Bruciare a Roma e a Lione.
di Viviana Fiorentino
17 ottobre (1973-2019)
A Ingeborg Bachmann
Nell’appartamento di Roma ti fermi almeno un’altra settimana. Il tempo che lui, il tuo Ivan, torni dal viaggio. Poi andrai da tuo padre in Austria, non puoi rimandare. Perché, invece, vorresti restare con Ivan.
Sai che, adesso, si starà svegliando. Sentirà lo squillo del telefono poggiato accanto. I messaggi. Controllerà la posta ancora sdraiato a letto. Sei ore di fuso non sono tante, ma quanto basta per sembrarti ogni meridiano un’enormità. Te lo dico, sei incastrata nel tempo, come sempre del resto. Lui si sveglia ed è mattina. Tu, pomeriggio e ancora imbozzolata nel letto. Ivan che si alza per il caffè. Accende la radio. La voce nasale del cronista. Luce bianca dalla finestra. Cielo plumbeo. La moquette pure in cucina. I suoi piedi nudi davanti ai fornelli. Lo sportello accanto alla cappa lasciato aperto da ieri, che socchiude con un’aria di ribrezzo verso se stesso e un fastidio per la maglietta sudata. Digita cose sullo schermo.
Tu ti accendi una sigaretta. E guardi la moviola di lui distante sei ore di fuso a mezz’aria, tra il soffitto bianco e la parete grigia davanti a te. Le cose attorno le sai sfumare. Uno vuole uccidere quando il tradimento è insanabile. Quando il danno è troppo grande. Non si tratta di poligamia. Si tratta semmai di doppie personalità. Più esattamente di non adempiere le promesse. Violare i patti. A questo segue il desiderio di distruzione. Ti girano le frasi attorno, come un sottotitolo della moviola. Lo stai uccidendo, mentre si fa il caffè, ti rendi conto? Il diavolo, o come lo chiami, il male, se non lo puoi scacciare da te e dal mondo, è motivo di suicidio. Uccidere. Il deserto insomma.
Fumi l’Hashish nel sebsi che ti ha regalato Kif… il marocchino, il dio dalla pelle colore ambra-hashish. Sono passati anni da allora, ma non importa, perché ti ricordi anche adesso che sei a Roma, comunque, ogni istante di quel giorno di tanta tempo fa, in Marocco. I ricordi non emergono mai per caso.
Kif era uscito a procurarsi la canapa ed era tornato a casa con un pezzetto minuscolo. Lo aveva sfracellato sul tuo comodino, davanti al naso. Tu lo guardavi dal basso. Appoggiata sul lato del letto, le gambe distese, i giornali e i fogli degli appunti di lato. Non metterci i piedi di sopra, li avevi scostati. Ma non serviva quell’attenzione, non se ne sarebbe mai fregato un tubo delle cose che scrivevi. L’amico, Abdu, aveva subito tirato via un pezzetto di Hashish e l’aveva mescolato al suo tabacco. Poi era uscito nell’atrio e si era addormentato lì. Vivevate tutti e tre insieme nell’appartamento. La notte asfittica di Marrakech. O adesso ti sembra tutto bello e tremendo? Non serviva stare nudi in casa. Sembrava anche peggio. Solo il tè caldo aiutava. Alla fine ti eri abituata al sapore di rame dell’acqua. Kif non aveva detto nulla. Si era disteso su di te. E avevate fatto l’amore, lì per terra, sui tappeti punzecchianti, perché tra le lenzuola faceva troppo caldo. Poi avevi ripreso a fumare e a bere, con quel suo odore di sudore ancora appiccicato alla pelle. Kif si alza e va alla finestra. Lo guardi da dietro e ti sembra di odiarlo. La muraglia delle spalle ti divide dalla Medina e dal mondo. E lui guarda fuori, immobile davanti alla notte di Marrakech. Si alza il fumo dalla sua bocca. Kif scosta la tenda; intravedi la luce arancia del lampione sull’altro lato della strada. Non c’è altro. Bene, l’Hashish comincia a fare effetto. Nella risalita dalle gambe fino al petto, aspetti che ti arrivi al cervello. Guardi l’ombra di lui: parla di spalle con quell’accento arabo francese. Ti piace questo, la solitudine in comune. Kif si scosta dalla finestra e viene verso di te. La sigaretta spenta tra le dita e la fronte contratta. Già pensa ai suoi affari di domani. Si gratta sotto la gola. E tu, Ne