Il rumore della fabbrica

 

di Francesca Rossi Brunori

 

Illustrazione di Giuditta Chiaraluce

 

Andrà tutto bene. Andrà tutto bene. Ci vogliono tutti morti ma andrà tutto bene. Ci vogliono tutti indispensabili, ma andrà tutto bene. Ci vogliono soffocati nelle nostre mascherine, ma andrà tutto bene. Andrà tutto bene. Una di quelle frasi che ti diceva tua madre il primo giorno di scuola. Andrà tutto bene te lo avrebbe potuto dire il tuo compagno il primo giorno di un nuovo lavoro. Andrà tutto bene sì. Per tutti ma non per noi. Perché noi siamo sempre esortati a sopportare a supportare i beni di prima necessità degli altri che pure loro non fanno altro che sentire, sì andrà tutto bene. Il loro dovere è rimanere dentro casa. Il nostro è di rimanere chiusi in fabbrica – a fare che? Vestiti. Vestiti. Le nostre clienti anche se sono in quarantena hanno bisogno di sentirsi bene. Per questo, andrà tutto bene, si potrebbe convergere in ho bisogno di sentirmi bene, anche se sto a casa. E in mezzo all’andrà e al potrebbe prende forma un essere. Io.  L’operaio. E in mezzo prende forma uno spazio – la fabbrica. E dentro la fabbrica ci siamo noi. Puntuali anche in tempo di disastro. Timbra il cartellino. Entro. Timbra il cartellino. Esco. Un ingranaggio che non cede. Nemmeno di fronte ad una pandemia. Infatti, hanno detto, siamo tutti uguali, questo virus non fa distinzione, che tu sia di aspetto minuto, che tu abbia una fronte sporgente, naso all’insù, non c’è differenza. Che tu sia ricco o povero, non fa differenza. Io non mi sento uguale per niente a chi se ne sta a casa sua ad indossare i vestiti che fabbrico io. Non mi sento uguale per niente io. Bisogna trovarsi al posto giusto al momento giusto. Per coincidenza di cose mi ci sono trovata. Nel luogo fisico che continua a muoversi nonostante tutto. Lo vedi come sei fortunata? Tu puoi continuare a lavorare. “Guardami ah guardami come sono andata vestita oggi. Ah puoi solo immaginarlo perché non posso uscire. Ma sai, mi piace stare a casa vestita per bene”. È giusto. Lo so che è giusto. Nemmeno io mi lascerei andare dentro casa. Non voglio mica mettermi ad odiare chi indossa i vestiti che… ma io punto la sveglia alle cinque – tutti i giorni – mi lavo i denti mi vesto velocemente ho smesso di bere il caffè perché non ho bisogno di svegliarmi data la paura. Esco di casa e mi disegno nella testa la strada, la mia immaginazione mi fa vedere il percorso che devo seguire per arrivare al mio posto di lavoro. Lo so a memoria. Sempre dritto poi giri a destra dove trovi la solita vicina che butta fuori l’acqua sporca, ancora avanti passi davanti alla farmacia, ancora avanti all’incrocio, lì dove di solito ci sono Mohamed e i suoi amici che vendono accendini e calze e collane, ancora avanti e poi subito a sinistra. Arrivata. Avevo delle coordinate. Ma oggi le ho perse. Le ho perse da quando è iniziata questa pandemia. Perché in giro non c’è più nessuno. Mi sembra di muovermi in strade che non sono le mie. Casa dolce casa tienimi a te. Fabbrica dolce fabbrica, prendiamo le distanze.

Il tempo del lavoro il tempo del denaro il tempo della produzione il tempo di mettersi a pregare perché nessuno ti possa attaccare niente. Nemmeno un raffreddore. Perché ci sono dei momenti in cui prima di entrare dentro quella fabbrica, anzi no, prima, prima di uscire di casa, prima di vestirmi e prepararmi, ancora prima, prima di andare a dormire, prima di oggi, ieri… dal giorno prima, io inizio a sentire che il mio stomaco si contorce, mi fa male, mi viene una specie di paura, mi basta mettere i piedi fuori da casa per sentire che l’aria anche se è più pulita, pare più contaminata perché mica ce la fai a respirarla davvero, è più pulita ma tu la senti più pesante. Ti prego fai che non mi tocca pigliarmi sto virus ti prego fai che non mi prenda ti prego se non mi prende… che faccio se non mi prende. Ma che sto dicendo?

Stiamo vivendo un evento storico catastrofico. Torneremo alla normalità con un atteggiamento diverso. La consapevolezza di tutto ciò che abbiamo … mi viene da ridere. Io certe cose le sapevo già. Non avevo mica bisogno di una pandemia per saper che stavo vivendo in un mondo terribile, feroce. Ma voi in che realtà credevate di essere ospitati? Signor presidente la prego pensi anche a noi. Le voglio raccontare Oh mio presidente, il suono che sento la mattina appena mi sveglio – il rumore delle macchine della fabbrica? No ancora no appena mi sveglio dico, – anticipo – anticipo – il suono che sento la mattina mentre faccio colazione – il rumore della macchine della fabbrica – anticipo anticipo – sto solo bevendo del tè – troverai molto da ascoltare lì dentro – sono rumori che conosco bene li ho segnati – impressi impressi impressi – uno segue l’altro. Arrivano prima. Prima che io arrivi a loro, loro arrivano a me. Come i canti di quelle voci maschili che sembrano arrivare da lontano – quella musica sacra che risuona e poi quel silenzio, io il silenzio non lo sento mai, nemmeno appena mi sveglio. Appena mi sveglio arriva il rumore della fabbrica.

