Vorrei poterti dire molto di più

di Francesco Borrasso

Portare i fiori nei cimiteri, è importante onorare i morti, le tombe, le spoglie, che sono tutto ciò che rimane di un uomo; poi, con il tempo, scompaiono anche quelle e non resta più niente. È quello che dicono: rispettare i santi, dare voce ai deceduti, renderli ancora vivi a forza di parole e ricordi, riguardare vecchie foto. Abbiamo tutti grandi colpe da scontare; l’abbraccio con una madre che ci ha messi al mondo e ha pianto per noi e più di noi quando le cose andavano male, perché c’è sempre un momento in cui la vita crolla, e se sei fortunato a spezzarsi è solo qualche osso.
La strada in salita mi porta verso casa, sulle pietre bianche e levigate del sentiero c’è un uccellino caduto dal nido, il cranio aperto, c’è sangue e riesco a vedere una parte del cervello; è ancora vivo, mangia bocconi d’aria ansimando con il becco, non vuole morire, muove appena un’ala, lentamente e poi sempre più piano, vorrei fare qualcosa ma non posso niente, proseguo perché non voglio vederlo mentre muore. La stanza è un gioco di ombre, sulla scrivania l’ultima lettera che mi ha mandato mio fratello Matteo: a Ernesto Simon. Mi è arrivata una settimana prima che morisse, cancro ai polmoni. Deve averla scritta mentre, disteso in un letto, sudava lenzuola tra iniezioni di morfina e bestemmie nella consapevolezza di dover abbandonare una vita che non voleva lasciare; c’erano due bambini: Alessio di dieci anni e Luca di sei, due bambini che avrebbero avuto bisogno di un padre. Apro la busta per rileggerla e un vento carico di sale entra dalla finestra, questo foglio di carta e inchiostro pesa come fosse di ferro:
Sto morendo, ma io non voglio morire, ma non voglio nemmeno continuare a sentire questi dolori e tutta questa sofferenza che mi circonda sui volti delle persone che mi sono intorno. Ti ricordi quel pezzo di legno che trovammo sulla spiaggia? Aveva la forma di un becco di un uccello. Sono sicuro che hai capito di cosa sto parlando, non puoi non ricordare. Ecco, ce l’ho adesso mentre ti sto scrivendo. Sono preoccupato per Alessio e Luca. È forse la cosa che mi spaventa di più. Quando non ci sarò più, non starò più male e paradossalmente non avrò più alcun tipo di problema; ma loro, i bambini, come la prenderanno? Mia moglie, sono certo, farà di tutto per assisterli, per non fargli mancare niente; ma ho molti dubbi. Desidererei poter assistere alla mia morte. Spero che un giorno entrambi i miei figli potranno fare affidamento su di te. Ti abbraccio forte, Matteo.
È venuto qui qualche mese fa, dicendo che un po’ di aria di mare gli avrebbe potuto fare bene, ho risposto che sì, forse poteva essere vero. Con il treno delle 6.40, da solo, senza moglie né figli, è arrivato alla stazione a pochi chilometri da qui ed io sono andato a prenderlo con l’automobile; al mio paese non arrivano treni. Quando l’ho visto aveva uno zainetto nero dietro la schiena, c’era dentro una bombola di ossigeno collegata alle sue narici tramite un sottile tubo di gomma trasparente. Quella, per me, era una visione nuova, non sapevo che la malattia avesse camminato così tanto. Mio fratello somigliava ad un relitto, un pezzo di carne e metallo. L’aria era bollente e il sole batteva sulle lamiere che coprivano la banchina, aveva i capelli tagliati molto corti e il viso bianco e camminava a stento.
«Fratellino», disse forzando un sorriso.
Provai ad abbracciarlo nonostante l’impaccio dello zaino. La sua pelle era sottile e sembrava sul punto di creparsi, sentivo la debolezza del corpo, della fatica che doveva fare per riempire e svuotare la gabbia toracica. Nel tragitto in auto non parlammo. Ricordo la luce che mi restava impressa nella pupilla e le chiazze bianche illusorie che mi pareva di vedere sull’asfalto. Matteo sembrava provasse vergogna per quello zaino, per quel prolungamento meccanico del suo corpo che non rappresentava una soluzione ma un semplice, miserevole, palliativo. Scendemmo sulla spiaggia di ciottoli camminando in fila indiana su una scala stretta di pietra. Possedeva dei movimenti che mi sembravano sempre al limite, provavo disagio, lo sentivo rompersi di continuo alle mie spalle, come se ogni gesto, per lui, fosse eccessivo; avrei voluto dirgli: Matteo, che cazzo succede? Come ci siamo arrivati qui? Quando eravamo bambini non ce l’ha detto mica nessuno che la vita era questa.
Succhiava l’aria dal tubicino di gomma, i suoi polmoni gonfi di cancro non erano più funzionali alla vita.
Da piccoli, su quella spiaggia, cadevamo sbucciandoci la pelle e ci rialzavamo subito, senza tentennare e ci buttavamo in acqua perché il sale avrebbe risolto tutto. Le cose impossibili sembravano non appartenerci, eravamo bravi ad avere fede nella magia, ad immaginare la nostra “isola che non c’è”; bravi a perdere, perché la posta in palio era sempre minima e molto spesso indolore.
«Questo cazzo di mare è sempre una meraviglia», disse sedendosi con accortezza, mentre senza scarpe aspettava di bagnarsi i piedi con l’andirivieni delle onde e non c’era chiasso e l’aria era fresca e asciutta.
«Senti dolore?», chiesi, furono le prime parole che mi vennero in mente.
«Un po’, ma ho portato della morfina, dovrebbe bastarmi per questi due giorni», rispose.
«Quanto ti resta?».
Non volevo stare lì a parlare di futilità mentre il mondo continuava a girare e noi stavamo perdendo; avevo bisogno di fare quelle domande ed ero sicuro che lui era venuto per darmi quelle risposte.
«Poco».
Mi accorsi di quanto la bellezza potesse essere devastante quando sai che non potrai più vederla.
«Se senti male possiamo rientrare, ti faccio una siringa».
«Qui è così bello, mi fa venire voglia di piangere, mi fa pensare a quando eravamo piccoli e so che questa è l’ultima volta che lo vedo, questo posto».