vuoi altra? Gli offri un pezzetto che ti eri conservata per dopo. Un frammento minuto che avevi riposto nel cassettino del comò. Non è gentilezza, è amore. Anzi, è il desiderio di averlo. Tre sigarette e si dimentica di domani. Ma tanto, non puoi più neanche parlare. Intravedi l’ombra di Kif distendersi al fianco. Ti sposti nei tuoi polmoni, tra le gambe. Ti giri, la faccia di Kif assorta chissà a cosa. Hai paura, perché non ti riallacci a niente. Alla terza sigaretta, rinunci a tutto. Sei nel deserto. Quello dove lui ti ha portato in gita. Con gli europei si fa così. In cammello. Mentre tu piangevi per la corda che tirava il muso del povero quadrupede. E gli anelli che bucavano le larghe narici sanguinanti della bestia da soma. E lui che lo chiamava ora rumba, ora latino ora chachacha. Perché in un albergo di lusso aveva fatto l’animatore per turisti e aveva imparato i balli. Non ci torni più nel deserto, sotto quel sole asfissiante. La luce a rovesciarsi addosso, come vomito dal cielo. Lo temono tutti il deserto, lo temono tutti quanti. Ci vivono qui come se non fossero nel deserto, come se non fosse niente questa muta distesa di granelli. Lo scintillio di sabbia. Il catafalco delle promesse della tua vita. Lo temi. Niente, il deserto non è niente. Muri, case, cammelli. Poi, siete tornati a casa. Tu la turista, il corpo del suo amore. In Marocco, hai perso venti chili.
Le cinque del pomeriggio romane. Basta, ne hai abbastanza. Ti sei già alzata con il solito dolore alla schiena. La luce che entra da fuori non ti fa senso. Dunque, pensi di presentarti così all’appuntamento. Possibile, non saresti la prima. Ti trascini al bagno. Il solito lercio dappertutto. Non pulirai. Anzi, domattina. Il freddo delle piastrelle lo senti appena. Ti appoggi al lavandino, anche troppo, e la tua faccia bianca si appiccica allo specchio tra gli schizzi di dentifricio induriti. Lavarsi il viso con l’acqua fredda è ancora una gioia della vita. I capelli ti sono rimasti belli. Il disordine attorno di collane, le tue cianfrusaglie orientali, i vezzi del ventunesimo secolo. Per non parlare delle saponette profumate. I sassolini che un tempo ti eri curata di poggiare sul bordo della vasca. Acciuffi la vestaglia dal disordine di asciugamani e accappatoi accavallati sul retro della porta. Bisognerà attaccare un altro appendiabiti. Prima che questo crolli. Ti affanni ancora nelle metafore – perché tu parleresti così di te stessa – in questa idea dell’assassinio, nella pulizia dei rapporti – quali? Insomma, vai a prendere i vestiti dall’armadio prima che si faccia troppo tardi. I pantaloni di cotone, scuri; del resto è ancora settembre, fa addirittura caldo. Quindi metti una maglietta sopra. Bianca. E nient’altro. La cinta di pelle finta. Quella sì. La scorri attraverso i passanti dei pantaloni; i polpastrelli ti fanno male. Ti bei di sentire questa sensazione, ne senti poche. La pelle ingiallita dal fumo ti ha sempre fatto schifo. Dunque, lo incontri al bar. L’amato di Ivan; non pronunci neanche il nome. E cosa gli dirai? Tutte le storie sul tradimento. Lo sapevi che a Ivan piacessero gli uomini, però non te lo aspettavi. Sarebbe ridicolo spiattellargli questa storia. Annuisci e accartocci uno scontrino che avevi lasciato in tasca. Tiri su la cintola. Nullifichi quel pezzo di carta nel cestino di paglia accanto alla porta. Cammini su e giù sulla moquette. La moquette a Roma: solo una padrona di casa vissuta in Inghilterra poteva farsi venire in mente un’idiozia del genere. Parlerai, invece, del muto trionfo del sesso. Fai quasi un piccolo sobbalzo all’idea che ti è appena venuta. Guardi la gente scorrere in file sulla strada di fronte. Gli occhi ti luccicano. Un’intuizione geniale. E il verde vivo dei platani, le foglie larghe manomesse dal vento. Quindi, oggi si respira. È stata una buona idea l’appuntamento nel pomeriggio.
