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Cappotto
di Gianni Montieri
The National, Nobody else will be there –> play
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Da Ben Lerner, Topeka School, trad. Martina Testa, Sellerio, 2020
Comunque sia, il Metropolitan aveva un grande ruolo nel nostro folklore di coppia. C’era stato un giorno particolarmente memorabile in cui avevamo preso dei funghi o dell’acido e girando per il museo lui era andato fuori di testa, ma quella è un’altra storia. Adesso, ventidue anni dopo, mentre tenendoci sotto braccio passeggiavamo per le sale, anch’io stavo vivendo la mia esperienza di spersonalizzazione, ma senza droga – la sensazione schiacciante del venir meno di una serie di punti di riferimento, del passato che collassava sul presente e viceversa. Mi sentivo come una bambina che voleva che la madre o Sima la proteggessero dal padre e come una madre che non stava proteggendo il figlio, il quale rischiava di diventare uno degli Uomini (non stavo mantenendo le promesse fatte mentre eri privo di sensi; non stavo imparando a comportarmi come si deve); ero contemporaneamente in quella sala con nonna, con il marmo che la rassicurava («Per Jane non sarà la fine del mondo»), ed ero lì con papà pochi anni prima, mentre contribuivo a rovinargli la famiglia, e in quel momento, famosa guru delle relazioni che non sapeva più relazionarsi con le persone care. Con la coda dell’occhio continuavo a vedere dei Lassiter, continuavo a intravedere il dipinto rosa, a sentire sussurri dal passato. Alla fine trovammo il quadro di Duccio – credo che avessero cambiato la disposizione delle sale – e papà parlava a raffica e di colpo ho smesso di capirlo, ma non è esattamente così. Stava descrivendo un film che aveva girato o voleva girare e una vecchia fotografia di sua madre a cavallo e certe sculture di cavalli che avevano i suoi, e i cavalli coi paraocchi a Central Park e i cavalli del Cavallo in movimento di Muybridge e il rapporto fra le immagini ferme e in movimento e i testi TAT che faceva fare ai suoi ragazzi perduti («Adesso ti mostrerò una foto e vorrei che a partire da quella ti inventassi una storia. Una storia con un inizio, una parte centrale e una fine») e gli esperimenti sulla «visione cieca» che stava portando avanti un suo amico neurologo; tutti questi argomenti si incrociavano e si separavano come onde. Un custode annunciò che il museo stava chiudendo. Nel presente avevamo un tavolo prenotato a Downtown, in un ristorante italiano fastidiosamente costoso che aveva scelto papà. Al guardaroba mi ricordai che quella volta – tanti anni prima, quando papà si era fatto un brutto viaggio – eravamo scappati dal museo così in fretta che ci eravamo scordati i cappotti: eravamo quasi morti di freddo. Nel consegnare all’addetta il talloncino numerato, quasi immaginai che ci stesse per riportare i cappotti di quando eravamo all’università. Appena ce li saremmo messi addosso, ventidue anni si sarebbero cancellati.
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[Mots-clés è una rubrica mensile a cura di Ornella Tajani. Ogni prima domenica del mese, Nazione Indiana pubblicherà un collage di un brano musicale + una fotografia o video (estratto di film, ecc.) + un breve testo in versi o in prosa, accomunati da una parola o da un’espressione chiave.
La rubrica è aperta ai contributi dei lettori di NI; coloro che volessero inviare proposte possono farlo scrivendo a: tajani@nazioneindiana.com. Tutti i materiali devono essere editi; non si accettano materiali inediti né opera dell’autore o dell’autrice proponenti; le immagini devono essere inferiori a 1 MB].