Conversazione con Gianluca D’Andrea su “Forme del tempo”
a cura di Gianluca Garrapa
Gianluca Garrapa: È uno spazio-tempo desiderante questo lavoro di Gianluca D’Andrea: Forme del tempo – (Letture 2016-2018), edito da Arcipelago Itaca nel 2019 nella Collana Sorgiva, non sembra avere una forma maggioritaria, né una cronologia che imponga una lettura lineare. Si apre con l’emergenza di una frattura, di una ferita: questa è descrittura degli stati transitori. Stati che sono anche Stati politici, ostinati nella stasi del confine che va, invece, enucleato, attraversato e, ci si augura, abolito. Nomadi citati nel collage, frammenti di pensiero, frattempi lirici che di Io non ha altro che il nulla, la morte. Morte come fine, fine a cosa? A cosa si finalizza la morte? Alla memoria? A un’altra vita. La fessura. Il buco del reale che il simbolico non può inquadrare: è questo il pensiero che cammina imperituro costeggiando curiosità, poesia e politica. È un’erranza del desiderio, una desideranza della scrittura che riflette sia in sé stessa sia nello speculare del lettore. Non è una lettura facile o difficile. Richiede una consonanza col proprio desiderio perché il riflesso, appunto speculare, lo specchio, la parola è sempre a doppio senso in questo scritto, perché il riflesso possa farci riconoscere il desiderio dell’Altro, che appartiene all’altro e non a noi; al lettore appartiene il suo proprio desiderio che riconosciuto permette di ascoltare, senza livellarlo o distruggerlo, il desiderio dell’altro. Sicché non si tratta di segregare forme poetiche, di separare poesia neo-lirica e poesia sperimentale e decidere cosa sia vera poesia. Poesia è la bordura simbolica del mancante, del vuoto, non negativo, che non si può dire a parole e forse nemmeno per immagine. C’è un non dicibile che è come quel vuoto della brocca della cosa heideggeriana che permette al contenitore di contenere, alla brocca di dissetare se piena di acqua. Nasce tutto dal rischio di non esserci più, demartiniana memoria da fine del mondo, la paura della scomparsa: Che l’aisthesis non sia nient’altro che la percezione di questa paura? Ogni nostra creazione vive in questo margine, l’orlo della scomparsa da cui si rende sempre un’ultima traccia. Che il rischio a farci creare sia proprio il rischio di non esserci, lasciare testimonianza della propria caducità è insito all’arte? Come si configura una scelta poetica alla luce di questo rischio?
Gianluca D’Andrea: Dici già molto nella domanda e bene. A partire dall’erranza nomade della parola fino alla possibilità del vuoto, passando attraverso la “desideranza” della scrittura che già risponde al rischio della scomparsa e della necessità di testimoniare anche e soltanto “un’ultima traccia”. A questo punto il rischio in poesia si tramuta in azzardo, ancora necessitante, un po’ come nel coup de dés mallarmeano e, in questo senso, in questo salto, la scelta poetica si autoconfigura. Tutto diviene sim-plex, si auto-origina in continui passaggi, in mutamenti improvvisi della materia o, in una parola, nella metamorfosi. Mi viene da pensare a un’opera di Burri, Bianco Plastica del 1967:
Alberto Burri, Bianco Plastica (Combustione), 1967
Nella splendida analisi che ne fornisce Federico Ferrari (in F. Ferrari, J. L. Nancy, La pelle delle immagini, Bollati Boringhieri, 2003, pp. 113-114), la forma del quadro diviene l’attesa “di un corpo che si sottrae alla propria immagine” e che desidera/necessita (a questo punto cade ogni distinzione) solo la sua es-posizione. Anche la parola della poesia si espone al suo senza fondo. Tu la chiami fessura, buco o, interpellando Heidegger, vuoto; seguendo questa direzione si arriva alla vertigine dell’abisso, alla mise en abyme, laddove l’abisso nient’altro è se non il senza fondo, appunto, che la poesia, come ogni altra arte, manifesta. Senza nessuna connotazione morale.