Allora esci di casa e trotterelli come un cagnolino. Percorri via Bocca di Leone e imbocchi via del Corso. È una bella camminata fino a Testaccio. Lo incontri lì, all’amato di Ivan, a un bar che conoscevi. Le auto ti scivolano attorno e il rumore della città ti sembra piuttosto ingannevole. Perché tu pregusti solo l’incontro. La tua vendetta. In fondo la vita, triste o allegra, è comunque degna di essere vissuta. Si capisce, certo, da questo via vai che ti sferraglia attorno. Una tabaccheria aperta è sempre possibile trovarla, anche al crepuscolo. Un pacchetto di Muratti di rinforzo aiuta. Decidi di deviare e tornare in via Arenula. Lì i gatti rasentano i muri e ti fanno sorridere con quelle code arricciate a chiedere cibo. La vita degna di essere vissuta. La scena perfetta per un assassinio. Ma tu non hai intenzione di uccidere. L’arma è sempre rivolta verso di te. Passi la Basilica, scendi lungo il Tevere e lì non ci pensi neanche. Lo sai già che bisogna camminare lungo il fiume. Non è un fiume bello, tutt’altro, specie dai ponti. Arbusti ed erba. Acqua verde argilla e bionda da qui giù. Anche lui è biondo. C’è stato il tempo dei tre corpi avvinghiati. Della soddisfazione del divergere e convergere. Tu e lui una cosa sola. Ivan il mondo divergente. Lui poi non ha saputo che fare di te. Un giorno, si è voltato nel letto dall’altra parte. Loro due lì, chiusi in un guscio di schiene lisce. Accanto a te il portacenere e il puzzo delle sigarette spente.
Prosegui lungo Trastevere. Sei quasi arrivata a Testaccio. Quante volte dalla tua finestra hai guardato dal cimitero protestante fino al Testaccio. Ci sono tanti cocci al Testaccio, avevi letto, sotto la terra tra le tombe e i fossi. Una volta lui, l’amato, ti aveva detto che Ivan e tu sembravate felici. Lo direbbero tutti. L’ultima telefonata con Ivan era di qualche giorno fa. Il ricevitore gelido. La tua notte. Il suo tardo pomeriggio. Non aveva tempo. Non potresti spiegarti un po’ meglio? È la linea che non va. Ti scivola la cornetta sulla tempia. O ti abbandoni al gelo. Riattacchi, in ginocchio sul pavimento per cinque santi minuti. E poi basta. Ti trascini sulla sedia e rimani sveglia fino all’alba color cielo ermellino.
L’appuntamento a un bar qualunque. A uno snack bar con i tavolini anonimi. Di solito ti fermi lì per un caffè al banco, quando sei da quelle parti. Stasera prendi un tè. Entri, sei in anticipo. Quindi esci. Ti appoggi al muro. C’è chiasso. Ma il deserto ha una grandezza che è niente. Ti pervade come Kif ti rimaneva dentro quando avevate finito il piacere. Kif e il suo corpo sudicio. Perciò grandezza è perenne eccitazione. Ogni giorno e ogni istante. Diventa niente, come le ombre che ti passano davanti.
