Demone della decorazione
di Hilary Tiscione
Sulla nuca della scala in biada di legno resistevano i Pupi.
Dalle tre teste fiorivano come rami difettosi le loro colonne vertebrali in ferro scuro. Curvavano come uncini incarniti dentro l’intrigo forato delle loro menti.
La scala era fatta di undici gradini. All’ottavo gradino potevo guardare i Pupi negli occhi.
Sembravano impiccati. Con i colli sbranati dai ferri cacciati nel muro.
All’ottavo gradino mi fermavo un istante. Mi tenevo ferma alla sbarra e li osservavo. Poi contavo nove dieci undici con gli occhi oltre la scala.
Oltre la scala c’era il mio letto. La televisione. Una collezione di carillon. Un ombrello antico appeso a una carrozzina. Due tappeti con stampato il volto di due giovani uomini inglesi.
Quando spegnevo la luce la mia stanza si faceva la custodia supplementare dei cadaveri ben vestiti. I Pupi scendevano lungo la scala.
Un Pupo era il capo. Lui apriva il ciclo del ritiro. Batteva un polso contro il muro e cessava la debolezza del suo inutile riso e quello dell’ambigua coppia di storpi che lo proteggevano.
Vestiva una camicia in cotone imbevuto dell’essenza del limo e dei pantaloni in velluto bordeaux come il panciotto. Teneva una spada aggrappata all’avanbraccio con del filo di metallo e calzava un cappello di cuoio mangiato su un lato. Aveva i baffi di saggina e portava il rossetto.
Gli occhi del capo erano truccati di nero. Lacrimavano all’alba.
La mattina lo trovavo con le guance bagnate d’acquarello cattivo. I sui compagni le avevano sempre pulite.
Era l’unico soldato armato.
Il Pupo alla sua destra portava una giacca in velluto verde veronese con delle frange di trecce dorate che gli cadevano dalle spalle. Indossava pantaloni stretti attorno alle cosce, retti in vita da una fibbia in ottone. Come il capo aveva il rossetto, solo di un tono più vivo. Gli zigomi erano marchiati di un rosa scavato. Pareva il più giovane.
Il Pupo alla sinistra del Capo era bardato da una tragica polvere blu. Sogghignava lungo una crepa sul labbro superiore e aveva capelli neri come le braccia indurite dei ragni scarni.
Avevo chiesto a mio padre se mi era permesso toglierli dalla mia stanza. Mi aveva detto che non ne capivo il valore e la signorile apprensione. Aveva detto che non capivo l’estrosità della situazione. Neppure l’artificio e la tenerezza. Mi sfuggiva il modo in cui mi preparava a morire.
Non gli avevo detto che quando spegnevo la luce i tre sovrintendenti delle sagome scendevano la scala e aprivano la porta al piano terra della mia camera da letto e che la stoffa nera delle loro scarpe in panno era tanto sottile che sentivo battere le loro impronte sul legno. E mi soffocavo sotto la trapunta per non sentire la punta della spada del Capo strisciare sul parquet.
E nonostante il caldo e i sudori che regalavo a mio padre la sentivo lo stesso.
Non so cosa facessero nel resto della casa e se mai si fossero spinti oltre il corridoio dove si apriva una coltre di piante sintetiche, ma li sentivo rientrare e parlare con stravaganti varietà di codici mentre mi distraevo a cercare tre nomi per loro. Non ne ho mai trovato uno e non ho mai trovato la forza di venire fuori dalla trapunta che il domestico diceva essere troppo pesante per coprire una bambina. Diceva che mi sotterrava dentro il materasso e la notte si accaniva sul mio sonno rotto.
Mio padre non sapeva che quei Pupi marciavano su e giù per la scala fino ad esaurire le forze e venivano a sedersi ai piedi del mio letto per godere della sagoma di una creatura viva.
Il loro scheletro di metallo lagnava mentre osservavano il mio contorno. Non riuscivano mai a stare fermi del tutto.
A quel punto della notte si zittiva la molestia rude della paura e provavo tristezza per quei nani inariditi. Piccoli corpi mancati. Marionette piegate al ruminare dei tarli.
Qualche mese più avanti mi domandavo cosa avessero sotto i vestiti. Se il legno a contatto con il tessuto che li vestiva fosse più chiaro. Se avessero dei solchi sepolti e una memoria.