G.G.: C’è questo medioevo elettrico, anzi, barbarie elettrica in cui si balbetta l’Altro e la propria angoscia selfando e disfacendo l’altro a propria immagine, senza immaginazione. Il rapporto tra reale e immaginario è oppositivo, non dialettico. Il simbolico sembra ricucire, il corpo simbolico del poeta che percepisce e restituisce le cose oscure del mondo che dette restano più oscure. Il tempo è il presente assente, la storia non codificabile dei giorni. In queste letture-riflessioni appaiono racconti di un’autobiografia il cui soggetto pare storico più che idiosincratico individuo. Racconto che narra il passato (ricordo d’infanzia) e poi Rocky o del molteplice individuale, racconto delle forme che ha assunto il tempo poetico intorno all’assenza, al manque di zanzottiana memoria, alla caduta, all’identità evaporata: un racconto intermittente – una storia per “pulsazioni” direbbe Nancy – baluginante dalle epoche fissate nel documento. Il racconto si fa poesia per dire il trauma presentato, fatto presente solo dal linguaggio che gli dà un nome. Ma il nome indica, mostra e non può dire questa ombra che pur senza peso pesa sul presente e è rizoma. Sfumature di un colore che cade e non cede al cromatismo dello sfondo. In questo senso, cosa è il racconto della poesia? E poi raccontaci questi due racconti alla luce di questa invenzione “vuota” che è l’identità dell’umano.
G.D.: “Sono gli eventi che rendono possibile il linguaggio”, questa affermazione lapidaria di Deleuze mi sembra rappresentare al meglio le possibilità di racconto della poesia. Provo a partire dall’origine della tua domanda: il medioevo o barbarie elettrica che “selfa” e disfa l’Altro. Di recente è apparso un mio inedito (prima sulle pagine di Repubblica e poi su Argo on-line, per intercessione di Gilda Policastro e Lorenzo Mari, che qui ringrazio vivamente), in cui dico queste parole: “nel tragitto information / highways per blastare e dissare / in eterno l’altro”. In questo caso, nell’utilizzo dello stesso linguaggio della rete emergono le linee di un conflitto improcrastinabile; non si tratta di neoluddismo, deep ecology, ecc., quanto di un’urgenza ontologica “contenente tutte le entità rilevanti e le loro relazioni in un dominio” (secondo le nuove applicazioni che il termine ontologia assume in campo informatico). In poche parole, occorre riconsiderare la vita relazionale e, quindi, sociale. Tu parlavi nella precedente domanda di “Stati politici” e ponevi l’accento sull’ambivalenza tra status individuale e vita associata, ecco il racconto in poesia interviene per rilevare che se non ci fosse un mondo, un altro, gli “eventi” di Deleuze, non sussisterebbe nessuna possibilità ontologica e, quindi, nessun linguaggio da mettere “in comune”. Una delle mie ossessioni attuali risiede nella capacità di trasformazione della parola in mythos (che poi è l’unica possibilità del racconto attraverso la parola, lo dice la stessa etimologia), e i due racconti da te individuati, infatti, si ricollegano a un percorso mnesico che tenta di fare i conti con l’assenza. Il primo (Ricordo d’infanzia) più evenemenziale, per cui l’infanzia diviene una sorta di escamotage apotropaico per eludere, o meglio, rendere presenti i fantasmi che a quel passato fanno riferimento (d’altronde ogni mito ci parla di ombre vive); il secondo (Rocky o del molteplice individuale), parla di un tipo di assenza più “intellettualizzata”, attraversata da un vento generazionale che include la mia attività poetica e di lettore di poesia. In entrambi i casi si tratta di una ri-creazione dello spazio che si apre ai mutamenti, come provavo a dire nella prima risposta, adesso posso aggiungere, al futuro.