Le sue parole erano fatte di pietra, gli cadevano dalla bocca e rimbombavano e facevano chiasso dentro di me e il mio cuore batteva forte.
«È possibile che sia l’ultima volta».
«Ho paura Ernesto, così tanta paura che non saprei come parlarne».
Diceva quelle parole con il busto e la faccia girati verso di me che gli ero seduto vicino, avrei voluto dirgli che non c’era bisogno mi spiegasse nulla, che la sua faccia era un racconto perfetto, che la sua paura era ogni parte del suo corpo, puzzava la sua paura, infettava.
«Lo so, morire fa schifo, vorrei poterti dire molto di più, ma mi si strozza la gola».
Alcuni pesci nuotavano vicini alla riva e piccole barche stavano rientrando in porto e c’era una luce nel cielo che sembrava di carta.
«Ma tu devi scrivere, non voglio esserti di intralcio, se vuoi andare vai, io ancora ce la faccio a stare da solo», disse.
«Rientriamo insieme quando senti troppo male, altrimenti restiamo qui».
«Adesso va bene, a volte mi arriva qualche fitta che mi immobilizza, ma per ora possiamo restare».
Rimanemmo in silenzio a guardare i gabbiani e le loro evoluzioni a pelo d’acqua e il peso di tutto quello che ci stava crocifiggendo a quel momento, non c’era scampo.
«Ernesto?».
«Dimmi».
«Non voglio morire».
«Lo so».
«Riesco a non pensarci, a volte, riesco a fuggire, ma poi mi sento svenire, mi sento gelido e so che è tutto vero».
Non si vedeva quasi più niente e potevamo guardare le stelle che parevano vicine, un buio immenso e compatto ci teneva stretti.
«Com’è la morte, secondo te?», mi chiese.
«Non saprei. Forse è uguale a quel momento in cui ti addormenti ma ancora non sogni», risposi muovendo una mano nell’aria.
«Il nulla… nessun ricordo, nessuna immagine, quel momento di passaggio tra la veglia e il sonno», disse.
«Credo di sì».
Cucinai degli spaghetti con i frutti di mare, in tavola dell’acqua e del vino bianco, mangiammo senza parlare nella stanza che ci aveva visti diventare uomini, con le luci della lampada da terra, deboli, che provavano a mangiare le ombre, ad annullare gli angoli. C’era solo il vento contro le vetrate e lo scroscio del vino versato nel bicchiere e il metallo della forchetta nel piatto.
«Cos’hai detto ai bambini?», chiesi.
Matteo, prima di rispondere, mi guardò a lungo anche se il suo sguardo parve attraversarmi.
«Che tra un po’ di tempo non ci sarò più. Non ti dico, il primo, Alessio, ha iniziato a singhiozzare forte, ho avuto paura che potesse strozzarsi».
«E Luca?».
«Ha pianto, ma credo più per lo spavento di aver visto le lacrime sulla faccia del fratello».
«E Adele?».
«Mia moglie piange, piange quando non ci sono, o quando si allontana per andare in un’altra stanza, io me ne accorgo, torna da me con il viso paonazzo, torna dal bagno dopo essersi passata dell’acqua sulla faccia, gli occhi rossi e rotti ovunque. Pensa che io non la senta, e invece sento tutto».
Con una sorsata potente finii il bicchiere di vino, mi alzai a fatica, presi la siringa, la riempii di morfina e gli feci l’iniezione. L’ago gli attraversò la pelle con un rumore di plastica.
«Morire a quarantotto anni fa schifo», mi disse allontanando momentaneamente il tubicino dal naso, ad ogni respiro seguivano contrazioni anomale della gola, era destabilizzante vedere in che maniera un corpo smette pian piano di funzionare.
«Morire è una merda. Io ho tre anni meno di te», risposi.
«Già, niente moglie, niente figli».
«Sono stato sfortunato».
«No, direi che ti sei impegnato poco».
Mi sorrise e per la prima volta, durante quelle ore, il suo sorridere non mi trasmise disagio.
«Troppo impegnato a scrivere».
«So che vorresti accendere una sigaretta, non è indelicato, fai pure».
«Sicuro?».
«Certo, cazzo, fuma tu che puoi».
Arrivò la notte e la sua tosse continuava; stando disteso gli si accumulavano i muchi nella gola e rischiava di affogare. Lo feci mettere seduto posizionandogli due cuscini dietro la schiena. Parlammo di cose passate e di cose che non avremmo mai fatto e di quelle promesse che ci eravamo fatti da piccoli e dei nostri genitori. Della morte di mamma e poi di quella di papà, di quei primi lutti che ci avevano frantumato. Ricordammo tutto o forse ci sembrò di ricordare tutto, probabilmente tralasciammo molte cose che dovevano esserci sembrate poco importanti. C’era la finestra aperta e un bel fresco, c’era il frinire dei grilli che mi sembrava una marcia funebre, il cielo che brillava potente ed affaticato da troppe luci. Bevvi altro vino e fumai altre sigarette mentre Matteo pianse i giorni bambino e le cose che aveva rimandato; pianse il giorno in cui uno dei suoi figli avrebbe avuto bisogno di una sua parola e mi strappò la promessa di essere presente nelle vite dei miei nipoti. Eravamo dentro una linea di confine, non esisteva futuro, la luce della lampada gli riempiva gli occhi e lui tremava in maniera composta, sembrava un animale che torna stanco dalla caccia, una macchina guasta.
«Non si può competere con il tempo», dissi.
«La mia vita è passata davvero così velocemente?».
«La nostra», risposi.
«Ho la sensazione che tutto sia andato ad una velocità fottuta. Vedo lucidamente ogni giorno buttato a fare cose inutili, ad aspettare, senza capire che non c’è niente da attendere e che ti conviene vivere sempre tutto fino all’ultima goccia».
Le sue parole erano mischiate agli antidolorifici, avevano il sapore dei medicinali.
«Forse è la vicinanza con la morte che mette tutto sotto una luce differente», continuò.
«Non lo so».
Abbassai lo sguardo sul pavimento, gli occhi mi pesavano come se dentro avessi avuto dei ricordi di cemento.
«Credo che semplicemente ci accorgiamo di aver sprecato tempo e che ce ne rendiamo conto nel momento in cui qualcuno ci dice che di giorni non ne avremo più», continuai.
«Tu come la chiami questa cosa?».
«Disperazione».