Ferma sul nono gradino avevo cominciato a toccarli.
Il residuo trattato di una mano. Il distacco di un polpaccio scavato. L’oblio incipriato sull’orlo dei pantaloni. La pelle tigliosa degli zigomi. I ferri corrosi delle caviglie pieghevoli. Non so che cosa avessero da sorridere.
E come erano educati nel meschino intervallo del vanto. Così ben amministrati al demone della decorazione.
Avevano sfiatato i sensi nella rotta clandestina del buio? Avevano imparato a colmare la fame nel trio? I superstiti del palco trivellato dalla sorte. Disgraziati introiti della compravendita. Perché restavano?
Qualche anno dopo, ferma sul nono gradino, avevo messo una mano sull’indole mostruosa di una marionetta e l’avevo baciata per lasciare traboccare il sospetto che fosse sulla terra come campione della tragica lirica dell’orrore e basta.
Da quel momento ogni volta che salivo la scala posavo le labbra sul becco rosso del Capo. A distanza di mesi non ghignava più. La notte non batteva più il colpo della sommossa curiosa.
I suoi valletti scendevano la scala e lo lasciavano solo a penzolare. Le lacrime dell’alba gli tagliavano la maschera come insistenza. In estate erano cicatrici accese dalla libidine fallita.
Toccavo il Capo sul petto e dove si faceva robusto il cavallo dei suoi pantaloni. Il garzone di destra rideva, quello di sinistra assaporava il collasso del Pupo debole.
Gli sfioravo le dita prive dell’unghia. Levigate dall’accidia. Le mani imperfette di un castrone con la spada.
La notte dormivo. Non sentivo più il loro ermetico gergo clandestino. Intanto il Capo ogni mattina mi guardava scendere la scala denudata.
Un giorno lo avevo costretto alla cecità appendendo la mia camicia da notte sul suo stupido cappello e gli avevo sfiorato l’anca fino all’interno coscia. Gli avevo abbassato i pantaloni sulle caviglie e lo avevo lasciato così tutto il giorno.
Era il giorno in cui avevo incominciato a fumare il tabacco aromatico del Kentucky. E lui, il tormentato Capo, coperto della mia droga nuova.
Era il paradosso del desiderio senza l’insopprimibile ragione del cazzo. Pornografia atrofizzata. Depressa pulsione mutilata delle bambole. Sconcio legname.
Oggi il corpo del Capo riposa malmesso in una scatola. I suoi compagni una notte lo avevano lasciato solo. Avevano bussato alla porta dove riposava mio padre che li aveva tenuti a lungo seduti sopra una panca accanto al guardaroba. Qualche anno dopo li aveva regalati a un collezionista che ci veniva a trovare nei giorni vicini alla Pasqua.
Il Capo non aveva mai avuto un nome. Quando l’accumulo delle sue lacrime si era seccato lo avevo raschiato con un dito portandogli via del colore. Prima di lasciare la mia stanza lo avevo coricato sul mio letto. Avevo chiesto al domestico di lasciarlo sulla mia trapunta qualche giorno.
Soccombente dello scontro vinto a metà, il Capo chino sull’esalazione della pelle mai approdata. Il fantoccio riposava l’appetito e la gradazione della cera morta per la fregola dei pupazzi. Capo della molestia, addomesticato alla rinuncia. Sognava sulla trapunta il suo approdo al muscolo e il domestico lo puliva ogni mattina della mia scomparsa.
Era giunto a vivere la mia stamberga di piume e respirare l’evaporazione dello sfizio o l’attaccamento all’impraticabile.
Lo pensavo lacrimare vernice spenta. E ricordare le vigilanze andate. Il Capo aveva capito bene che il traguardo è la più violenta e piacevole meschinità. Gli avevo tolto il cappello. Lo avevo poggiato sul mio comodino. Aveva pochi capelli. La spada invece la teneva ancora vicina al corpo. Gli avevo dato un ultimo bacio lento.
So che il domestico si è ammalato per un lungo periodo, ho smesso di chiamarlo per chiedergli del Capo. L’ultima volta mi aveva chiesto se dormivo bene. Gli avevo detto di sì.
Non sono più tornata a casa.