Le Cose Note
di Domenico Talia
Hoda Barakat è una scrittrice libanese di lingua araba che vive a Parigi. È una cristiana maronita che ha lasciato il Libano molti anni fa anche a causa della guerra civile che in quel paese durò quindici anni e provocò più di 150.000 morti. Tra i suoi libri, Diario di una straniera e L’uomo che arava le acque. Lei, figlia del Medio Oriente, sembra volersi rifiutare di parlare del suo mondo, quello che è anche oggetto dei suoi romanzi: «Non riesco a parlare di cose che tutti conoscono già,…, noi piccola comunità di intellettuali e scrittori che ci parliamo addosso e ci diciamo le stesse cose». Barakat non ama partecipare a eventi pubblici in Francia: «Vogliono testimoni su ciò che già sappiamo». La sua sembra essere una posizione contro il conformismo, contro le convinzioni cristallizzate che non vogliono spiegare, ma amano affermare. Eppure proprio il rifiuto di testimoniare quello che si conosce lascia spazio a una diversa interpretazione. Mostra un atteggiamento di rassegnata rinuncia a comunicare quello che si è vissuto, quello che si è conosciuto e che si ritiene scontato mentre, invece, per molti scontato non è.
Questo punto di vista di Hoda Barakat sembra dare sostegno alla tesi, certamente non peregrina, che quello che ci è noto, ai nostri occhi appare come meno importante dell’ignoto che cerchiamo, delle nuove conoscenze che vogliamo acquisire. Così il già conosciuto passa in secondo piano, si ritrae in un ruolo accessorio per non apparire più nella giusta dimensione. In quella dimensione che invece può essere percepita da coloro che quelle cose, quelle realtà, non le conoscono e hanno interesse ad apprenderle.
Natalia Ginzburg (nata Levi), ebrea antifascista e vedova di Leone Ginzburg, anche lui antifascista di origine ebraica torturato e ucciso dai nazisti nel 1944, da consulente della casa editrice sconsigliò Einaudi di pubblicare Se questo è un uomo, il grande libro di Primo Levi che racconta le atrocità della prigionia nel lager nazista di Auschwitz. La Ginzburg disse: «Cose note!» e in quell’occasione anche un grande autore come Cesare Pavese fu d’accordo con lei. Così l’editore Einaudi nel 1947 quel libro non lo pubblicò. In un’intervista Primo Levi ha riassunto la questione: «Avevo scritto dei racconti al termine della prigionia. Li avevo scritti senza rendermi conto che potessero essere un libro. I miei amici della Resistenza dopo averli letti mi dissero di “arrotondarli”, di farne libro. Era il ’47, lo portai all’Einaudi. Ebbe varie letture, toccò all’amica Natalia Ginzburg dirmi che a loro non interessava». La casa editrice torinese pubblicò quel libro dieci anni dopo, quando ormai le storie narrate da Primo Levi avevano registrato un certo successo, diventando anche un caso letterario, grazie alla piccola casa editrice De Silva di Torino che, contrariamente alla scelta della Ginzburg e dell’Einaudi, aveva scelto di stamparlo nel 1947.
Molti anni dopo Natalia Ginzburg ammise: «siamo stati dei colpevoli imbecilli», forse rendendosi conto che la sua scelta fu in gran parte basata sull’idea che le tragiche esperienze narrate da Primo Levi per lei non costituivano una così importante novità da meritare di essere pubblicate. Mario Fortunato che è stato amico di Natalia Ginzburg si è chiesto: «Perché Natalia respinse quel libro fondamentale? Non ho mai avuto il coraggio di chiederglielo. Molti del resto hanno detto: in quel momento storico, appena usciti dall’orrore della Seconda guerra mondiale, tutti sentivano il bisogno di dimenticare, lo sguardo rivolto al futuro» … «Che quella bocciatura fosse tutta inscritta in una poetica che cantava con Calvino: “Tutto il male avevamo di fronte, tutto il bene avevamo nel cuore”?». Natalia Ginzburg aveva avuto un’esperienza tragica di quel male e forse quella sua profonda consapevolezza, quel dolore che aveva vissuto, le avevano fatto velo portandola a giudicare non degna di diffusione la narrazione di fatti a lei ben noti e, come tali, non meritevoli dell’attenzione di una larga platea che invece, come testimonia il continuo interesse di vecchi e nuovi lettori, negli anni riafferma la terribile forza civile e letteraria del libro di Primo Levi.