G.G.: Non c’è nulla oltre l’inciampo creativo che, in quanto caduta, cedimento, cesoia, fa una rottura, immette uno spazio, un vuoto, un’alternanza tra lunghezza e brevità. Una caduta al suolo che riporta, anche comicamente, la legge della verticalità acquisita al gattonamento, alla scivolata sulla buccia di banana, e torniamo bimbi, infans, incapaci di parlare e camminare. Con buona pace di Kant, ossessivo sostenitore del contrario: la postura ideale sarebbe quella dell’animale, e non la verticale umana, con buona pace di ogni Legge, la caduta al suolo è proprio l’incorporamento e la trasgressione di ogni norma, questa pratica del suolo, della terra che ci fa anonima polvere. Ma è proprio la solitudine del soggetto a far sì che avvenga un ritmo e, infine, la scelta del respiro. Che rapporto c’è tra poesia, ritmo e respiro?
G.D.: Ecco, appunto lo spazio con cui si chiudeva la precedente risposta è, ancora una volta, il vuoto di cui parli. Mi interessa molto quello che dici sull’animale e sulla postura che ci avvicina alla terra, rendendoci “anonima polvere”. Con ogni probabilità la “figura buffa” (ne parlo in un altro inedito) che inizia a farsi strada, anche se ancora in maniera indefinita, è un essere altro del futuro che si conduce con passi inconsueti. D’altronde, mi pare fosse Bergson a parlarne, è l’automatismo a scatenare il riso, probabilmente la nostra epoca altamente automatizzata è solo la preparazione a una nuova spontaneità che, magari, potrebbe stimolare la nascita di diverse comunità (se “il riso è sempre il riso di un gruppo” rafforza le relazioni).
Per concludere sul rapporto tra poesia, ritmo e respiro, non posso che richiamarmi, allora, a una nuova misurabilità dei passi che si compiono attraverso una poesia in cammino, in cerca di un nuovo ritmo. Ma una nuova misurabilità deve sempre considerare la non fattività di una misurazione definitiva (gli ultimi due secoli, tra moderno e postmoderno, mi pare, ci hanno lasciato questa semplice eredità).
G.G.: Un po’ come nella meccanica quantistica, è impossibile prescindere dalla presenza, per quanto umbratile, dell’osservatore: dunque la poesia senza l’occhio-sguardo è nulla?
G.D.: No, non sarebbe nulla, ma è vero anche il contrario: l’occhio-osservatore non sarebbe senza l’alterità scatenata dalla poesia. Più avanti, nello stesso capitolo dal quale hai estratto la citazione, parlo di una poesia che è “transizione che capta il mondo per dissolverlo” e subito dopo “l’osservatore passa e il passaggio lo intride di tracce”. In buona sostanza tra essere e nulla avviene una consapevolizzazione, quella dell’inevitabile scomparsa. Ciò che conta, allora, dopo aver raggiunto questa consapevolezza, è il racconto immaginifico della relazione; questo è il compito della letteratura in toto, poesia non esclusa.
G.G.: La scrittura poetica compone e scompone le fattezze, tenta di riattivare il senso decretandone la scomparsa. È in questo scollamento tra senso e non senso, tra luce e ombra, lungo il margine che borda il mare, la risacca che conferma e muove, e la terra che si ricolloca quantomeno come consapevolezza del lutto che non segue la morte della lotta. Un giro di boa e di parole che abborda il senso. La prosa fluida che costringe a rileggere, riassestare la lettura, perché le immagini sono nuove e i simboli collegano inaudite temporalità e la memoria è sempre il poter selezionare quello che vogliamo. Non è detto che sia interpretabile qualsivoglia scritto, anzi, sono propenso a sostenere più la logica del sentire-sentiero che del pensiero. Più un andazzo immaginativo, fuor da ogni immaginario ego che voglia conchiudere il discorso sempre per sua natura transbordante. Per immagini: la poesia come può ristabilire il senso dell’immagine?