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8 Commenti

  1. Mi chiedo se l’autrice abbia vissuto un’esperienza del genere. Se l’ha vissuta, spero che la sua disperazione possa essere consolata dal sapere che è stata fortunata ad avere una giornata così. Se non l’ha vissuta, sento il bisogno di dire che gli ultimi giorni tendono a non contenere saluti estremi, passeggiate in riva al mare, ultime occasioni. Contengono di solito ospedali, cliniche o molto più spesso hospice dove non si parla di niente.

    • L’autore sono io, sono un uomo. Ti posso dire che le giornate che diventano un ultimo saluto non le scegliamo noi, ma diventano tali solo nella memoria. Oggi passi delle ore con una persona, domani quella persona non c’è più, e l’ultimo tempo che ci hai passato insieme diventa una sorta di saluto, una specie di preghiera laica.

    • “Possedere un movimento” per me significa essere in pieno possesso di un gesto, di un movimento, appunto.

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mariasole ariothttp://www.nazioneindiana.com
Mariasole Ariot ha pubblicato Essendo il dentro un fuori infinito, Elegia, opera vincitrice del Premio Montano 2021 sezione opera inedita (Anterem Edizioni, 2021), Anatomie della luce (Aragno Editore, collana I Domani - 2017), Simmetrie degli Spazi Vuoti (Arcipelago, collana ChapBook – 2013), poesie e prose in antologie italiane e straniere. Nell'ambito delle arti visuali, ha girato il cortometraggio "I'm a Swan" (2017) e "Dove urla il deserto" (2019) e partecipato a esposizioni collettive.  Aree di interesse: letteratura, sociologia, arti visuali, psicologia, filosofia. Per la saggistica prediligo l'originalità di pensiero e l'ideazione. In prosa e in poesia, forme di scrittura sperimentali e di ricerca. Cerco di rispondere a tutti, ma non sempre la risposta può essere garantita.
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