Saverio Strati è stato uno scrittore calabrese di grande valore, vincitore di diversi premi letterari, tra i quali il Super Campiello nel 1977, e autore di numerosi romanzi scritti dal dopoguerra fino alla fine del Novecento. Strati ha narrato il mondo del Sud del secolo scorso in molti volumi di significativo merito letterario come La teda, Gente in viaggio, Noi Lazzaroni e il Selvaggio di Sanata Venere, tutti volumi pubblicati da Mondadori. Eppure i concittadini di Saverio Strati le poche volte che parlavano dei suoi romanzi dicevano: «Cose risapute e tristi, non è il caso di scriverci un libro». Mostrando così di non comprendere quanto le loro vite fossero divenute note non soltanto in Italia, ma anche in Nord Europa e persino in America e in Asia, grazie a quei racconti che loro ritenevano scontati, ovvi.
Prima di diventare, uno scrittore Saverio Strati era stato un contadino e un muratore e aveva vissuto le stesse esperienze di gran parte dei suoi paesani. Loro stessi erano i personaggi principali dei racconti di Strati, eppure tanti di loro ritenevano di esserlo loro malgrado, pensando convintamente che i loro sentimenti, le loro difficoltà, anche le loro piccole gioie che Strati raccontava dal di dentro, non meritassero l’inchiostro che le aveva impresse sulla carta. Secondo il loro punto di vista, quelle storie ben note (a loro) non valevano le platee di lettori che i libri di Strati avevano raggiunto, né le traduzioni in lontane lingue straniere – inglese, olandese, slovacco o cinese – che avevano avuto. Anche in questo caso ricorre l’idea che quello che per noi è noto non merita di essere riproposto. Gli elementi che ci sono familiari non appaiono meritevoli di conquistarsi una giusta divulgazione, anche quando la loro diffusione interessa molte persone, anche quando rivela al mondo condizioni di vita che altrimenti soltanto pochi potrebbero conoscere.
Questa sorta di auto-disattenzione che si trasforma in una subdola auto-censura non appartiene soltanto al mondo della letteratura. Per dimostrarlo basta citare due film che hanno fatto la storia del cinema italiano e che hanno avuto un comune esordio di ostracismo in patria. Roma città aperta di Rossellini fu presentato nel settembre del 1945 a Roma al teatro Quirino e venne accolto con molto fastidio, alcuni lo fischiarono. Non soltanto il pubblico, ma anche una parte della critica fu negativa. Il realismo di quel capolavoro non piacque a tanti che vedevano raccontare le loro vite mentre tentavano di uscire da una terribile guerra nella quale molti di loro stessi erano stati vittime. Come se per loro non valesse la pena di tornare su cose dolorose ben note e non riuscissero a comprendere che quel film stesse valorizzando, assolutizzandole, le loro esperienze, le loro sofferenze. Lo stesso Roberto Rossellini, nel suo libro Il mio metodo ha ricordato che quando Roma città aperta fu presentato a Cannes nel 1946 la delegazione italiana al festival lo disprezzava profondamente. La presentazione a Parigi e poi quella negli USA trasformarono il film in un successo. Gli occhi di gente lontana compresero bene il valore dell’opera e il film diventò anche campione d’incassi, mentre in quegli stessi anni in Italia non riuscì a ricevere molta attenzione. Soltanto molto tempo dopo, a causa dei successi esteri, Roma città aperta diventa un film di culto, un capolavoro del Neorealismo italiano, un film eterno che è parte importante della storia del cinema mondiale.
Una sorte simile è toccata anche a Sciuscià di Vittorio De Sica, soggetto di Cesare Zavattini, che racconta straordinariamente la miseria del dopoguerra attraverso le vicende di due poveri lustrascarpe. Nel 1946 durante la prima in un cinema milanese, qualche spettatore arrivò a offendere Vittorio De Sica: «Si vergogni. Cosa diranno di noi all’estero?». Invece è proprio all’estero che il film diventa un successo. Negli USA quel lungometraggio, costato un milione di lire, arriva a incassare un milione di dollari e nel 1948 vince l’Oscar come miglior film straniero con questa motivazione: «L’alta qualità di questo film, mostrata con eloquenza in un paese ferito dalla guerra, è la prova per il mondo che lo spirito creativo può trionfare sulle avversità». Anche in questo caso, l’occhio che osserva da lontano e che ha la voglia di comprendere le cose non conosciute, coglie l’importanza di fatti e narrazioni che l’occhio del vicino non afferra, anzi sottovaluta.