G.D.: Sul vagabondaggio del sentire mi trovi pienamente in sintonia. Più che il senso dell’immagine, la poesia ha il compito, a mio avviso, di rinnovare l’immaginario. Un po’ come dicevo al termine della risposta precedente, occorre ritrovare il coraggio della relazione con un mondo in continua mutazione. È vero che l’immagine diventata invasiva attraverso le nuove comunicazioni, social specialmente, sta risucchiando terreno all’immaginazione, ma questo non significa che attraverso una commistione dei linguaggi non si possa fare poesia. Certo, partendo da questo presupposto si rischia di trasbordare il senso della tua domanda verso i territori dell’inclusività e dell’ibridazione della parola poetica (o era tua intenzione?), ma, con ogni probabilità, è proprio la sfida che si sta delineando: come la poesia si pone al tempo del trasferimento di senso tra parola a immagine? Come affronta il passaggio da biosfera a iconosfera, con la conseguente smaterializzazione che sembrerebbe colpire non solo i linguaggi ma la vita stessa (ancora un richiamo ontologico, come all’inizio della nostra intervista)? Su queste domande si fonderanno i nuovi approcci, le nuove grammatiche (secondo una definizione di Federico Ferrari) che permetteranno l’accesso al mondo a venire, al futuro. In precedenza, per intenderci quando parlavamo di testimonianza e caducità, il modo migliore che ho trovato per esprimermi è stato quello di presentare un’immagine (l’opera di Burri). D’altronde, lo strumento che stiamo utilizzando per parlare tra di noi, l’infosfera, favorisce il pellegrinaggio nell’immagine e questo non crea impoverimento ma arricchimento dei canali di senso.
G.G.: Queste letture-scritte sono riflessioni che riflettono e fanno riflettere. Alla specularità dello specchio, allo speculare del riflesso, si è aggiunta l’opacità trasparente del monitor, del monito al dirci che non siamo altro che inconsapevolezze elettriche. Soggetto è oggetto, s-oggetto: la tecnologia attuale, cioè, crea protesi più complesse, un’avanguardia di rappresentazioni altre che provano a cancellare la certezza di non essere e, invece, non fanno altro che riconfermare il passaggio “illusorio” ad altri modi di essere. Irrompe il reale della caduta, della malattia, è cosa di questi giorni, e non si rassicura l’uomo nemmeno con l’illusione protesica del virtuale. La paura del gorgo e della vertigine della Cosa pseudo-materna e fagocitante. Ma io mi manco e non posso essermi tutto io. Tutto uno. Come nell’immagine ideale del bimbo allo specchio: immobili nel riflesso perpetuo di una posa rassicurante per quanto limitante e, addirittura, esiziale. La parola richiama una scomparsa perché si attivi una presenza, l’immagine simula una presenza nell’avvenuta scomparsa. Chi sono io che leggo e mi livello alla tua disidentificazione? E chi sono gli omologhi di coloro che si reputano persone non conformi al pensiero comune? Consumo dunque sono e l’arte è fine a sé stessa e sempre più grossolana e caduca: che percorsi sta intraprendendo la poesia in un’epoca velocissima e impaurita dal mutamento?
G.D.: Partiamo dal riflesso: la dimensione del transfert attivata dalla figura dello specchio raggiunge livelli parossistici agli esordi del XIX sec., agli esordi, cioè, della modernità. La figura del dandy, secondo Sabine Melchior-Bonnet, mette in luce l’esigenza, da parte del soggetto, di diventare spettatore di se stesso. Così come il dandy “vive e dorme davanti a uno specchio” (come ci insegna Baudelaire ne Il mio cuore messo a nudo), l’influencer si immerge nel monitor e nella messa in scena. Abbiamo superato la superficie della fonte di Narciso e quindi abbiamo superato la negatività, dialettica mi verrebbe da aggiungere, dello sdoppiamento. La percezione effettiva è che non esista alcun transfert, ma solo la possibilità di modificare a piacimento la propria immagine. Si passa “illusoriamente” ad altri stati di essere, come dico nel brano da te citato, non c’è trasposizione tra mondi – diversificazione tra reale e virtuale – bensì identificazione. Il transfert è puro desiderio di trasformazione, per cui reale e immaginario si rilanciano vicendevolmente, per questo a divenire centrale è lo spazio di transizione, anzi la nostra attenzione si attiva proprio su questo discrimine, dove solamente si produce dynamis. Nell’intercapedine tra reale e illusorio, allora, avviene costantemente la disidentificazione da te evocata, appare il difforme, il non omologo, perché “solo le menti piccole non giudicano dalle apparenze”, direbbe Oscar Wilde.