Mamma ti prego posso rimanere a casa? Piangi e piangi ancora ma tanto le lacrime non servono a farti rimanere a casa. Da piccola ti inventavi il male di pancia per non andare a scuola. A me viene il male di pancia ogni giorno – ma lì ci devo andare lo stesso. Ogni giorno.

Andrà tutto bene sì. Ma solo se difendiamo i diritti dei lavoratori. Incrociamo le braccia per chiedere sicurezza e chiusura delle attività produttive non essenziali!  Appelliamoci alla pace solidale! Alla responsabilità nazionale! Noi stiamo ancora lavorando. Si vede che vi siete un po’ confusi tra cosa sia essenziale e cosa no. La sicurezza dei lavoratori, ma solo se non si scontra con gli interessi della produzione, dei profitti. Perché ci mettono così tanto tempo, aggirano aggirano, fanno un salto all’indietro, e si girano dall’altra parte quando si parla di sicurezza, s i c u r e z z a si estingue quando il profitto diventa la specie più forte.

Cerco di ricordare i giorni felici che ho avuto prima di questa quarantena, ma non riesco, non li trovo, scivolano via, stanno scomparendo, un po’ come la crema che ti metti per massaggiarti le mani. Ridatemeli. Per avere un appiglio. perché…

Oh signor presidente noi le distanze di sicurezza mentre lavoriamo le manteniamo. Per poco. Appena dobbiamo andare in bagno, non possiamo rispettare più niente. Siamo tanti sa. E il bagno è uno solo. E’ piccolo. Me lo può dire lei come faccio a mantenere le distanze di sicurezza e non creare assembramento? Mica possiamo stabilire un orario per i bisogni fisiologici. Possiamo andare uno alla volta e alzare la mano? Dice che il bagno non è un problema.

Oh signor presidente noi le distanze di sicurezza mentre lavoriamo le manteniamo. Ma poi la produzione prevede che si debbano portare i capi da un settore all’altro. Dovrebbe vedere i corridoi. Stretti. Molto stretti. Possiamo alzare la mano anche qui. Magari mentre io porto i vestiti lungo il corridoio da sola, l’altra va in bagno e tutto il resto delle operaie rimangono a guardare. E aspettano il loro turno. Per il bagno. Per il corridoio. Anche per continuare a lavorare?

E poi ci tocca nutrirci. In una piccola piccola mensa. Dove o mangi in piedi o in un angolo o molto vicina alla tua collega. Le mascherine dobbiamo tirarle giù. Se no, come entra il cibo dalla bocca? Ma dopo le dobbiamo cambiare? Buttare? Ma se le abbiamo abbassate tutte nello stesso momento, dice che è meno pericoloso solo perché siamo in pausa pranzo? Non ci aveva pensato? Possiamo fare i turni. Ricapitoliamo. Mentre una va in bagno l’altra porta i vestiti quell’altra ancora mangia e tutte le rimanenti stanno a guardare. Possiamo fare così? Continuate a lavorare.

La memoria è collettiva. Ma labile. Di collettivo non rimane niente. Nemmeno la spartizione delle mascherine. Perchè se proprio glielo devo dire non è che prima fosse diverso. Se facciamo la conta dei morti, di tutte quelle fabbriche che avete deciso di portare via lontano, se facciamo la conta dei morti, allora mi viene da pensare che più che morti di virus, si potrebbero chiamare morti sul lavoro. Forse ve lo siete dimenticato.

E’ domenica. Siedo. Aspetto. Un sindacato qualsiasi che mi dica se da domani posso stare a casa. Sostenuta. Senza morire di fame. I vestiti li ho. La spesa l’ho fatta. Rifletto. Ascolto tutte le comunicazioni. Scuoto la testa. Siamo noi i lavoratori di una specie diversa. Che non si estinguerà per il virus. Perché è riuscita a non sparire prima. Siamo la specie vincente darwiniana noi. Sopravvissuti a ben altro. Ad una assenza di cure. E non straordinarie ed eccezionali come quelle di adesso. Ma basiche. Quelle che ti permettono di lavorare in fabbrica senza avere paura.

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1 commento

  1. Hai fatto bene a sollevare questo terribile argomento: lavoratori e lavoratrici mandati al fronte, sacrificati, per la salvezza di tutti (talvolta addirittura per il semplice profitto, che non viene tuttavia visto dalla collettività, al punto in cui siamo, come puro profitto ma come necessaria preparazione alla ripartenza). Noto che, se si tocca questo tema (la civiltà che si fonda sul sacrificio), che sembrava risalire alla notte dei tempi invece è all’ordine del giorno, anche brevemente sui social o per telefono con amici e conoscenti, c’è la tendenza a rimuovere.

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Giorgiomaria Cornelio
Giorgiomaria Cornelio è nato a Macerata nel 1997. E’ poeta, regista, curatore del progetto “Edizioni volatili” e redattore di “Nazione indiana”. Ha co-diretto insieme a Lucamatteo Rossi la “Trilogia dei viandanti” (2016-2020), presentata in numerosi festival cinematografici e spazi espositivi. Suoi interventi sono apparsi su «L’indiscreto», «Doppiozero», «Antinomie», «Il Tascabile Treccani» e altri. Ha pubblicato "La consegna delle braci" (Luca Sossella editore, Premio Fondazione Primoli, Premio Bologna in Lettere) e "La specie storta" (Tlon edizioni, Premio Montano, Premio Gozzano Under 30). Ha preso parte al progetto “Civitonia” (NERO Editions). Per Argolibri, ha curato "La radice dell'inchiostro. Dialoghi sulla poesia". La traduzione di Moira Egan di alcune sue poesie scelte ha vinto la RaizissDe Palchi Fellowship della Academy of American Poets. È il direttore artistico della festa “I fumi della fornace”. È laureato al Trinity College di Dublino.
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