L’avvocato Edgar Lee Masters, mentre gestiva il suo studio legale, amava scrivere e per farlo si ispirava alle storie che gli accadevano intorno. La qualità delle sue opere non fu sufficiente a impedirgli di morire in miseria senza poter sapere che soltanto qualche decennio dopo gli sarebbero stati tributati riconoscimenti importanti. Masters era nato nel 1868 in Kansas e nel 1880, quando era soltanto un ragazzo, la sua famiglia si trasferì a Lewistown, in Illinois, nella fattoria dei nonni paterni. Il cimitero di Lewistown si trova sulla collina di Oak Hill e quel luogo, oggi visitato da molti turisti, è stato la fonte di ispirazione per le poesie-epitaffi della sua Antologia di Spoon River. Il fiume Spoon scorre a qualche chilometro da quella collina e quando Masters decise di raccontare le vite dei suoi paesani, usò il nome di quel piccolo corso d’acqua per dare il titolo alla raccolta che canta peccati, felicità, ambizioni, amori e drammi degli uomini e delle donne sepolti su quelle colline e che a lui capitava di incontrare per strada.
Proprio quell’antologia rese famoso quel piccolo villaggio e contribuì a far conoscere a tutto il mondo la gente che viveva in quel fazzoletto di terra in the middle of nowhere, insieme all’avvocato con la passione della poesia. Tuttavia, fu quell’antologia a compromettere la posizione del suo autore nella società cittadina di Lewistown. Infatti, furono tanti tra i concittadini di Edgard Lee Masters a non apprezzare quelle strane poesie. In molti non gradirono che qualche loro fatto privato fosse finito sulle pagine del libro scritto dall’avvocato del paese. Addirittura fino al 1974 il libro fu vietato nelle scuole e nelle biblioteche di Lewistown e persino la madre di Masters, che sedeva nel consiglio della biblioteca di Lewistown, votò per il divieto. Lo stesso Edgar Lee Masters ha raccontato che i suoi concittadini nel leggere quelle storie che conoscevano molto bene le considerarono «un rozzo attacco di un figlio sleale della comunità e cominciarono subito a identificare nei vari epitaffi persone viventi o che avevano vissuto lì attorno… A mia madre non piacque, a mio padre piacque moltissimo… John Cowper Powys fece una conferenza a Chicago e ciò che disse mi atterrì e mi attribuì una responsabilità che non potevo sopportare».
Si potrebbe dire molto anche su questo caso che possiede, con quelli già raccontati, l’evidenza che la condivisione delle cose note, soprattutto quando indagano la realtà con profondità e senza celebrazioni, perde d’importanza agli occhi dei protagonisti, mentre diventa valore condiviso e a volte universale per quelli che le apprendono osservandole da lontano, comprendendone meglio la grandezza. Nel caso degli epitaffi sinceri di Masters, è sufficiente ricordare che dal 1915, anno della prima pubblicazione negli USA dell’Antologia di Spoon River, non si contano le edizioni che sono state pubblicate nel mondo e ancora più difficile è conoscere l’enorme numero di lettori. Certamente un grande successo per un libro di poesia e anche per gli stessi abitanti di Lewistown che nessuno più dimenticherà. Eppure i nemici principali di questo libro, tra i più importanti della letteratura americana, sono stati quelli che più di altri avrebbero dovuto difenderlo e diffonderlo.
Quando non si comprende l’importanza di comunicare le cose note, non ci si accorge di commettere un errore che potrebbe non essere veniale. Si diventa vittime della difficoltà di mettere a fuoco la realtà che accade intorno a noi. Vittime di una presbiopia della mente che diviene un danno in primo luogo per noi stessi. Banalizzare il già conosciuto talvolta può diventare una grave colpa che impedisce agli altri di conoscere cose note soltanto a noi ma di rilievo per molti, sottraendole così alla possibilità di farle diventare sapere diffuso.