Come si sarà notato, giunti a questo punto, non resta che compiere il definitivo salto nell’alterità, o alienazione, dell’essere. Ma occorre coraggio e, per rispondere alla tua domanda sulla poesia nell’epoca della malattia e del terrore, non vedo a oggi, almeno in Italia, autori capaci di prendersi carico del passaggio ontologico in atto, anche se chiaramente non ho letto tutta la produzione poetica nazionale degli ultimi 20-30 anni. Qualche spiraglio l’ho intravisto comunque, ma proprio di recente, in Habitat di Federico Italiano, per quanto riguarda i nati negli anni ’70 e in qualche esordio di poeti nati negli anni ’90, c’è speranza insomma.
G.G.: Colmare il vuoto della cosa e stare sulla soglia dell’altro. Sottrarsi all’io, decentrare il poetico dall’egocentrico e non temere l’irruzione del reale, il progredire. Eppure ecco l’immagine statica contro il fluire dinamico della storia raccontata. E il quadro de Gli ambasciatori (Hans Holbein il Giovane) che apre la V serie delle letture, evoca lo studio lacaniano sull’estetica dell’anamorfico nel Seminario (Libro XI) in cui è il reale a straniarci, a stupirci. Più che il bordo della cosa teso a contenere la cosa del reale, adesso, la cosa ci viene messa di fronte: incontro con il reale e non bordatura del reale, ti rimando la tua stessa domanda: è possibile ancora “raccontarci” ora che siamo a un passo dalla resa del linguaggio verbale?
G.D.: “Stare sulla soglia dell’altro”, non posso che sottoscrivere e riutilizzare questa tua bella definizione per provare a dire che “raccontarci” è un mantenerci all’erta, con le antenne puntate sull’alterità, sul diverso, che poi è l’unico modo perché l’arte, e la parola della poesia con essa, possa trovare ancora spazio o, con le parole assai più congrue di Fortini, “luogo a procedere”, per cui, cioè, possa emergere la speranza di una ancora plausibile trasmissione e di una “diversa possibile codificazione del reale e del linguaggio”. Non temere “il progredire”, annunci, e l’anamorfosi rievocata dal quadro di Holbein il Giovane, non fa che confermare l’urgenza di captare la trasformazione e rilanciarla, perché “il mio futuro non è che il presente di un altro” (ancora in Fortini), per rendere finalmente il tempo “redimibile” con buona pace delle derive moderniste.
G.G.: La bellezza sempre mobile del molteplice è l’arma contro l’“aggressività monadica del terrore”. Allo stesso tempo la poesia è proprio la testimonianza del fallimento dell’io e di ogni ideologia: lo sforzo di cogliere il mondo nella consapevolezza della sua irraggiungibilità. Errare e errare. Fallo! e fallo. È un errare nella valenza dell’errore e del peregrinare, del costeggiare il limite tra il soggetto e il mondo, sempre in asintoto, e sempre in asintoto può essere la parola rispetto al nucleo immaginario della poesia, perché il reale non ha altro che buchi. In questo senso il ciclo e riciclo è periodico ma non si fa mai unità e se si fa è dittatura d’amore o proprio negazione del desiderio. Negazione contro negoziazione dell’epizeusi periodica che non è nemmeno ossessione narcisa ma semplice ripetibilità e differenza del respiro. A proposito di molteplice e differenza, come hai scelto i poeti che poi hai analizzato nel tuo percorso? In generale chi sono stati i tuoi compagni di viaggio in queste letture?
G.D.: In buona sostanza occorre cogliere il mondo senza circoscriverlo. Chiudiamo, com’è giusto, ciclicamente sull’erranza che attraversa margini e non crea argini. Per questo mi è impossibile offrire un quadro stabile sulla scelta dei miei compagni di viaggio durante la composizione del libro che, oltretutto, è nato con una connotazione frammentaria e non è detto abbia raggiunto una conclusione unificatrice. Di più, neanche l’ha cercata, ha mantenuto la sua superficie rizomatica ad infinitum (come recita il titolo dell’ultimo capitolo). Quindi, gli autori non sono stati scelti ma, come sempre accade, sono semplicemente caduti nell’opera.
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