei saperi letterari, saltando inevitabilmente, almeno per ora, la mediazione educativa. E tale soluzione è praticata da tutti gli altri autori menglong, i quali, pur essendo profondi conoscitori della loro tradizione letteraria, sono tutti degli autodidatti, e comunque hanno svolto la loro formazione poetica e letteraria al di fuori delle istituzioni educative.
In L’arte della poesia, Bei Dao tratta esplicitamente fin dal titolo di questa esigenza di reinventare lo spazio di una sapere della poesia a partire dall’odierna indigenza:
versione di Rosa Lombardi
Nella grande casa cui appartengo
resta solo un tavolo, intorno
è una palude sconfinata
da ogni parte la luna splende si di me
il fragile sogno di uno scheletro ancora in piedi
in lontananza, come un’impalcatura non smantellata
e impronte di fango sulla carta bianca
la volpe nutrita per tanti anni
con un colpo della sua coda fiammeggiante
mi lusinga, mi ferisce
naturalmente, ci sei anche tu, seduta qui davanti
i lampi a ciel sereno che brillano nelle tue mani
diventano legna da ardere, mutano in cenere”
Versione di Claudia Pozzana, in: Speranza fredda, p. 37
Arte poetica
Di quella enorme dimora di cui appartengo
resta solo il tavolo, intorno
sterminate paludi
il chiarore lunare mi illumina da angoli diversi
il sogno dalla fragile ossatura sta lì come sempre
in lontananza, come un’impalcatura non ancora smantellata
e ci sono impronte di fango sulla pagina bianca
quella volpe allevata per tanti anni
agitando la coda fiammeggiante
mi loda, mi ferisce
e poi, certo, ci sei tu, seduto di fronte a me
le scintille azzurro cielo che ostenti nel palmo
diventano legno secco, si trasformano in cenere
Non resta nulla di quell’enorme dimora a cui la soggettività poetica appartiene (letteralmente: “è subordinato”). In questa indigenza, nella condizione di degrado dello spazio culturale della poesia, per essere nuovamente poeta, anche se circondato dall’immensa palude, basta quel tavolo, e il “chiarore lunare”, che anche in, come in Domande al cielo, è la luce rarefatta di una tradizione poetica, capace ancora di illuminare “da angoli diversi”. La precarietà congenita dell’esistenza della poesia appare in questo reticolo di luci dall’ossatura fragile come un sogno, orizzonte di riferimenti lontani, ma persistenti “come un’impalcatura non ancora smantellata”. Come nota giustamente la curatrice dell’edizione Einaudi Claudia Pozzana: «La meditazione sulla lingua, ricorrente nei versi di Bei Dao, costituisce un ampio orizzonte problematico, peraltro intensamente esplorato anche dai migliori poeti cinesi contemporanei (..). Essi hanno messo a fuoco, fin dalla fine degli anni Sessanta, una “questione della lingua” in Cina, tuttora investita con prospettive teoriche originali e trattata, con un crescendo di riflessioni intrinsecamente poetiche, come “questione” propriamente politica, che riguarda infatti le difficoltà soggettive dell’essere-insieme cinese, a di là dei simulacri comunitaristici che dominano la scena pubblica del paese.»
È inevitabile che le tracce della sterminata palude riappaiano come macchie sul foglio, ma la posta in gioco è riuscire a ripulire la scrittura poetica da quel fango, o forse a trasformarlo in materia prima della poesia stessa.
Ma per quanto difficili siano le condizioni esterne c’è anche una difficoltà interna alla soggettività poetica: “quella volpe allevata per tanti anni” che è, in contesto cinese, oltre che figura dell’astuzia, anche figura della seduzione, come attestato dalle “donne-volpi” della favolistica, fantasmi del desiderio femminile. Qui la volpe appare nella prima accezione, come una qualità interiore, a lungo coltivata come positiva, e pur sempre seducente per l’immagine di sé, ma nel momento in cui sembra appagare un desiderio di riconoscimento (“agitando la coda fiammeggiante / mi loda, mi ferisce”), infligge l’angoscia del misconoscimento: le lodi feriscono. La “coda” che la volpe agita – che che essa non riesce mai a nascondere interamente – in cinese idiomaticamente equivale al “vero volto” che prima o poi si svela.
Nel “tu” del finale convergono due figure possibili. Potrebbe essere rivolto al “tu-lettore”: se tratterai questa poesia come occasione per esibire abbaglianti opinioni costituite, vedrai quelle “scintille” trasformarsi in cenere. Ma potrebbe anche essere la poesia stessa che rivolgendosi al “tu-poeta “, lo ammonisce sui rischi di nullità dell’esibizione di scintillanti virtuosismi.
[1]Si veda Claudia Pozzana, Alessandro Russo, Introduzione, in: Nuovi poeti cinesi, Einaudi, Torino 1996. p. VI-VII.
2 Ibidem p. 214
3Ibidem, p. 209.
4 Bei Dao, La rosa del tempo. Poesie scelte (1972-2008), a cura di Rosa Lombardi, Elliot (Lit-edizioni), Roma 2018
5Op. cit. p. 45
6Op. cit. pp. 33-34
7 Claudia Pozzana, La distanza della poesia. Introduzione a Bei Dao, in: Bei Dao, Speranza fredda, Einaudi, Torino 2003, p. VIII.