Insomma rientri, si è fatto l’orario. Ti siedi a un tavolino di finto marmo. Ti rialzi, esci. Accendi una sigaretta. Ti riappoggi al muro, scansi un’erbaccia che sbuca tra i sampietrini. Succhi il filtro. Schiacci la cicca sul muro. Rientri. Ti siedi. Di nuovo il tavolo di finto marmo bianco. Le venature nere si aprono come fiumi che portano non si sa dove. Una mappa dei nervi, pressata su PVC. Guardi l’orologio. È chiaro, non verrà. Pronto, sì, sono io, avevamo un appuntamento, sì, perché non sei venuto, potevi avvisarmi, scusa, non è niente, lascia stare ti dico. Invece, non hai alcuna intenzione di chiamarlo, all’amato, perché l’arma è girata verso di te. Afferri il quotidiano poggiato sulla sedia accanto. Lo apri e lo distendi sul piano, togli tutte le pieghi e ripeti il gesto dieci volte. Signorina le serve niente? Guardi il cameriere con la testa incassata nelle spalle. Non vuoi niente. Il mondo è pieno di assassini del resto. Non hanno sulla coscienza alcun cadavere, solo uno stuolo di vivi che allegramente sgambetta per la città. No, grazie, nessun caffè. Sei stata fin troppo in pericolo di morte. Il biondo non lo aspetti più. E neanche Ivan. Lo sapevi da prima di entrare nel bar. Troppi anni. No, grazie, finisci qui. Del resto, non potresti più dormire accanto a un uomo. Troppo orribile, troppo pericoloso.
La notizia di stamattina ancora lì in prima pagina. È lo stesso quotidiano che avevi sfogliato a letto. Ecco, adesso che la guardi stirata sul pianale di nervi in PVC capisci la congiura. Il tranello. Quale idea ti ha mandato il deserto.
Lione, studente francese si dà fuoco e accusa Macron.
[LIONE Uno studente francese di 22 anni versa in condizioni critiche dopo essersi dato fuoco davanti ad un affollato ristorante universitario a Lione. Poche ore prima del drammatico gesto il ragazzo ha scritto su Facebook delle sue difficoltà finanziarie incolpando espressamente il presidente Emmanuel Macron e i suoi predecessori Hollande e Sarkozy, ma anche la leader dell’ estrema destra Marine Le Pen, l’Unione europea e i media, di «averlo ucciso».]
A te sembra ovvio: collaboriamo alla società di domani. E ovvio è che lui e tu siete nello stesso deserto di promesse infrante. Il giornalista non ha capito. Dev’essere della stessa stazza del cameriere che ti è venuto a chiedere cosa desiderassi e ti ha mostrato il menù come un coltello. Ti alzi; lui non verrà all’appuntamento. Del resto non ti serve più.
A casa affondi nel letto. L’alcova che ti dà ombra come le mura aureliane attorno al cimitero. Hai ingurgitato i sonniferi. Parecchi. Ormai ogni suono è ovattato e lontano. Hai scolato tutto quello che avevi in casa. E adesso fumi. Hai finito i pacchetti e ripreso la pipa stretta e lunga per l’hashish. Non c’è altro da dire per te. Andarsene e non sentire il male. Fumi ancora. Getti le cicche sul letto. Bruciare e non sentire dolore. Venga la morte, dalle lenzuola a larghe falde di fuoco. Corrodere la pelle in fumo nero. Fiamme sulla moquette, che si accende come nulla. Non punite più nessuno. Ardere fino alla grandezza. Essere amati da tutti.
La mattina ho chiamato Maria. È accorsa. Con la mia amica, è arrivata anche l’ambulanza. Mi hanno incoraggiata, trascinata tra le bende. L’aria fresca bruciava. La vita bruciava. Distesa sul lettino, fuori dal portone, il cielo trionfante di Roma mi lacerava di azzurro. Ho capito subito che me ne sarei andata via presto, io che sono con te, dentro di te e te stessa. Ce l’hai fatta, mi hai trascinata giù, nelle tue piaghe di fiamme e d’inferno. Mi sono opposta fino all’ultimo. Ho resistito. Ma anch’io, come te, conosco il mio assassino. Eri tu. È troppo tardi. Resterà altro.